Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 143
febbraio 1987


Rivista Anarchica Online

L'oscenità dell'indicibile
di Pino Bertelli

"Diversità, marginalità, devianza gettano il rancore della quotidianità offesa contro le miserie pedagogiche del presente". Prosegue la rassegna critica della cinematografia in tema di sessualità, travestimento, ecc... La prima parte ("La scena travestita") è apparsa su "A" 137.

Dall'età del Muto agli anni '60, la trasfigurazione dello schermo ha rappresentato/intrecciato trame del desiderio e farse mercantili.
Il cinema è il luogo dove l'"osceno" irrompe nel godimento collettivo e figura l'"indicibile" in gioco ammiccato, festa della "diversità" riservata a fugaci aneddoti o maliziose metafore. Da qualunque angolazione si guardi, ogni devianza è una spezzatura del costume e della società, la frattura evidente della simulazione del conforme.
La "fabbrica dell'effimero" e della prostituzione hollywoodiana, soffonde le barriere del proibito in un reale risarcito, articolato, spostato nel voyeurismo esibito dell'"oscenità" permessa. Sullo schermo l'oggetto della perversione è un fantasma, una maschera, la combinazione finta della trasgressione come spettacolo per tutti. Il mercato decide la confezione dei sogni e dei deliri. Quello che passa sulla tela bianca, sono peccati cinicamente confessati.
Nel gioco incrociato degli sguardi (non solo cinematografici), ogni devianza è riciclata come perversione, attentato all'abito sognante della morale costituita.
Quello che appare come "diversità" è anche il colpo al cuore dell'organizzazione razionale dei conflitti ideologici e intelligenze differenti. Il pensiero liberato dalle costrizioni della ragione e della morale tradizionale esplode nell'"immacolata concezione" di André Breton e Paul Eluard: "L'uomo e la donna che si amano non si amano abbastanza da assassinarsi la prima volta che si vedono" (1). Le "briglie sciolte" della sessualità liberata, anticipano il crollo dei valori (dei tabù) dominanti.
Cinema dell'apocalisse non è l'apoteosi della guerra dei desideri contro l'apologia del bigottismo cattolico/marxista che infradicia ogni opera di comunicazione. Cinema del rovesciamento di prospettiva è tutto quanto contribuisce a minare alla radice ogni fede e il garantismo della società attuale.
"Né la storia, né la psicologia, né la sociologia ci offrono qualche particolare ragione per guardare avanti con una certa speranza al dominio dei nuovi mandarini" (Noam Chomsky). Il pensiero libertario della conoscenza e della separazione, interroga i gendarmi del presente sui cadaveri imbalsamati, adorati del passato. Dio, Marx, lo Stato sono eventi di una "storia" che è nostro compito distruggere. Sulle macerie di ogni mito passano le generazioni dell'uguaglianza.
Sullo schermo, come altrove, vampate di libertà corrodono le menzogne della coerenza mercantile. L'intollerabile si traveste da "diverso" e sfida gli effetti del ruolo principale; la conciliazione tra permissività e metafora evita il conflitto e smussa la profondità del contrasto. La beatitudine del cinema per famiglie è la formula incontrastata del successo perenne. Lo scandalo occasionale è parte della commedia. Un "tumulto" piccante che serve a rendere ancora più violenta la censura o l'oppressione.
Ogni linguaggio è un'avventura che si articola o irrompe nel quotidiano attraverso mediazioni estetiche e politiche. Così Lev S. Vygotsky: "La comprensione del linguaggio consisterebbe in una catena di associazioni che vengono alla mente per l'influenza di immagini note e di parole. L'espressione del pensiero nella parola sarebbe il movimento inverso, sempre per vie associative, delle rappresentazioni - che corrispondono, sul piano del pensiero, agli oggetti - verso il loro significante verbale" (2).
Tutti i linguaggi sono strumenti machiavellici della pedagogia dominante. La menzogna accademica giustifica l'ingiustificabile nella proliferazione delle informazioni e sul tappeto tramato di ideologie coercitive. Si dice tutto per non dire niente e perpetuare l'ordinamento vigente.
Così Roland Barthes: "L'"innocenza" moderna parla del potere come se fosse uno: da una parte quelli che ce l'hanno, dall'altra quelli che non ce l'hanno; noi abbiamo creduto che il potere fosse un oggetto ideologico, che si insinui là dove non lo si avverte subito, nelle istituzioni, negli insegnamenti... il potere è presente nei meccanismi più raffinati dello scambio sociale: non solo nello Stato, nelle classi, nei gruppi, ma anche nelle mode, nelle opinioni correnti, negli spettacoli, nei giochi, negli sport, nelle informazioni, nelle relazioni familiari e private e persino nelle spinte liberatorie che tentano di contestarlo: io chiamo discorso di potere ogni discorso che dà origine alla colpa, e quindi al senso di colpa di chi lo riceve" (3). Sulle macerie della retorica borghese è stato eretto il carcere dell'intelligenza e i corvi saccenti dell'oppressione hanno contrabbandato la storia e la liberazione dei popoli nei supermercati della ragione lobotizzata (4).
Nella società multimediale, tutto quanto viene catalogato come "perversione" è anche immediatamente marcato come "sovversione". E non è del tutto errato. Ogni "peccato", crimine, devianza, infrazione/delegittimazione del gioco sociale evidente, rappresentano l'anomalia, la trasgressione, la disobbedienza, la rivolta contro l'insieme (regole, valori, riti, codici ecc.) della società moderna. La civiltà dell'immagine produce mitologie e infrazioni dello specchio conviviale nella scacchiera proliferante degli strumenti di comunicazione. Lo spettacolo del vuoto segna il vuoto della scena popolata dal pensiero mercantile, dove le favole dell'ideologia sono circoncise di ogni "cattività".
I "mercanti di sogni" hanno organizzato l'"oscenità" e l'"indicibile" nella conciliazione del sonno e del "buon costume" quotidiano. Lo straordinario giunge dallo schermo in maniera stupefacente o interpreta l'eccezione. Il cinema mercantile dissemina "difformità" per coprire le crepe reali dell'esistenza. Per più di 60 anni, l'omosessualità è apparsa sullo schermo come una vecchia scoria del costume sociale che non ha mai superato la propria infanzia.

