Rivista Anarchica Online
L'oscenità
dell'indicibile
di Pino Bertelli
"Diversità,
marginalità, devianza gettano il rancore della quotidianità offesa
contro le miserie pedagogiche del presente". Prosegue la
rassegna critica della cinematografia in tema di sessualità,
travestimento, ecc... La prima parte
("La scena travestita") è apparsa su "A" 137.
Dall'età del Muto
agli anni '60, la trasfigurazione dello schermo ha
rappresentato/intrecciato trame del desiderio e farse mercantili. Il cinema è il
luogo dove l'"osceno" irrompe nel godimento collettivo e
figura l'"indicibile" in gioco ammiccato, festa della
"diversità" riservata a fugaci aneddoti o maliziose metafore.
Da qualunque angolazione si guardi, ogni devianza è una spezzatura
del costume e della società, la frattura evidente della simulazione
del conforme. La "fabbrica
dell'effimero" e della prostituzione hollywoodiana, soffonde le
barriere del proibito in un reale risarcito, articolato, spostato nel
voyeurismo esibito dell'"oscenità" permessa. Sullo schermo
l'oggetto della perversione è un fantasma, una maschera, la
combinazione finta della trasgressione come spettacolo per tutti. Il
mercato decide la confezione dei sogni e dei deliri. Quello che passa
sulla tela bianca, sono peccati cinicamente confessati. Nel gioco
incrociato degli sguardi (non solo cinematografici), ogni devianza è
riciclata come perversione, attentato all'abito sognante della morale
costituita. Quello che appare
come "diversità" è anche il colpo al cuore
dell'organizzazione razionale dei conflitti ideologici e intelligenze
differenti. Il pensiero liberato dalle costrizioni della ragione e
della morale tradizionale esplode nell'"immacolata concezione"
di André Breton e Paul Eluard: "L'uomo e la donna che si amano
non si amano abbastanza da assassinarsi la prima volta che si vedono"
(1). Le "briglie sciolte" della sessualità liberata,
anticipano il crollo dei valori (dei tabù) dominanti. Cinema
dell'apocalisse non è l'apoteosi della guerra dei desideri contro
l'apologia del bigottismo cattolico/marxista che infradicia ogni
opera di comunicazione. Cinema del rovesciamento di prospettiva è
tutto quanto contribuisce a minare alla radice ogni fede e il
garantismo della società attuale. "Né la storia,
né la psicologia, né la sociologia ci offrono qualche particolare
ragione per guardare avanti con una certa speranza al dominio dei
nuovi mandarini" (Noam Chomsky). Il pensiero libertario della
conoscenza e della separazione, interroga i gendarmi del presente sui
cadaveri imbalsamati, adorati del passato. Dio, Marx, lo Stato sono
eventi di una "storia" che è nostro compito distruggere.
Sulle macerie di ogni mito passano le generazioni dell'uguaglianza. Sullo schermo, come
altrove, vampate di libertà corrodono le menzogne della coerenza
mercantile. L'intollerabile si traveste da "diverso" e
sfida gli effetti del ruolo principale; la conciliazione tra
permissività e metafora evita il conflitto e smussa la profondità
del contrasto. La beatitudine del cinema per famiglie è la formula
incontrastata del successo perenne. Lo scandalo occasionale è parte
della commedia. Un "tumulto" piccante che serve a rendere
ancora più violenta la censura o l'oppressione. Ogni linguaggio è
un'avventura che si articola o irrompe nel quotidiano attraverso
mediazioni estetiche e politiche. Così Lev S. Vygotsky: "La
comprensione del linguaggio consisterebbe in una catena di
associazioni che vengono alla mente per l'influenza di immagini note
e di parole. L'espressione del pensiero nella parola sarebbe il
movimento inverso, sempre per vie associative, delle rappresentazioni
- che corrispondono, sul piano del pensiero, agli oggetti - verso il
loro significante verbale" (2). Tutti i linguaggi
sono strumenti machiavellici della pedagogia dominante. La menzogna
accademica giustifica l'ingiustificabile nella proliferazione delle
informazioni e sul tappeto tramato di ideologie coercitive. Si dice
tutto per non dire niente e perpetuare l'ordinamento vigente. Così Roland
Barthes: "L'"innocenza" moderna parla del potere come
se fosse uno: da una parte quelli che ce l'hanno, dall'altra quelli
che non ce l'hanno; noi abbiamo creduto che il potere fosse un
oggetto ideologico, che si insinui là dove non lo si avverte subito,
nelle istituzioni, negli insegnamenti... il potere è presente nei
meccanismi più raffinati dello scambio sociale: non solo nello
Stato, nelle classi, nei gruppi, ma anche nelle mode, nelle opinioni
correnti, negli spettacoli, nei giochi, negli sport, nelle
informazioni, nelle relazioni familiari e private e persino nelle
spinte liberatorie che tentano di contestarlo: io chiamo discorso di
potere ogni discorso che dà origine alla colpa, e quindi al senso di
colpa di chi lo riceve" (3). Sulle macerie della retorica
borghese è stato eretto il carcere dell'intelligenza e i corvi
saccenti dell'oppressione hanno contrabbandato la storia e la
liberazione dei popoli nei supermercati della ragione lobotizzata
(4). Nella società
multimediale, tutto quanto viene catalogato come "perversione"
è anche immediatamente marcato come "sovversione". E non è
del tutto errato. Ogni "peccato", crimine, devianza,
infrazione/delegittimazione del gioco sociale evidente, rappresentano
l'anomalia, la trasgressione, la disobbedienza, la rivolta contro
l'insieme (regole, valori, riti, codici ecc.) della società moderna.