Educazione autoritaria e pregiudizio
La diversità è dipinta come malattia o perversione. Le medicine contro ogni tipo di "anomalia" gettata contro il perbenismo conviviale, sono sempre le stesse: manicomio, galera, suicidio o la forca della giustizia.
Il pregiudizio non risiede nel fittizio delle ideologie marxiste/capitaliste o nella fede cristiana; il pregiudizio è la morale allargata dell'inautentico, una specie di dogma volgare che circola nelle teste di molti e marchia ogni devianza di marciume, confinandola nel ghetto amputato dell'a/moralità comunitaria del mondano.
Il pregiudizio è il sale velenoso dell'educazione autoritaria e "l'autorità, sotto qualunque forma essa si presenti, sarà sempre la peste del genere umano" (Carlo Cafiero).
Il cinema come "arte dello scandalo" fabbrica la credibilità di miti "maledetti" e la celluloide rende visibile l'inconsueto.
"I pupilli di Hollywood" (Kenneth Anger) sembrano insultare i loro datori di lavoro che, dopo il primo conflitto mondiale (1915-1918) hanno trasformato le fabbriche di cannoni in stabilimenti cinematografici.
Ma non sono certo i film di Cecil B. De Mille, "MANSLAUGHTER" (1922), "IL SEGNO DELLA CROCE" (THE SIGN OF THE CROSS, 1932) o il "SALOMÈ" (1923) di Charles Bryant a scuotere le convenzioni mercantili/morali della macchina/cinema dettate nel 1915 dalla Corte Suprema degli Stati Uniti: "lo spettacolo cinematografico è un puro e semplice affare economico, originato e gestito per profitto, come altri spettacoli, che non devono o dovranno essere considerati... come una parte della stampa della nazione o come organi di pubblica opinione" (5).
Per De Mille, il crociato di Hollywood, la trasgressione omosessuale (6) è l'amplificazione dell'"osceno" come decadenza (impudicizia) del costume. L'esibizionismo gay di Alla Nazimova/Salomé è tutto un florilegio di mondanità "peccaminose", libertinaggio frenato di una società dell'apparenza e della simulazione dove si predica ovunque l'"uguaglianza non libera dei consumatori per forza" (Theodor W. Adorno).
Se De Mille è il cantore plebeo del cattivo gusto e della malafede, Bryant e la sua musa, Nazinova, sono gli interpreti di un "cinema di cipria" che fuorvia la "diversità" nella maschera e mitologizza l'a/convenzionale sugli stessi itinerari linguistici/spettacolari dei custodi del pudore.
Organizzare il mercato cinematografico (e l'insieme dei mass-media) significa tessere le trame del consenso. L'ideologia dello spettacolo è tutta dentro le parole di Henry Ford, il fondatore della "Ford Motor Co.", l'uomo che per primo aveva capito che "è possibile aumentare il benessere delle classi lavoratrici; non col farle lavorare di meno, ma con l'aiutarle a produrre di più" (7) e consumare meglio. Infatti, nel 1908-1909 Ford butta sul mercato l'automobile per tutti (il Modello T), nel 1913 "inizia i primi esperimenti di catena di montaggio e nel 1914 introduce il salario minimo, per qualsiasi categoria di lavoratori, di cinque dollari la settimana, e abbassa la giornata lavorativa da nove ore a otto ore" (8). Il trionfo della famigerata "organizzazione del lavoro" secondo i precetti dell'ing. Frederick W. Taylor è segnato. La disumanizzazione del lavoro e la disintegrazione della classe operaia, comincia qui a svuotarsi di valori per divenire l'insieme spettacolare dell'ideologia del profitto.
La vittoria della rivoluzione d'Ottobre in Russia, i moti spartachisti in Germania, l'agitazione e l'azione anarchica ovunque esisteva miseria e oppressione, incendiavano l'infanzia del XX secolo.
"La libertà, che aveva vinto in Europa, cominciò a impallidire in America: sospetti socialisti, bolscevichi e anarchici furono arrestati in grandi retate e, almeno in un caso, fatti sfilare in catene per le vie di una città... Alcune delle vittime di questa persecuzione furono linciate" (9). Ancora una volta, tutto quanto cresce oltre o fuori lo schema abbrutente dell'indottrinamento statuale, viene reciso. Ogni "anomalia" è l'ostacolo da rimuovere per fortificare e ritemprare nella fede di Dio, nel Partito o nell'Organizzazione totalitaria delle Democrazie rampanti, le turbolenze delle masse.
Ovunque il coraggio dell'Utopia come conquista e pratica della libertà è ancora marchiato dai precetti di Lutero: "E quindi tutti quelli che possono colpiscano, ammazzino, e pugnalino, segretamente o palesemente, ricordando che non ci può esser nulla di più velenoso, dannoso o diabolico di un ribelle. È proprio come quando si deve uccidere un cane rabbioso; se non lo colpisci, ti colpirà lui, e un intero paese con te".
Non a torto, questo becchino di Dio, vede nel ribelle il portatore di tempeste del pensiero e dell'azione che spazzeranno via ogni tipo di "dittatura costituzionale" (Noam Chomsky).
A catalizzare l'euforia di un pubblico smisurato, sempre più avido di consumare/confondere il quotidiano con la liturgia infantile delle stelle di celluloide, i bottegai di Hollywood erogano il mondo dell'efebica visione di Rodolfo Valentino.
In "LA SIGNORA DELLE CAMELIE" (CAMILLE, 1921) di Ray C. Smallwood, "SANGUE E ARENA" (BLOOD AND SAND, 1922) di Fred Niblo, "L'AQUILA NERA" (THE EAGLE, 1925) di Clarence Brown, "IL FIGLIO DELLO SCEICCO" (THE SON OF THE SHAIK, 1926) di George Fitzmaurice, il "grande amante dello schermo d'argento" (Kevin Brownlow) muta il suo corpo (la sua immagine) secondo gli schemi richiesti. Valentino cambia personaggio (amante, torero, cosacco, sceicco ecc.), ma porta in ognuno dei suoi eroi l'androginia del suo mito il cui sesso - "duro come una spada, è tenero come un fiore" (Pier Paolo Pasolini).
L'ironica omosessualità di Valentino sborda oltre il "lenzuolo di neve" e schiude la duplicità dell'immaginario in un reale che riflette la coscienza/conoscenza della realtà. "Non era per il reale, ma per l'immagine del reale che si faceva ressa alle porte" (10) dei cinema di tutto il mondo. Il fascino ambiguo di Valentino sfondava ogni categoria codificata ed esaltava la dimensione pubblica della "differenza".
Valentino era comunque il servitore/interprete di un sogno artificiale (il cinema) che era (ed è) specchio/copia di un gioco mercantile capace di insinuare comportamenti, orientare gusti, modellare individui, ideologie, fedi secondo i canali politici correnti.