La civiltà dell'immagine produce mitologie e infrazioni dello
specchio conviviale nella scacchiera proliferante degli strumenti di
comunicazione. Lo spettacolo del vuoto segna il vuoto della scena
popolata dal pensiero mercantile, dove le favole dell'ideologia sono
circoncise di ogni "cattività". I "mercanti di
sogni" hanno organizzato l'"oscenità" e l'"indicibile"
nella conciliazione del sonno e del "buon costume"
quotidiano. Lo straordinario giunge dallo schermo in maniera
stupefacente o interpreta l'eccezione. Il cinema mercantile dissemina
"difformità" per coprire le crepe reali dell'esistenza.
Per più di 60 anni, l'omosessualità è apparsa sullo schermo come
una vecchia scoria del costume sociale che non ha mai superato la
propria infanzia.
Educazione
autoritaria e pregiudizio
La diversità è
dipinta come malattia o perversione. Le medicine contro ogni tipo di
"anomalia" gettata contro il perbenismo conviviale, sono
sempre le stesse: manicomio, galera, suicidio o la forca della
giustizia. Il pregiudizio non
risiede nel fittizio delle ideologie marxiste/capitaliste o nella
fede cristiana; il pregiudizio è la morale allargata
dell'inautentico, una specie di dogma volgare che circola nelle teste
di molti e marchia ogni devianza di marciume, confinandola nel ghetto
amputato dell'a/moralità comunitaria del mondano. Il pregiudizio è
il sale velenoso dell'educazione autoritaria e "l'autorità,
sotto qualunque forma essa si presenti, sarà sempre la peste del
genere umano" (Carlo Cafiero). Il cinema come
"arte dello scandalo" fabbrica la credibilità di miti
"maledetti" e la celluloide rende visibile l'inconsueto. "I pupilli di
Hollywood" (Kenneth Anger) sembrano insultare i loro datori di
lavoro che, dopo il primo conflitto mondiale (1915-1918) hanno
trasformato le fabbriche di cannoni in stabilimenti cinematografici. Ma non sono certo i
film di Cecil B. De Mille, "MANSLAUGHTER" (1922), "IL SEGNO
DELLA CROCE" (THE SIGN OF THE CROSS, 1932) o il "SALOMÈ"
(1923) di Charles Bryant a scuotere le convenzioni mercantili/morali
della macchina/cinema dettate nel 1915 dalla Corte Suprema degli
Stati Uniti: "lo spettacolo cinematografico è un puro e
semplice affare economico, originato e gestito per profitto, come
altri spettacoli, che non devono o dovranno essere considerati...
come una parte della stampa della nazione o come organi di pubblica
opinione" (5). Per De Mille, il
crociato di Hollywood, la trasgressione omosessuale (6) è
l'amplificazione dell'"osceno" come decadenza (impudicizia)
del costume. L'esibizionismo gay di Alla Nazimova/Salomé è tutto un
florilegio di mondanità "peccaminose", libertinaggio
frenato di una società dell'apparenza e della simulazione dove si
predica ovunque l'"uguaglianza non libera dei consumatori per
forza" (Theodor W. Adorno). Se De Mille è il
cantore plebeo del cattivo gusto e della malafede, Bryant e la sua
musa, Nazinova, sono gli interpreti di un "cinema di cipria"
che fuorvia la "diversità" nella maschera e mitologizza
l'a/convenzionale sugli stessi itinerari linguistici/spettacolari dei
custodi del pudore. Organizzare il
mercato cinematografico (e l'insieme dei mass-media) significa
tessere le trame del consenso. L'ideologia dello spettacolo è tutta
dentro le parole di Henry Ford, il fondatore della "Ford Motor
Co.", l'uomo che per primo aveva capito che "è possibile
aumentare il benessere delle classi lavoratrici; non col farle
lavorare di meno, ma con l'aiutarle a produrre di più" (7) e
consumare meglio. Infatti, nel 1908-1909 Ford butta sul mercato
l'automobile per tutti (il Modello T), nel 1913 "inizia i primi
esperimenti di catena di montaggio e nel 1914 introduce il salario
minimo, per qualsiasi categoria di lavoratori, di cinque dollari la
settimana, e abbassa la giornata lavorativa da nove ore a otto ore"
(8). Il trionfo della famigerata "organizzazione del lavoro"
secondo i precetti dell'ing. Frederick W. Taylor è segnato. La
disumanizzazione del lavoro e la disintegrazione della classe
operaia, comincia qui a svuotarsi di valori per divenire l'insieme
spettacolare dell'ideologia del profitto. La vittoria della
rivoluzione d'Ottobre in Russia, i moti spartachisti in Germania,
l'agitazione e l'azione anarchica ovunque esisteva miseria e
oppressione, incendiavano l'infanzia del XX secolo. "La libertà,
che aveva vinto in Europa, cominciò a impallidire in America:
sospetti socialisti, bolscevichi e anarchici furono arrestati in
grandi retate e, almeno in un caso, fatti sfilare in catene per le
vie di una città... Alcune delle vittime di questa persecuzione
furono linciate" (9). Ancora una volta, tutto quanto cresce oltre o
fuori lo schema abbrutente dell'indottrinamento statuale, viene
reciso. Ogni "anomalia" è l'ostacolo da rimuovere per
fortificare e ritemprare nella fede di Dio, nel Partito o
nell'Organizzazione totalitaria delle Democrazie rampanti, le
turbolenze delle masse. Ovunque il coraggio
dell'Utopia come conquista e pratica della libertà è ancora
marchiato dai precetti di Lutero: "E quindi tutti quelli che
possono colpiscano, ammazzino, e pugnalino, segretamente o
palesemente, ricordando che non ci può esser nulla di più velenoso,
dannoso o diabolico di un ribelle. È
proprio come quando si deve uccidere un cane rabbioso; se non lo
colpisci, ti colpirà lui, e un intero paese con te". Non a torto, questo
becchino di Dio, vede nel ribelle il portatore di tempeste del
pensiero e dell'azione che spazzeranno via ogni tipo di "dittatura
costituzionale" (Noam Chomsky). A catalizzare
l'euforia di un pubblico smisurato, sempre più avido di
consumare/confondere il quotidiano con la liturgia infantile delle
stelle di celluloide, i bottegai di Hollywood erogano il mondo
dell'efebica visione di Rodolfo Valentino. In "LA SIGNORA
DELLE CAMELIE" (CAMILLE, 1921) di Ray C. Smallwood, "SANGUE E
ARENA" (BLOOD AND SAND, 1922) di Fred Niblo, "L'AQUILA
NERA" (THE EAGLE, 1925) di Clarence Brown, "IL FIGLIO DELLO
SCEICCO" (THE SON OF THE SHAIK, 1926) di George Fitzmaurice, il
"grande amante dello schermo d'argento" (Kevin Brownlow)
muta il suo corpo (la sua immagine) secondo gli schemi richiesti.
Valentino cambia personaggio (amante, torero, cosacco, sceicco ecc.),
ma porta in ognuno dei suoi eroi l'androginia del suo mito il cui
sesso - "duro come una spada, è tenero come un fiore"
(Pier Paolo Pasolini). L'ironica
omosessualità di Valentino sborda oltre il "lenzuolo di neve"
e schiude la duplicità dell'immaginario in un reale che riflette la
coscienza/conoscenza della realtà. "Non era per il reale, ma
per l'immagine del reale che si faceva ressa alle porte" (10)
dei cinema di tutto il mondo. Il fascino ambiguo di Valentino
sfondava ogni categoria codificata ed esaltava la dimensione pubblica
della "differenza". Valentino era
comunque il servitore/interprete di un sogno artificiale (il cinema)
che era (ed è) specchio/copia di un gioco mercantile capace di
insinuare comportamenti, orientare gusti, modellare individui,
ideologie, fedi secondo i canali politici correnti.
Eric von
Stroheim l'iconoclasta
A rompere la
saccente stupidità del "cinema per famiglie" è
l'incendiario di tutte le convenzioni: Eric von Stroheim.
L'iconoclastia, il realismo feroce di questo "rapace" della
verità, risultarono intollerabili a mercanti e politici di ogni
marca; l'intera opera di Stroheim fu bandita da Hollywood e "FEMMINE
FOLLI" (FOOLISH WIVES, 1921), "RAPACITÀ" (GREED, 1924),
"SINFONIA NUNZIALE" (THE WEDDING MARCH, 1926) o "QUEEN
KELLY" (1928) furono oggetto di massacro delle case produttrici;
smontati, rimontati da altri o incompiuti, i film di Stroheim vennero
gettati a marcire nei magazzini dei loro padroni o/e distrutti come
diluenti per smalto da unghie. Così Stroheim: "Non ero disposto
a compromessi. Sapevo che dopo l'ultima guerra il pubblico dei
cinematografi si era stancato dei "biscottini al cioccolato"
cinematografici che gli erano stati cacciati in gola. Sapevo che gli
spettatori erano pronti per una massiccia dose di "manzo coi
cavoli", plebeo ma sincero. Sapevo che gli spettatori ne avevano
abbastanza di storielline le cui eroine erano come bambole
eternamente vergini e i cui eroi erano privi di peli e bianchi come
gigli" (11). Stroheim sporcava lo schermo di autenticità.
Attraverso la dissacrazione, la trasvalutazione di ogni mitologia sul
"buon costume" della società americana, il cinema
dell'austriaco affermava il vissuto clandestino, marginale della
ragione offesa, contro il quotidiano morto dell'adorazione e della
storia simulata. Ogni volta che il
cinema ha presentato tutta la propria capacità sovversiva, i padroni
del mondano le hanno tagliato la testa. Il solo cinema permesso è
quello che organizza il silenzio. Le idiozie
pettegole di Kenneth Anger sfogliano in superficie la carica eversiva
del cinema di Stroheim e deliziano il palato cronachistico degli
stolti. "Il fantastico bordello della "MARCIA NUNZIALE"
- scrive Anger in "Hollywood Babilonia" - sfoggiava prostitute di
ogni razza, ciascuna con la sua specialità erotica, nonché finocchi
in parrucca bianca, con il corpo tinto di bianco, che suonavano gli
strumenti a corda e avevano gli occhi bendati per non riconoscere i
clienti "aristocratici"" (12). La critica radicale
di Stroheim contro i secondini del costume e il pattume
mondano/culturale della "generazione dorata" americana, andava
a scardinare l'insieme delle regole, dei valori codificati, bruciava
l'origine del male e negava ogni conciliazione con la falsa
socialità. Sotto i colpi della verità senza tamponi, Stroheim
rompeva la chiacchiera filistea del cinema/merce e fiondava dalla
"vela bianca", l'esistenza di un pensiero senza limitazioni o
barriere moralistiche. Dovunque, bordello
e Parlamento sono sinonimi. Ogni devianza è una morbosità
schizofrenica di pubblico dominio. Dovunque, l'omosessualità è
ancora processata secondo la metrica di classe adoperata dagli
inquisitori del processo a Oscar Wilde; così il pubblico ministero -
"Fremiamo all'idea che simili atti possano compiersi in un
albergo di prima categoria" (13). L'intera opera di
Stroheim anticipa l'agonia della festa, annuncia la messa a morte
dello schermo/"paese delle meraviglie" come spettacolo per
dementi. "Perfino nel peccato è difficile riuscire ad essere
originali" (Oscar Wilde). Così Erich von Stroheim: "Non ho
mai accettato compromessi... né in alcun caso ho ceduto al
conformismo o alla moda... né mi sono lasciato attrarre dalle
lusinghe del denaro... Ho sempre detto ciò che ritenevo fosse
vero... Piacesse o non piacesse alla gente... Era in ogni caso la
verità... come io la vedevo... E questa lucida consapevolezza è la
mia ricompensa" (14). Il tentativo culturale dell'austriaco è
stato quello di estirpare dagli occhi delle platee i segni/sogni