Eric von Stroheim l'iconoclasta
A rompere la saccente stupidità del "cinema per famiglie" è l'incendiario di tutte le convenzioni: Eric von Stroheim. L'iconoclastia, il realismo feroce di questo "rapace" della verità, risultarono intollerabili a mercanti e politici di ogni marca; l'intera opera di Stroheim fu bandita da Hollywood e "FEMMINE FOLLI" (FOOLISH WIVES, 1921), "RAPACITÀ" (GREED, 1924), "SINFONIA NUNZIALE" (THE WEDDING MARCH, 1926) o "QUEEN KELLY" (1928) furono oggetto di massacro delle case produttrici; smontati, rimontati da altri o incompiuti, i film di Stroheim vennero gettati a marcire nei magazzini dei loro padroni o/e distrutti come diluenti per smalto da unghie. Così Stroheim: "Non ero disposto a compromessi. Sapevo che dopo l'ultima guerra il pubblico dei cinematografi si era stancato dei "biscottini al cioccolato" cinematografici che gli erano stati cacciati in gola. Sapevo che gli spettatori erano pronti per una massiccia dose di "manzo coi cavoli", plebeo ma sincero. Sapevo che gli spettatori ne avevano abbastanza di storielline le cui eroine erano come bambole eternamente vergini e i cui eroi erano privi di peli e bianchi come gigli" (11). Stroheim sporcava lo schermo di autenticità. Attraverso la dissacrazione, la trasvalutazione di ogni mitologia sul "buon costume" della società americana, il cinema dell'austriaco affermava il vissuto clandestino, marginale della ragione offesa, contro il quotidiano morto dell'adorazione e della storia simulata.
Ogni volta che il cinema ha presentato tutta la propria capacità sovversiva, i padroni del mondano le hanno tagliato la testa. Il solo cinema permesso è quello che organizza il silenzio.
Le idiozie pettegole di Kenneth Anger sfogliano in superficie la carica eversiva del cinema di Stroheim e deliziano il palato cronachistico degli stolti. "Il fantastico bordello della "MARCIA NUNZIALE" - scrive Anger in "Hollywood Babilonia" - sfoggiava prostitute di ogni razza, ciascuna con la sua specialità erotica, nonché finocchi in parrucca bianca, con il corpo tinto di bianco, che suonavano gli strumenti a corda e avevano gli occhi bendati per non riconoscere i clienti "aristocratici"" (12).
La critica radicale di Stroheim contro i secondini del costume e il pattume mondano/culturale della "generazione dorata" americana, andava a scardinare l'insieme delle regole, dei valori codificati, bruciava l'origine del male e negava ogni conciliazione con la falsa socialità. Sotto i colpi della verità senza tamponi, Stroheim rompeva la chiacchiera filistea del cinema/merce e fiondava dalla "vela bianca", l'esistenza di un pensiero senza limitazioni o barriere moralistiche.
Dovunque, bordello e Parlamento sono sinonimi. Ogni devianza è una morbosità schizofrenica di pubblico dominio. Dovunque, l'omosessualità è ancora processata secondo la metrica di classe adoperata dagli inquisitori del processo a Oscar Wilde; così il pubblico ministero - "Fremiamo all'idea che simili atti possano compiersi in un albergo di prima categoria" (13).
L'intera opera di Stroheim anticipa l'agonia della festa, annuncia la messa a morte dello schermo/"paese delle meraviglie" come spettacolo per dementi. "Perfino nel peccato è difficile riuscire ad essere originali" (Oscar Wilde). Così Erich von Stroheim: "Non ho mai accettato compromessi... né in alcun caso ho ceduto al conformismo o alla moda... né mi sono lasciato attrarre dalle lusinghe del denaro... Ho sempre detto ciò che ritenevo fosse vero... Piacesse o non piacesse alla gente... Era in ogni caso la verità... come io la vedevo... E questa lucida consapevolezza è la mia ricompensa" (14). Il tentativo culturale dell'austriaco è stato quello di estirpare dagli occhi delle platee i segni/sogni organizzati sull'immaginario assoggettato.
Quando gli ex-lustrascarpe, ex-cappellai, ex-fabbricatori di guanti, ex-salumieri, ex-gangster ecc., si consociarono nella grande "bottega dell'immaginario", individuarono Stroheim come attentatore ai loro profitti e lo licenziarono. Tornato in Europa, il "fuggiasco da Hollywood" (Peter Noble) ebbe a dire: "Hollywood mi ha ucciso!". Il solito Anger non si sottrae a illazioni pretesche e restauri impauriti: "ed era il meno che Hollywood potesse fare al genio che aveva osato sfidare i suoi dogmi di cartapesta" (15).
Ogni dogma, ideologia o feticcio santificati nei gangli mercantili della s/ragione dominante, segnano l'affermazione dell'insignificante sull'autenticità del quotidiano oppresso.
Altrove abbiamo scritto: "Stroheim non intende spiegare il reale, racconta il vero. La deformazione dello spazio e il congelamento del tempo filmico lo rendono impietoso e ciò che coglie sono i fatti in processo dell'immaginario sociale; ogni mezzo è buono per arrivare alla realtà quando il reale traccia i propri confini repressivi e mostra il gioco putrido dell'ideologia corrente" (16).
Per Marjorie Rosen "von Stroheim era scomodamente onesto e moralmente faceto. Nondimeno i suoi film erano illeciti quanto bastava per attrarre un pubblico curioso... Precursore rispetto al suo tempo, von Stroheim fu troppo controverso per durare molto a Hollywood. I suoi film, permeati di arrogante e invertita sessualità, alla fine disgustarono più di quanto non attraessero" (17). Vero niente. Quello che la Rosen mostra di non aver capito dell'austriaco è l'attacco radicale alle convenzioni e ai codici di stabilità monocentrica dell'apparato borghese.
Tutte le mondanità corrompono, la stupidità abbrutisce.
Stroheim infonde al suo cinema i veleni della verità, della lacerazione dei ruoli. Principi e stallieri, regine e puttane, preti o criminali sono parte di un gioco di specchi dove la morale sessuale "civile" è la conseguenza di autorepressioni che sfoceranno in malattie nevrotiche.
I puritani dell'America immacolata degli anni '30 vennero scossi dalla dirompente meteora del sesso senza frontiere - Mae West -. Una bionda formosa, piuttosto mascolina che faceva arrossire, con le sue battute senza veli, intere generazioni. Le sue commedie, che scriveva e rappresentava negli States, furono oggetto di scandalo e merce di largo consumo.
"Sex", "Diamond Lil", "Pleasure Man", "The costant sinner" fecero della West la "dea del peccato" e i suoi film un "mostro" di dissoluzione dei valori della Famiglia Americana (timorata di Dio come dello Stato).
Per "The Drag" (1926), un vaudeville incentrato su personaggi omosessuali, la West fu sbattuta in carcere e il suo lavoro sequestrato dalla polizia di New York. In un'intervista a "Life" il 18 aprile 1969, la West ricorda che nel '26, quando "The Drag" usciva nei teatri periferici, aveva "spesso ammonito la polizia di New York a non picchiare gli omosessuali, perché un omosessuale è un'anima di donna in un corpo maschile" (18).