organizzati sull'immaginario assoggettato. Quando gli
ex-lustrascarpe, ex-cappellai, ex-fabbricatori di guanti,
ex-salumieri, ex-gangster ecc., si consociarono nella grande "bottega
dell'immaginario", individuarono Stroheim come attentatore ai
loro profitti e lo licenziarono. Tornato in Europa, il "fuggiasco
da Hollywood" (Peter Noble) ebbe a dire: "Hollywood mi ha
ucciso!". Il solito Anger non si sottrae a illazioni pretesche e
restauri impauriti: "ed era il meno che Hollywood potesse fare
al genio che aveva osato sfidare i suoi dogmi di cartapesta"
(15). Ogni dogma,
ideologia o feticcio santificati nei gangli mercantili della
s/ragione dominante, segnano l'affermazione dell'insignificante
sull'autenticità del quotidiano oppresso. Altrove abbiamo
scritto: "Stroheim non intende spiegare il reale, racconta il
vero. La deformazione dello spazio e il congelamento del tempo
filmico lo rendono impietoso e ciò che coglie sono i fatti in
processo dell'immaginario sociale; ogni mezzo è buono per arrivare
alla realtà quando il reale traccia i propri confini repressivi e
mostra il gioco putrido dell'ideologia corrente" (16). Per Marjorie Rosen
"von Stroheim era scomodamente onesto e moralmente faceto.
Nondimeno i suoi film erano illeciti quanto bastava per attrarre un
pubblico curioso... Precursore rispetto al suo tempo, von
Stroheim fu troppo controverso per durare molto a Hollywood. I suoi
film, permeati di arrogante e invertita sessualità, alla fine
disgustarono più di quanto non attraessero" (17). Vero niente.
Quello che la Rosen mostra di non aver capito dell'austriaco è
l'attacco radicale alle convenzioni e ai codici di stabilità
monocentrica dell'apparato borghese. Tutte le mondanità
corrompono, la stupidità abbrutisce. Stroheim infonde al
suo cinema i veleni della verità, della lacerazione dei ruoli.
Principi e stallieri, regine e puttane, preti o criminali sono parte
di un gioco di specchi dove la morale sessuale "civile" è
la conseguenza di autorepressioni che sfoceranno in malattie
nevrotiche. I puritani
dell'America immacolata degli anni '30 vennero scossi dalla
dirompente meteora del sesso senza frontiere - Mae West -. Una bionda
formosa, piuttosto mascolina che faceva arrossire, con le sue battute
senza veli, intere generazioni. Le sue commedie, che scriveva e
rappresentava negli States, furono oggetto di scandalo e merce di
largo consumo. "Sex",
"Diamond Lil", "Pleasure Man", "The costant
sinner" fecero della West la "dea del peccato" e i suoi
film un "mostro" di dissoluzione dei valori della Famiglia
Americana (timorata di Dio come dello Stato). Per "The Drag"
(1926), un vaudeville incentrato su personaggi omosessuali, la West
fu sbattuta in carcere e il suo lavoro sequestrato dalla polizia di
New York. In un'intervista a "Life" il 18 aprile 1969, la
West ricorda che nel '26, quando "The Drag" usciva nei teatri
periferici, aveva "spesso ammonito la polizia di New York a non
picchiare gli omosessuali, perché un omosessuale è un'anima di
donna in un corpo maschile" (18).
Le forbici della
censura
Quasi tutti i film
della West incapparono nelle forbici censorie del "Codice Hays".
"LADY LOU" (SHE DONE HIM WRONG, 1933) di Lowell Sherman,
"I'M NO ANGEL" (1933) dl Wesley Ruggles, "BELLE OF THE
NINETIES" (NON È
PECCATO, 1934) di Leo McCarey, "KLONDIKE ANNIE" (1936) di
Raoul Walsh subirono amputazioni dell'ironia libertina, dissacratoria
della "bomba del sesso". Ricordiamolo. Il
"Motion Picture Production Code" fu pensato da William H.
Hays ed elaborato dal reverendo Daniel A. Lord della Compagnia di
Gesù. Entrò in funzione il 31 marzo 1930. "Esso costituisce
non soltanto il punto di arrivo delle dispute sulla moralità del
cinematografo, sui suoi pericoli, sull'influenza sui giovani, sul
bisogno di un'autoregolamentazione morale e ideologica della
produzione cinematografica, ma anche una sorta di summa del
conformismo imperante, del perbenismo piccolo-borghese, di quella
mentalità sostanzialmente ipocrita e utilitaristica che per molti
anni caratterizzò il cinema hollywoodiano" (19). I tagli dei censori
sconvolsero gli intrecci, modificarono i dialoghi, resero
incomprensibili molti passaggi dei film della regina dello "Shimmy"
(20). Il fenomeno trasgressivo - Mae West - esplose comunque sullo
schermo. La camminata a buttafuori di bordello, i doppi sensi
erotici, la smorfia plebea del suo sorriso, l'abbondanza formosa del
suo corpo rovesciarono le armi consuete delle "sex symbol"
dell'epoca. Clara Bow, Pola
Negri, Jean Harlow, Joan Blondell si avviluppavano di lustrini, sete,
mistero e fatui amori consumati sotto una luna di carta velina.
Aiutavano il mondo a sognare. A dimenticare i propri affanni
quotidiani. Ogni metro di pellicola affermava il rispetto all'ordine
dominante e avvertiva delle sue frustate. L'americanizzazione del
mondo per mezzo del cinema era una crociata di moralizzazione
dell'immaginario collettivo. La celluloide rappresentava lo specchio
merce di un quotidiano che veniva educato all'"osceno"
esibito come farsa. Mae West "polarizzò
il sesso e lo trasformò in incassi come non era mai capitato con un
solo bacio appassionato" (Marjorie Rosen). La fantasia, il
gioco, il sogno, l'amarezza dello scenario reale rappresentavano i
filamenti/generi della sua seduzione. L'oltraggio dell'osceno si
rovesciava nell'oscenità del vero. "La personalità è un
bagliore - scrisse da qualche parte Mae West -, è la capacità di
proiettare la propria piccola luce al di là dell'orchestra, in quel
vasto spazio buio dove sta il pubblico" (21).
Nel cinema, la
particolarità di "Mae" era appunto quella di eliminare la
distanza consueta tra mito e pubblico. Tra feticcio e adorazione. La West ha fatto
dell'osceno un oggetto. Ha cancellato il luogo/specchio della
simbolizzazione del proibito portando agli occhi di tutti la
permissività, l'incitazione ad osare, l'invito a distruggere tutti i
tabù della prigione sociale per andare a cogliere nel vissuto i
sapori di un'esistenza senza sipari. Fino al secondo
conflitto mondiale, gli amori "strani", i desideri
soddisfatti della "diversità" sopravvivono al margine o
nell'ombra/metafora del cinema "industriale". La trasversalità
omosessuale si riflette comunque sulla tela verginale (il pallore
dello schermo domenicale) e la clandestinità del piacere senza norme
diserta l'impostura del visibile. La frattura della coscienza
omosessuale è anche la coscienza della frattura sociale. Svuotata
nei simulacri di una vita apparente, l'esistenza quotidiana si misura
nella passività allargata, nell'uniformazione al consenso
(caricaturale) di interi strati sociali all'organizzazione tirannica
del profitto. "NOSFERATU, EINE
SYMPHONIE DES GRAUENS" (NOSFERATU IL VAMPIRO ,1922) di Friedrich
W. Murnau, "DIE BUCHSE DER PANDORA" (LULU, 1929) di G.W.
Pabst, "LE SANG D'UN POETE" (IL SANGUE DI UN POETA, 1930) di
Jean Cocteau, "MADCHEN IN UNIFORM" (RAGAZZE IN UNIFORME,
1931) di Leontine Sagan, "QUEEN CHRISTINA" (LA REGINA
CRISTINA, 1933) di Rouben Mamoulian, "FRANKENSTEIN" (1931) e
"FRANKENSTEIN'S BRIDE" (LA SPOSA DI FRANKENSTEIN"
1935) di James Whale, "THESE THREE" (LA CALUNNIA, 1936) di
William Wyler, "FIREWORKS" (1947) di Kenneth Anger, "UN
CHANT D'AMOUR" (UN CANTO D'AMORE, 1947) di Jean Genet, su piani
espressivi dissimili, manifestano piuttosto apertamente l'"oscenità
del diverso" contro le convenzioni spettacolari della comunità. I mostri di Whale
(Frankenstein) e Murnau (Nosferatu) non sono affatto figure del male
o esseri ripugnanti che dovunque appaiono seminano terrore e morte.
Frankenstein e Nosferatu sono in fondo tenere creature
dell'"anomalia" che pagano con la vita il loro bisogno di
amore. Quello che
Frankenstein e Nosferatu cercano di abolire è il Regno
dell'apparenza come alibi ideologico dell'oggettività. La loro
mostruosità provoca lo sconvolgimento del quotidiano drammatizzando
i fasti popolari della retorica. L'intenzione
profonda di Frankenstein e Nosferatu è la sovversione della
coscienza e la distruzione di ogni dogma, di ogni tabù; "una
qualsiasi sovversione non è altro che il riflesso di un conflitto
materiale all'interno della società in cui lati opposti usano
espedienti sia offensivi che difensivi per proteggere se stessi... Il
sovversivo attacca qualche cosa "sotto controllo" e
desidera sostituirla con qualche cosa che non esiste ancora e su cui
non ha ancora potere" (22). Whale e Murnau
erano omosessuali dichiarati. Come per i loro "mostri", la
vita nel tempio dell'effimero (Hollywood) non fu loro facile. I
contrasti con i mecenati del sogno e della buona condotta furono
accesi. Sovente mancò il lavoro o ne furono esautorati. Finirono
male, come le loro "creature". James Whale muore nel 1957
nella sua piscina in circostanze misteriose; Murnau rimane ucciso in
uno strano incidente stradale sulla strada di Monterey il 18 marzo
1931. Pochi giorni dopo l'uscita del suo film più "magico"
e libero, "TABU". Per entrambi, la storiografia ha sempre
occultato la parola suicidio. L'inquietante
omosessualità che pervade "LULU", "QUEEN CRISTINA"
e "LA CALUNNIA" è catalogata in tracce che indicano
l'abbattimento della maschera, l'estensione di un'altra presenza
oltre quella attorale. Gli sguardi, gli
atteggiamenti, l'esclusività del rapporto passionale di Louise
Brooks e Alice Roberts in "LULU", disegnano l'eccentricità
dell'"osceno" e si offrono "come ostia immaginaria a
finzioni in cui prolifera un desiderio abbrutito" (Rino Mele),
quello del voyeurismo modistico/mercantile che non trapassa lo stadio
dello specchio/schermo (del riflesso filmico) ma resta imbrigliato
nei fantasmi di un mondo senza sole e nei feticci di un immaginario
simbolico dove la presenza del vero è riducibile al sogno deviante
che ognuno desidera godere. Pabst è stato
abilissimo nell'uso del corpo e del viso di Louise Brooks. L'ha