Le forbici della censura
Quasi tutti i film della West incapparono nelle forbici censorie del "Codice Hays". "LADY LOU" (SHE DONE HIM WRONG, 1933) di Lowell Sherman, "I'M NO ANGEL" (1933) dl Wesley Ruggles, "BELLE OF THE NINETIES" (NON È PECCATO, 1934) di Leo McCarey, "KLONDIKE ANNIE" (1936) di Raoul Walsh subirono amputazioni dell'ironia libertina, dissacratoria della "bomba del sesso".
Ricordiamolo. Il "Motion Picture Production Code" fu pensato da William H. Hays ed elaborato dal reverendo Daniel A. Lord della Compagnia di Gesù. Entrò in funzione il 31 marzo 1930. "Esso costituisce non soltanto il punto di arrivo delle dispute sulla moralità del cinematografo, sui suoi pericoli, sull'influenza sui giovani, sul bisogno di un'autoregolamentazione morale e ideologica della produzione cinematografica, ma anche una sorta di summa del conformismo imperante, del perbenismo piccolo-borghese, di quella mentalità sostanzialmente ipocrita e utilitaristica che per molti anni caratterizzò il cinema hollywoodiano" (19).
I tagli dei censori sconvolsero gli intrecci, modificarono i dialoghi, resero incomprensibili molti passaggi dei film della regina dello "Shimmy" (20). Il fenomeno trasgressivo - Mae West - esplose comunque sullo schermo. La camminata a buttafuori di bordello, i doppi sensi erotici, la smorfia plebea del suo sorriso, l'abbondanza formosa del suo corpo rovesciarono le armi consuete delle "sex symbol" dell'epoca.
Clara Bow, Pola Negri, Jean Harlow, Joan Blondell si avviluppavano di lustrini, sete, mistero e fatui amori consumati sotto una luna di carta velina. Aiutavano il mondo a sognare. A dimenticare i propri affanni quotidiani. Ogni metro di pellicola affermava il rispetto all'ordine dominante e avvertiva delle sue frustate. L'americanizzazione del mondo per mezzo del cinema era una crociata di moralizzazione dell'immaginario collettivo. La celluloide rappresentava lo specchio merce di un quotidiano che veniva educato all'"osceno" esibito come farsa.
Mae West "polarizzò il sesso e lo trasformò in incassi come non era mai capitato con un solo bacio appassionato" (Marjorie Rosen). La fantasia, il gioco, il sogno, l'amarezza dello scenario reale rappresentavano i filamenti/generi della sua seduzione. L'oltraggio dell'osceno si rovesciava nell'oscenità del vero. "La personalità è un bagliore - scrisse da qualche parte Mae West -, è la capacità di proiettare la propria piccola luce al di là dell'orchestra, in quel vasto spazio buio dove sta il pubblico" (21).
Nel cinema, la particolarità di "Mae" era appunto quella di eliminare la distanza consueta tra mito e pubblico. Tra feticcio e adorazione.
La West ha fatto dell'osceno un oggetto. Ha cancellato il luogo/specchio della simbolizzazione del proibito portando agli occhi di tutti la permissività, l'incitazione ad osare, l'invito a distruggere tutti i tabù della prigione sociale per andare a cogliere nel vissuto i sapori di un'esistenza senza sipari.
Fino al secondo conflitto mondiale, gli amori "strani", i desideri soddisfatti della "diversità" sopravvivono al margine o nell'ombra/metafora del cinema "industriale".
La trasversalità omosessuale si riflette comunque sulla tela verginale (il pallore dello schermo domenicale) e la clandestinità del piacere senza norme diserta l'impostura del visibile. La frattura della coscienza omosessuale è anche la coscienza della frattura sociale. Svuotata nei simulacri di una vita apparente, l'esistenza quotidiana si misura nella passività allargata, nell'uniformazione al consenso (caricaturale) di interi strati sociali all'organizzazione tirannica del profitto.
"NOSFERATU, EINE SYMPHONIE DES GRAUENS" (NOSFERATU IL VAMPIRO ,1922) di Friedrich W. Murnau, "DIE BUCHSE DER PANDORA" (LULU, 1929) di G.W. Pabst, "LE SANG D'UN POETE" (IL SANGUE DI UN POETA, 1930) di Jean Cocteau, "MADCHEN IN UNIFORM" (RAGAZZE IN UNIFORME, 1931) di Leontine Sagan, "QUEEN CHRISTINA" (LA REGINA CRISTINA, 1933) di Rouben Mamoulian, "FRANKENSTEIN" (1931) e "FRANKENSTEIN'S BRIDE" (LA SPOSA DI FRANKENSTEIN" 1935) di James Whale, "THESE THREE" (LA CALUNNIA, 1936) di William Wyler, "FIREWORKS" (1947) di Kenneth Anger, "UN CHANT D'AMOUR" (UN CANTO D'AMORE, 1947) di Jean Genet, su piani espressivi dissimili, manifestano piuttosto apertamente l'"oscenità del diverso" contro le convenzioni spettacolari della comunità.
I mostri di Whale (Frankenstein) e Murnau (Nosferatu) non sono affatto figure del male o esseri ripugnanti che dovunque appaiono seminano terrore e morte. Frankenstein e Nosferatu sono in fondo tenere creature dell'"anomalia" che pagano con la vita il loro bisogno di amore.