fotografato con luce radente e il taglio espressionista delle
inquadrature gli conferisce quell'aura di mistero e di
perversione/liberazione che sono al fondo del dramma di Wedekind. Avvolta nell'ombra,
tagliata da luci fredde e a tratti violente, la Brooks incarna il
peccato, il gioco, la fantasia, la trasversalità di un discorso
irrispettoso che poggia il proprio successo sulla retorica dei
divieti. L'ambiguità di Lulu/Brooks è uno "stile" che
rivendica la propria "diversità" come valore, frammento di
verità sospesa tra il rifiuto della codificazione e lo
sconvolgimento dei linguaggi istituzionalizzati. Quando si parla di
omosessualità, scrive André Gide, "le incomprensioni sono cosi
grandi, e le intransigenze cosi feroci. Quanto a me, che
capisco il piacere solo faccia a faccia, reciproco e senza violenza,
e che spesso, come Whitman, sono soddisfatto dal più furtivo
contatto, ero terrificato sia dal modo di comportarsi di Daniel, sia
dalla compiacenza con cui Mohammed vi si prestava" (23). Rotti i
veli del dicibile, consumata la morale ricevuta, scardinata
l'educazione imposta, la penetrazione della libertà diventa
interpretazione della verità. Il bacio sulla
bocca di Greta Garbo a Elizabeth Young in "QUEEN CHRISTINA" fece
trasalire non poco critica e pubblico. L'androgina Garbo
carica questa regina senza sorriso di connotazioni singolari. La sua
voce roca con il lieve accento straniero ammanta lo schermo di
sensualità. I primi piani a luce soffusa (flou) del celebre William
Daniels non riescono a celare del tutto il fantasma della "diversità"
che pervade il volto della Garbo. La gestualità, la camminatura, il
modo di baciare uomini e donne, diretto, esuberante, possessivo
cancellano la freddezza del mascheramento regale ed enunciano i
bagliori di una liberazione. La donna uccide la regina e gode di
tutto quanto il suo amore richiede. Passioni
tumultuose, fratture esistenziali, insanabile tristezza per un
quotidiano meno fittizio, avvolgono Christina/Garbo in un immaginario
combinato dove la perdita dell'identità segna una barriera di
godimento negato. Quando la contessa
Ebba Sparre (Elizabeth Young) tradisce il loro amore, Christina si
veste da paggio e finisce nel letto di una locanda con Don Antonio
(John Gilbert). I ruoli si invertono ma il gioco delle parti gira
ancora intorno al fuoco iconoclasta dell'ambiguità.
Contro la
tirannide del conformismo
Con "LA CALUNNIA"
Wyler intendeva battersi contro la tirannide dell'apparenza e le
amenità rancide del conforme visti come fuga dalla libertà. Il film è tratto
dal dramma di Lillian Hellman "THE CHILDREN'S HOUR" (che ha
curato anche la sceneggiatura). Il produttore (Samuel Goldwyn), un
ex-venditore ambulante di guanti, impose a Wyler di celare negli
artifici accattivanti del melodramma le affettività omosessuali di
Martha Dobie (Miriam Hopkins) e Karen Wright (Merle Oberon). Wyler,
che non è mai stato un leone in fatto di difesa della propria
espressività artistica, incentrò il film sulla cattiveria di Mary
Tilford (Bonita Granville), la spietata delatrice della relazione (la
calunnia!) di Martha con il fidanzato di Karen (Joel McCrea). Il
collegio per ragazze della buona borghesia, fondato dalle due amiche,
cade nell'amoralità e nello scandalo. Alla fine l'infamia di Mary
viene espulsa dagli occhi del pubblico con la ricucitura dell'amore
ritrovato tra Karen e Joseph. Martha resterà sola a scontare la sua
"colpa", quella di avere amato un'altra donna (24). Wyler non lo dice
così ma è a questo che mira. Quando nel 1961 girerà il remake
"QUELLE DUE" (THE CHILDRENS'S HOUR) la passione omosessuale
delle due donne sarà pronunciata ma l'insieme del lavoro risulta una
commediola senza forza né volontà di affermare direttamente il
problema centrale: l'omosessualità femminile. A cancellare la
devianza gratificante dello schermo mercantile è Leontine Sagan con
"RAGAZZE IN UNIFORME". Un film abbastanza grezzo, incerto
nell'attoralità, approssimativo nel montaggio, fotografato male ma
che sfodera un notevole coraggio nell'affrontare alla gola la
sofferta omosessualità di una studentessa, Manuela von Meinhards
(Herta Thiele) con la sua insegnante, la signorina von Bernburg
(Dorothea Wieck). "RAGAZZE IN
UNIFORME" si svolge in un collegio per figlie di ufficiali
prussiani decaduti. La Sagan non tradisce lo spirito antiautoritario
del dramma di Christa Winsloe, "GESTERN UND HEUTE", sotto un
certo taglio lo amplifica e in qualche modo annuncia l'imminenza del
totalitarismo di Hitler. Nella copia più
vista (25), dopo che la studentessa ha rivelato il suo amore alla
signorina von Bernburg, tenterà il suicidio ma sarà salvata dalle
compagne che osteggiano minacciosamente la direttrice. Intanto nel
cortile della caserma vicina, squilli di tromba inquadrano i soldati
nei ranghi. L'ordine prima di tutto e soprattutto. La facciata del
nazionalsocialismo non è solo nel "passo dell'oca",
nell'efficienza della burocrazia, nella gaiezza della gioventù
ariana, ma è soprattutto nella tollerabilità del ruolo, nella
difesa a oltranza dei valori - Dio, Patria, Esercito, Famiglia - come
alveo della politica del restauro e del riscatto. La tirannide del
conformismo si cela sotto ogni bandiera ed è tutto quanto giustifica