Quello che Frankenstein e Nosferatu cercano di abolire è il Regno dell'apparenza come alibi ideologico dell'oggettività. La loro mostruosità provoca lo sconvolgimento del quotidiano drammatizzando i fasti popolari della retorica.
L'intenzione profonda di Frankenstein e Nosferatu è la sovversione della coscienza e la distruzione di ogni dogma, di ogni tabù; "una qualsiasi sovversione non è altro che il riflesso di un conflitto materiale all'interno della società in cui lati opposti usano espedienti sia offensivi che difensivi per proteggere se stessi... Il sovversivo attacca qualche cosa "sotto controllo" e desidera sostituirla con qualche cosa che non esiste ancora e su cui non ha ancora potere" (22).
Whale e Murnau erano omosessuali dichiarati. Come per i loro "mostri", la vita nel tempio dell'effimero (Hollywood) non fu loro facile. I contrasti con i mecenati del sogno e della buona condotta furono accesi. Sovente mancò il lavoro o ne furono esautorati. Finirono male, come le loro "creature". James Whale muore nel 1957 nella sua piscina in circostanze misteriose; Murnau rimane ucciso in uno strano incidente stradale sulla strada di Monterey il 18 marzo 1931. Pochi giorni dopo l'uscita del suo film più "magico" e libero, "TABU". Per entrambi, la storiografia ha sempre occultato la parola suicidio.
L'inquietante omosessualità che pervade "LULU", "QUEEN CRISTINA" e "LA CALUNNIA" è catalogata in tracce che indicano l'abbattimento della maschera, l'estensione di un'altra presenza oltre quella attorale.
Gli sguardi, gli atteggiamenti, l'esclusività del rapporto passionale di Louise Brooks e Alice Roberts in "LULU", disegnano l'eccentricità dell'"osceno" e si offrono "come ostia immaginaria a finzioni in cui prolifera un desiderio abbrutito" (Rino Mele), quello del voyeurismo modistico/mercantile che non trapassa lo stadio dello specchio/schermo (del riflesso filmico) ma resta imbrigliato nei fantasmi di un mondo senza sole e nei feticci di un immaginario simbolico dove la presenza del vero è riducibile al sogno deviante che ognuno desidera godere.
Pabst è stato abilissimo nell'uso del corpo e del viso di Louise Brooks. L'ha fotografato con luce radente e il taglio espressionista delle inquadrature gli conferisce quell'aura di mistero e di perversione/liberazione che sono al fondo del dramma di Wedekind.
Avvolta nell'ombra, tagliata da luci fredde e a tratti violente, la Brooks incarna il peccato, il gioco, la fantasia, la trasversalità di un discorso irrispettoso che poggia il proprio successo sulla retorica dei divieti. L'ambiguità di Lulu/Brooks è uno "stile" che rivendica la propria "diversità" come valore, frammento di verità sospesa tra il rifiuto della codificazione e lo sconvolgimento dei linguaggi istituzionalizzati.
Quando si parla di omosessualità, scrive André Gide, "le incomprensioni sono cosi grandi, e le intransigenze cosi feroci.
Quanto a me, che capisco il piacere solo faccia a faccia, reciproco e senza violenza, e che spesso, come Whitman, sono soddisfatto dal più furtivo contatto, ero terrificato sia dal modo di comportarsi di Daniel, sia dalla compiacenza con cui Mohammed vi si prestava" (23). Rotti i veli del dicibile, consumata la morale ricevuta, scardinata l'educazione imposta, la penetrazione della libertà diventa interpretazione della verità.
Il bacio sulla bocca di Greta Garbo a Elizabeth Young in "QUEEN CHRISTINA" fece trasalire non poco critica e pubblico.
L'androgina Garbo carica questa regina senza sorriso di connotazioni singolari. La sua voce roca con il lieve accento straniero ammanta lo schermo di sensualità. I primi piani a luce soffusa (flou) del celebre William Daniels non riescono a celare del tutto il fantasma della "diversità" che pervade il volto della Garbo. La gestualità, la camminatura, il modo di baciare uomini e donne, diretto, esuberante, possessivo cancellano la freddezza del mascheramento regale ed enunciano i bagliori di una liberazione. La donna uccide la regina e gode di tutto quanto il suo amore richiede.
Passioni tumultuose, fratture esistenziali, insanabile tristezza per un quotidiano meno fittizio, avvolgono Christina/Garbo in un immaginario combinato dove la perdita dell'identità segna una barriera di godimento negato.
Quando la contessa Ebba Sparre (Elizabeth Young) tradisce il loro amore, Christina si veste da paggio e finisce nel letto di una locanda con Don Antonio (John Gilbert). I ruoli si invertono ma il gioco delle parti gira ancora intorno al fuoco iconoclasta dell'ambiguità.