le idee correnti e consolida l'ordito famelico del terrore
istituzionale. "RAGAZZE IN
UNIFORME" non è solo la descrizione "pulita" di
un'amore senza tabù, è anche un atto di accusa contro ogni
autorità. La direttrice della scuola è il vecchio spirito
guerraiolo prussiano che preannuncia gli effetti dell'ondata uncinata
nazista; nel collegio di Potsdam "gira sempre con un bastone e
dirama ordini del giorno che ricordano i gloriosi tempi della guerra
dei sette anni". Irritata, ad esempio, dalle lamentele per la
scarsezza del cibo, proclama: - "ci risolleveremo attraverso la
disciplina e la fame, la fame e la disciplina" - (26). Di li a
poco, l'ombra schizoide di Hitler farà del mondo carne da cannone. La critica di
"RAGAZZE IN UNIFORME" è piuttosto variegata e
superficiale. Dall'apoteosi della perfezione tecnica (27), che non
c'è!, si passa alla citazione approssimativa, confezionata su moduli
del linguaggio teatrale (28) e se è vero che il film della Sagan è
una delle poche opere del cinema europeo - prima del diluvio bellico
- "ad avere una sensibilità intimamente gay", occorre dire
che "RAGAZZE IN UNIFORME" non è stato "scritto,
prodotto e diretto da donne". (29). La grandezza del
film ci pare essere nella trattazione indiretta, nell'assemblaggio di
atmosfere anelanti la libertà e voglia di vivere la propria vita.
L'epicità del dettaglio, la significazione ironica di certi momenti,
l'estrema secchezza della storia evidenziano il carattere della
produzione indipendente (30) e questa "provvisorietà artistica"
è anche l'intimo, profondo valore del cinema irregolare. "LE SANG D'UN
POETE" di Cocteau, "FIREWORKS" di Anger, "UN CHANT
D'AMOUR" di Genet sono tentativi, anche maldestri, di mutare la
fruizione mercantile (offerta/domanda) della macchina/cinema. Qui lo
schermo non è il luogo di dolcificazione del reale ma l'occhio
negato della realtà maledetta. Pagine di diario,
amori intollerabili, storie omosessuali incrociano i loro destini
(non solo artistici) nella fatica dell'esistenza e nei furori
d'avanguardia del pensiero senza censure. Imboccata la via
della diserzione sociale, Cocteau, Anger e Genet portano la
subcultura del cinema trasversale/sperimentale a insidiare la
pubblica coscienza. Sotto un certo taglio le loro opere lavorano
nella "surrealtà" dell'egoismo collettivo e infangano la
facciata dell'ordine costituito con l'irriverenza del gioco, la
fatuità del sogno, la rabbia nichilista della rivolta individuale. "LE SANG D'UN
POETE" è un tableau di stili disparati e pretenziosi. Le
ingenuità tecniche di Méliès sono fuse con le affabulazioni
barocche di Cocteau che nel ripescaggio di pratiche eretiche del
Surrealismo (31) confina il film nel simbolico, smussando non poco le
tendenze stranianti del soggetto. I trucchi di
Cocteau amplificano il rapporto tra il poeta, l'omosessualità e la
sua opera; a una lettura ipercritica, "LE SANG D'UN POETE" si
presenta come "un documentario realista di avvenimenti reali"
(Jean Cocteau), chiama alla riflessione della platea fuori
dall'abituale torpore cinematografico. Per Anger
"FIREWORKS" è la "liberazione di desideri incandescenti,
di giorno annegati sotto la fredda acqua della coscienza... accesi di
notte i fiammiferi liberatori del sonno... scoppiano in cascate
luminose" (32). La liberazione immaginaria, momentanea di Anger è
nel sogno/desiderio di un'aggressione. Un gruppo di marinai sevizia
il protagonista dell'incubo (Kenneth Anger). Nell'ultima scena Anger
si sbottona i pantaloni e il suo pene si trasforma in fuochi
d'artificio. "Intensità, pena e immaginazione poetica
trasformano gli elementi autobiografici in arte" (33). È
Genet ad affondare le menzogne dell'arte e le scuole della fatalità
perseguitata. "UN CHANT D'AMOUR" è il rovesciamento della
prigione/sessualità in favore della liberazione dell'esistenza. Le
mani dei carcerati di Genet si toccano, figurano mondi senza barriere
e la masturbazione apre visioni e frenesie sessuali che si chiudono
in un atto d'amore: dei fiori ancora vivi, passano da una finestra a
quella della cella vicina. "L'unico film
di Genet - perseguitato dai censori, introvabile, segreto - è un
primo ed emozionante tentativo di ritrarre delle passioni
omosessuali. Già un classico, esso riesce, come forse nessun altro
film, a far conoscere il potere esplosivo del sesso frustrato"
(34). "UN CHAXT D'AMOUR" si oppone ad ogni tipo di
segregazione, rivendica la vita per attuare l'utopia concreta. Diversità,
marginalità, devianza gettano il rancore della quotidianità offesa
contro le miserie pedagogiche del presente. Tra le lingue
dell'obbedienza e della servitù prezzolata, il cinema risplende
della propria morte espressiva. Il mondo si fa merce e il cinema si
erge a cantore del mondo. "Il cinema è una religione, un
rituale e si compone di norme da seguire e chi non corrisponde, come
nella società, viene espulso" (35). La critica radicale di tutti i
valori/simulacri della società è il fronte del discorso liberato da
tutte le mitologie sul "buon governo" e le pastoie
clientelari della cultura. Nel naufragio delle
istituzioni, la politica dell'ingiustizia copre le fogne dell'impero
e lo scollacciamento del costume sposa l'estetica di "Amica".
La consapevolezza che tutte le verità sono zoppe è ormai di
pubblico dominio. Il reale è spettacolo ma lo spettacolo del reale
(cioè del "vero") non ha avuto ancora inizio. Liberare la critica
dai guinzagli della politica e della cultura è già un atto
sovversivo. Si tratta di sommuovere il sottobosco della ribellione
per andare a cogliere - oltre lo schermo - la fine dell'impossibile.
(1) André Breton -
Paul Eluard: L'immacolata concezione, Forum 1968, pag. 71.
(2) Lev S. Vygotsky:
Pensiero e linguaggio, a cura di Angiola Massucco Costa,
Giunti-Barbera 1976, pag. 152.
(3) Roland Barthes:
Leçon,
Stampa Alternativa/Kane Editore, 1979, pagine non numerate.
(4) Contro ogni tipo
di educazione autoritaria, vedi: La pedagogia degli oppressi
di Paulo Freire, Mondadori 1980; L'educazione come pratica della
libertà di Paulo Freire, Mondadori 1977; L'educazione
libertaria di Joel Spring, Antistato 1981; La scuola moderna
di Francisco Ferrer, La Baronata.
(5) Vedi: Lo
schermo velato/l'omosessualità nel cinema di Vito Russo, Costa &
Nolan 1984,pag.36.
(6) In questo
saggio, i termini omosessuale e omosessualità, sono usati
indistintamente per maschi e femmine.
(7) Vedi: Cinema
muto hollywoodiano e organizzazione sociale di Giorgio Fabre
(bozze di stampa), La Biennale di Venezia 1975, pag. 119.
(8) Ibidem,
pag. 185.
(9) Kewin Brownow:
Hollywood/L'era del muto, Garzanti 1980, pag.82.
(10) Edgar Morin: Il
cinema o l'uomo immaginario, Feltrinelli 1982, pag. 33.
(11) In: Hollywood/
L'era del muto, pag. 249, op. cit.
(12) Kenneth Anger:
Hollywood Babilonia, Adelphi 1979, pag. 117.
(13) Vedi il saggio
di Franco Cuomo come introduzione a Oscar Wilde, antologia di
scritti etici ed estetici, Savelli 1979, pag. 37 .
(14) In: Fuggiasco
da Hollywood di Peter Noble, Il Saggiatore 1964, pag. 10.
(15) Kenneth Anger:
pag. 124, op. cit.
(16) Vedi: La
macchina/cinema e l'immaginario assoggettato,Tracce 1982, pag.81.
(17) Marjorie Rosen:
La donna e il cinema, Dall'Oglio 1978, pagg. 45/48.
(18) Vedi: Lo
schermo velato, pag. 73, op. cit.
(19) Vedi: Il
cinema/Grande storia illustrata I, De Agostini 1981,
pag.182.
(20) Lo "Shimmy
Shawobble" era un ballo dei ghetti neri negli anni '30. La West
lo conobbe nel South Side di Chicago e lo incluse nei suoi
spettacoli. Lo scandalo fu enorme. La voce dei bassifondi neri
tuonava a Broadway.
(21) In: Mae West
di Michel Bavar a cura di Ted Sennet, Milano Libri 1977, pag. 8.
(22) Amos Vogel: Il
cinema come arte sovversiva, Studio Forma 1980, pag. 169.
(23) André Gide: Se
il seme non muore, Mondadori 1975, pag. 243.
(24) Ne "LA
CALUNNIA" Wyler ha usato con grande abilità la profondità di
campo e l'eccellente fotografia di Gregg Toland ha conferito al film
una sorta di solennità figurativa che ha molto fatto sopravalutare
il prodotto.
(25) Negli Stati
Uniti circola una copia di "RAGAZZE IN UNIFORME" dove la
ragazza si getta dall'alto del collegio e si schianta ai piedi della
perfida direttrice.
(26) Siegfried
Kracauer: Cinema tedesco/Dal "Gabinetto del dottor Caligari"
a Hitler, Mondadori 1977, pag. 233.
(27) Cfr.:
Dizionario universale del cinema a cura di Fernaldo Di
Giammatteo, Editori Riuniti 1984, pag. 618, la scheda è firmata
B.V., G.D.F.
(28) Lotte H.
Eisner: Lo schermo demoniaco, Editori Riuniti 1983, pag. 223.
(29) Vito Russo:
pag.75, op. cit. "RAGAZZE IN UNIFORME" si può considerare
un film sperimentale scritto, prodotto e diretto da donne se teniamo
conto dell'apporto di supervisore del mestierante Carl Frölich,
che forse ha spuntato idee e limato emozioni in cambio di
suggerimenti tecnici e quadrature linguistiche.
(30) Vedi: Di
fronte allo schermo/Materiali per il terzo incontro di cinema delle
donne "Il gioco nello specchio", di AA.W.,
La casa Usher 1981, pag.116.
(31) Benché Cocteau
abbia negato qualsiasi influenza surrealista (e il suo film fu
respinto violentemente dai surrealisti), "LE SANG D'UN POETE"
contiene non pochi debiti della poetica eversiva del Surrealismo.
(32) Vedi: Lo
schermo velato, pag. 124, op. cit.
(33) Amos Vogel:
pag.249 , op. cit.
(34) Amos Vogel:
pag.248, op. cit"
(35) Lina
Mangiacapre: Cinema al femminile, Mastrogiacomo 1980, pag. 4.
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