Contro la tirannide del conformismo
Con "LA CALUNNIA" Wyler intendeva battersi contro la tirannide dell'apparenza e le amenità rancide del conforme visti come fuga dalla libertà.
Il film è tratto dal dramma di Lillian Hellman "THE CHILDREN'S HOUR" (che ha curato anche la sceneggiatura). Il produttore (Samuel Goldwyn), un ex-venditore ambulante di guanti, impose a Wyler di celare negli artifici accattivanti del melodramma le affettività omosessuali di Martha Dobie (Miriam Hopkins) e Karen Wright (Merle Oberon). Wyler, che non è mai stato un leone in fatto di difesa della propria espressività artistica, incentrò il film sulla cattiveria di Mary Tilford (Bonita Granville), la spietata delatrice della relazione (la calunnia!) di Martha con il fidanzato di Karen (Joel McCrea). Il collegio per ragazze della buona borghesia, fondato dalle due amiche, cade nell'amoralità e nello scandalo. Alla fine l'infamia di Mary viene espulsa dagli occhi del pubblico con la ricucitura dell'amore ritrovato tra Karen e Joseph. Martha resterà sola a scontare la sua "colpa", quella di avere amato un'altra donna (24).
Wyler non lo dice così ma è a questo che mira. Quando nel 1961 girerà il remake "QUELLE DUE" (THE CHILDRENS'S HOUR) la passione omosessuale delle due donne sarà pronunciata ma l'insieme del lavoro risulta una commediola senza forza né volontà di affermare direttamente il problema centrale: l'omosessualità femminile.
A cancellare la devianza gratificante dello schermo mercantile è Leontine Sagan con "RAGAZZE IN UNIFORME". Un film abbastanza grezzo, incerto nell'attoralità, approssimativo nel montaggio, fotografato male ma che sfodera un notevole coraggio nell'affrontare alla gola la sofferta omosessualità di una studentessa, Manuela von Meinhards (Herta Thiele) con la sua insegnante, la signorina von Bernburg (Dorothea Wieck).
"RAGAZZE IN UNIFORME" si svolge in un collegio per figlie di ufficiali prussiani decaduti. La Sagan non tradisce lo spirito antiautoritario del dramma di Christa Winsloe, "GESTERN UND HEUTE", sotto un certo taglio lo amplifica e in qualche modo annuncia l'imminenza del totalitarismo di Hitler.
Nella copia più vista (25), dopo che la studentessa ha rivelato il suo amore alla signorina von Bernburg, tenterà il suicidio ma sarà salvata dalle compagne che osteggiano minacciosamente la direttrice. Intanto nel cortile della caserma vicina, squilli di tromba inquadrano i soldati nei ranghi. L'ordine prima di tutto e soprattutto. La facciata del nazionalsocialismo non è solo nel "passo dell'oca", nell'efficienza della burocrazia, nella gaiezza della gioventù ariana, ma è soprattutto nella tollerabilità del ruolo, nella difesa a oltranza dei valori - Dio, Patria, Esercito, Famiglia - come alveo della politica del restauro e del riscatto.
La tirannide del conformismo si cela sotto ogni bandiera ed è tutto quanto giustifica le idee correnti e consolida l'ordito famelico del terrore istituzionale.
"RAGAZZE IN UNIFORME" non è solo la descrizione "pulita" di un'amore senza tabù, è anche un atto di accusa contro ogni autorità. La direttrice della scuola è il vecchio spirito guerraiolo prussiano che preannuncia gli effetti dell'ondata uncinata nazista; nel collegio di Potsdam "gira sempre con un bastone e dirama ordini del giorno che ricordano i gloriosi tempi della guerra dei sette anni". Irritata, ad esempio, dalle lamentele per la scarsezza del cibo, proclama: - "ci risolleveremo attraverso la disciplina e la fame, la fame e la disciplina" - (26). Di li a poco, l'ombra schizoide di Hitler farà del mondo carne da cannone.
La critica di "RAGAZZE IN UNIFORME" è piuttosto variegata e superficiale. Dall'apoteosi della perfezione tecnica (27), che non c'è!, si passa alla citazione approssimativa, confezionata su moduli del linguaggio teatrale (28) e se è vero che il film della Sagan è una delle poche opere del cinema europeo - prima del diluvio bellico - "ad avere una sensibilità intimamente gay", occorre dire che "RAGAZZE IN UNIFORME" non è stato "scritto, prodotto e diretto da donne". (29).
La grandezza del film ci pare essere nella trattazione indiretta, nell'assemblaggio di atmosfere anelanti la libertà e voglia di vivere la propria vita. L'epicità del dettaglio, la significazione ironica di certi momenti, l'estrema secchezza della storia evidenziano il carattere della produzione indipendente (30) e questa "provvisorietà artistica" è anche l'intimo, profondo valore del cinema irregolare.
"LE SANG D'UN POETE" di Cocteau, "FIREWORKS" di Anger, "UN CHANT D'AMOUR" di Genet sono tentativi, anche maldestri, di mutare la fruizione mercantile (offerta/domanda) della macchina/cinema. Qui lo schermo non è il luogo di dolcificazione del reale ma l'occhio negato della realtà maledetta.
Pagine di diario, amori intollerabili, storie omosessuali incrociano i loro destini (non solo artistici) nella fatica dell'esistenza e nei furori d'avanguardia del pensiero senza censure.
Imboccata la via della diserzione sociale, Cocteau, Anger e Genet portano la subcultura del cinema trasversale/sperimentale a insidiare la pubblica coscienza. Sotto un certo taglio le loro opere lavorano nella "surrealtà" dell'egoismo collettivo e infangano la facciata dell'ordine costituito con l'irriverenza del gioco, la fatuità del sogno, la rabbia nichilista della rivolta individuale.
"LE SANG D'UN POETE" è un tableau di stili disparati e pretenziosi. Le ingenuità tecniche di Méliès sono fuse con le affabulazioni barocche di Cocteau che nel ripescaggio di pratiche eretiche del Surrealismo (31) confina il film nel simbolico, smussando non poco le tendenze stranianti del soggetto.
I trucchi di Cocteau amplificano il rapporto tra il poeta, l'omosessualità e la sua opera; a una lettura ipercritica, "LE SANG D'UN POETE" si presenta come "un documentario realista di avvenimenti reali" (Jean Cocteau), chiama alla riflessione della platea fuori dall'abituale torpore cinematografico.
Per Anger "FIREWORKS" è la "liberazione di desideri incandescenti, di giorno annegati sotto la fredda acqua della coscienza... accesi di notte i fiammiferi liberatori del sonno... scoppiano in cascate luminose" (32). La liberazione immaginaria, momentanea di Anger è nel sogno/desiderio di un'aggressione. Un gruppo di marinai sevizia il protagonista dell'incubo (Kenneth Anger). Nell'ultima scena Anger si sbottona i pantaloni e il suo pene si trasforma in fuochi d'artificio. "Intensità, pena e immaginazione poetica trasformano gli elementi autobiografici in arte" (33).
È Genet ad affondare le menzogne dell'arte e le scuole della fatalità perseguitata. "UN CHANT D'AMOUR" è il rovesciamento della prigione/sessualità in favore della liberazione dell'esistenza. Le mani dei carcerati di Genet si toccano, figurano mondi senza barriere e la masturbazione apre visioni e frenesie sessuali che si chiudono in un atto d'amore: dei fiori ancora vivi, passano da una finestra a quella della cella vicina.
"L'unico film di Genet - perseguitato dai censori, introvabile, segreto - è un primo ed emozionante tentativo di ritrarre delle passioni omosessuali. Già un classico, esso riesce, come forse nessun altro film, a far conoscere il potere esplosivo del sesso frustrato" (34). "UN CHAXT D'AMOUR" si oppone ad ogni tipo di segregazione, rivendica la vita per attuare l'utopia concreta.
Diversità, marginalità, devianza gettano il rancore della quotidianità offesa contro le miserie pedagogiche del presente. Tra le lingue dell'obbedienza e della servitù prezzolata, il cinema risplende della propria morte espressiva. Il mondo si fa merce e il cinema si erge a cantore del mondo. "Il cinema è una religione, un rituale e si compone di norme da seguire e chi non corrisponde, come nella società, viene espulso" (35). La critica radicale di tutti i valori/simulacri della società è il fronte del discorso liberato da tutte le mitologie sul "buon governo" e le pastoie clientelari della cultura.
Nel naufragio delle istituzioni, la politica dell'ingiustizia copre le fogne dell'impero e lo scollacciamento del costume sposa l'estetica di "Amica". La consapevolezza che tutte le verità sono zoppe è ormai di pubblico dominio. Il reale è spettacolo ma lo spettacolo del reale (cioè del "vero") non ha avuto ancora inizio.
Liberare la critica dai guinzagli della politica e della cultura è già un atto sovversivo. Si tratta di sommuovere il sottobosco della ribellione per andare a cogliere - oltre lo schermo - la fine dell'impossibile.


(1) André Breton - Paul Eluard: L'immacolata concezione, Forum 1968, pag. 71.

(2) Lev S. Vygotsky: Pensiero e linguaggio, a cura di Angiola Massucco Costa, Giunti-Barbera 1976, pag. 152.

(3) Roland Barthes: Leçon, Stampa Alternativa/Kane Editore, 1979, pagine non numerate.

(4) Contro ogni tipo di educazione autoritaria, vedi: La pedagogia degli oppressi di Paulo Freire, Mondadori 1980; L'educazione come pratica della libertà di Paulo Freire, Mondadori 1977; L'educazione libertaria di Joel Spring, Antistato 1981; La scuola moderna di Francisco Ferrer, La Baronata.

(5) Vedi: Lo schermo velato/l'omosessualità nel cinema di Vito Russo, Costa & Nolan 1984,pag.36.

(6) In questo saggio, i termini omosessuale e omosessualità, sono usati indistintamente per maschi e femmine.

(7) Vedi: Cinema muto hollywoodiano e organizzazione sociale di Giorgio Fabre (bozze di stampa), La Biennale di Venezia 1975, pag. 119.

(8) Ibidem, pag. 185.

(9) Kewin Brownow: Hollywood/L'era del muto, Garzanti 1980, pag.82.

(10) Edgar Morin: Il cinema o l'uomo immaginario, Feltrinelli 1982, pag. 33.

(11) In: Hollywood/ L'era del muto, pag. 249, op. cit.

(12) Kenneth Anger: Hollywood Babilonia, Adelphi 1979, pag. 117.

(13) Vedi il saggio di Franco Cuomo come introduzione a Oscar Wilde, antologia di scritti etici ed estetici, Savelli 1979, pag. 37 .

(14) In: Fuggiasco da Hollywood di Peter Noble, Il Saggiatore 1964, pag. 10.

(15) Kenneth Anger: pag. 124, op. cit.

(16) Vedi: La macchina/cinema e l'immaginario assoggettato,Tracce 1982, pag.81.

(17) Marjorie Rosen: La donna e il cinema, Dall'Oglio 1978, pagg. 45/48.

(18) Vedi: Lo schermo velato, pag. 73, op. cit.

(19) Vedi: Il cinema/Grande storia illustrata I, De Agostini 1981, pag.182.

(20) Lo "Shimmy Shawobble" era un ballo dei ghetti neri negli anni '30. La West lo conobbe nel South Side di Chicago e lo incluse nei suoi spettacoli. Lo scandalo fu enorme. La voce dei bassifondi neri tuonava a Broadway.

(21) In: Mae West di Michel Bavar a cura di Ted Sennet, Milano Libri 1977, pag. 8.

(22) Amos Vogel: Il cinema come arte sovversiva, Studio Forma 1980, pag. 169.

(23) André Gide: Se il seme non muore, Mondadori 1975, pag. 243.

(24) Ne "LA CALUNNIA" Wyler ha usato con grande abilità la profondità di campo e l'eccellente fotografia di Gregg Toland ha conferito al film una sorta di solennità figurativa che ha molto fatto sopravalutare il prodotto.

(25) Negli Stati Uniti circola una copia di "RAGAZZE IN UNIFORME" dove la ragazza si getta dall'alto del collegio e si schianta ai piedi della perfida direttrice.

(26) Siegfried Kracauer: Cinema tedesco/Dal "Gabinetto del dottor Caligari" a Hitler, Mondadori 1977, pag. 233.

(27) Cfr.: Dizionario universale del cinema a cura di Fernaldo Di Giammatteo, Editori Riuniti 1984, pag. 618, la scheda è firmata B.V., G.D.F.

(28) Lotte H. Eisner: Lo schermo demoniaco, Editori Riuniti 1983, pag. 223.

(29) Vito Russo: pag.75, op. cit. "RAGAZZE IN UNIFORME" si può considerare un film sperimentale scritto, prodotto e diretto da donne se teniamo conto dell'apporto di supervisore del mestierante Carl Frölich, che forse ha spuntato idee e limato emozioni in cambio di suggerimenti tecnici e quadrature linguistiche.

(30) Vedi: Di fronte allo schermo/Materiali per il terzo incontro di cinema delle donne "Il gioco nello specchio", di AA.W., La casa Usher 1981, pag.116.

(31) Benché Cocteau abbia negato qualsiasi influenza surrealista (e il suo film fu respinto violentemente dai surrealisti), "LE SANG D'UN POETE" contiene non pochi debiti della poetica eversiva del Surrealismo.

(32) Vedi: Lo schermo velato, pag. 124, op. cit.

(33) Amos Vogel: pag.249 , op. cit.

(34) Amos Vogel: pag.248, op. cit"

(35) Lina Mangiacapre: Cinema al femminile, Mastrogiacomo 1980, pag. 4.