Rivista Anarchica Online
Il veleno di Cefis
di Gruppo Machno
Nocività alla Montedison di Marghera
È stato recentemente riaperto il reparto TDI della Montedison
di Marghera, che produce il "Fosgene",
un gas impiegato nella fabbricazione di materie coloranti. Se la cosa può rallegrare i dirigenti
e i
tecnocrati nostrani, preoccupati del rilancio dell'industria chimica italiana e, in generale, dell'aumento
della produttività, pone invece le popolazioni di Marghera e anche di Mestre e Venezia, di
fronte ad un
problema gravissimo: l'impianto in questione, infatti, è tra i più pericolosi del mondo,
sia per il suo
funzionamento imperfetto, sia per la sua ubicazione. Il fosgene è un gas incolore velenoso. La
sua
presenza nell'area in dosi di 5 parti per milione è già in grado di provocare la morte, se
viene respirato,
mentre dosi minori (2-3 p.p.m.) possono danneggiare in modo irreparabile il fisico umano. Durante la
prima guerra mondiale, venne usato dai tedeschi come aggressivo chimico, appunto per queste sue
caratteristiche. Gli impianti attualmente esistenti nel mondo per la produzione del fosgene sono quattro:
negli Stati Uniti, in Germania, in Giappone e in Italia. Negli U.S.A. i macchinari sono stati installati nel
deserto del Nevada, in una zona completamente disabitata. In Germania, si trovano nella Foresta Nera,
anche qui in una zona disabitata. In Giappone, sono stati sistemati su di una montagna, dopo che la
popolazione è stata fatta evacuare per un raggio di 50 chilometri. In Italia... nel centro di
Marghera! In
America, in Germania ed in Giappone, gli impianti sono comandati a distanza, da personale che sta in
edifici ermeticamente chiusi, lontani 3-400 metri dallo stabilimento vero e proprio. A Marghera, gli
operai stanno in locali privi della minima garanzia di sicurezza, a brevissima distanza dall'impianto di
produzione. L'unico sistema di allarme è costituito da una sirena, che avvisa le maestranze
quando ci sono fughe di
gas. Come si vede, le preoccupazioni di quanti risiedono nella zona (oltre che degli operai costretti a
lavorare nello stabilimento) sono più che giustificate. Le norme di sicurezza previste dalla
ditta sono vecchie e inadeguate. Ad esempio, c'è l'obbligo della
maschera antigas, ma con un gas come questo, non ha nessun senso: più che altro, bisognerebbe
usare
un autorespiratore. E siccome, nel caso di una grossa fuga di fosgene, non verrebbero colpiti soltanto
gli operai nelle immediate adiacenze, ma tutti gli abitanti di Marghera, di Mestre, Venezia e paesi vicini,
l'obbligo dell'autorespiratore dovrebbe essere esteso a tutti, anche ai neonati,
ai turisti e (perché no?)
agli animali. Provate a pensare quale sarebbe l'aspetto della provincia di Venezia, in una
eventualità di
tal genere. La storia dell'impianto e assai breve, essendo stato costruito in tempo non lontano. Il
fatto più
interessante è che è già stato chiuso quattro volte, e sempre in seguito A fughe
di gas. Una prima
chiusura si ebbe un paio di anni fa. Gli operai si rifiutarono di riprendere il lavoro, dopo che due loro
compagni erano rimasti intossicati in modo gravissimo (sono ancora oggi in ospedale, due larve umane
sotto la tenda ad ossigeno). Avrebbe dovuto essere una chiusura definitiva, almeno fintanto che non
fossero state messe in opera misure antinfortunistiche degne di questo nome, invece un bel mattino gli
operai hanno trovato l'impianto nuovamente in funzione, tale e quale a prima. Da allora, il gioco si
è
ripetuto sempre uguale. Altre fughe di gas, altri operai colpiti in modo più o meno grave
(qualcuno se
l'è cavata con un mese di ospedale, qualcun altro, non così fortunato, è rimasto
deficiente) altre
temporanee chiusure e altrettante riaperture. L'inefficienza e la pericolosità dell'impianto
TDI di Marghera sono tali che a qualcuno potrebbe venire
il sospetto che a tutto ciò non siano estranei atti di sabotaggio, o qualcosa del genere.
Sembrerebbe
strano, infatti, che uno stabilimento così moderno, importante, funzioni tanto male. Ma strano
non è, se
si tengono in conto le condizioni nelle quali l'impianto è stato costruito. I sabotaggi non
c'entrano.
C'entra invece il fatto che esso è stato messo in piedi in brevissimo tempo (2-3 mesi), da
personale non
specializzato, senza alcun riguardo alle più elementari norme di sicurezza. Il progetto è
stato finito da
tecnici americani, che avevano previsto un collaudo di 5 mesi. La direzione della Montedison, invece,
ha voluto mettere in funzione l'impianto subito, con ben otto mesi di anticipo
rispetto alla data stabilita.
A questo punto gli esperti americani se ne sono andati, declinando ogni responsabilità e senza
rilasciare
il brevetto. La Montedison, dal canto suo, solo ora, dopo la quarta chiusura, ha avvertito l'esigenza di
un certo controllo e ha proposto un collaudo di 3 (tre!) giorni. Ciò detto, c'è ancora
qualcuno disposto a stupirsi per la mortale inefficienza dello stabilimento TDI?
Certamente no, piuttosto, può venire in mente di chiedersi il perché di tutto questo,
come mai tanta fretta
di costruire, prima, e di rimettere in funzione la baracca dopo? Ma anche qui, la risposta è
semplice, se
pur sgradevole. Proprio in questo momento di crisi economica, di stagnazione produttiva, tenere chiuso
un impianto come quello di Marghera significherebbe mettere in difficoltà tutto il settore
chimico e, in
generale, tutta la programmazione nazionale. Cosa di cui, evidentemente, la classe dirigente italiana ha
terrore come della peste, perché comprometterebbe in prospettiva la sua stessa stabilità
al potere. Che
importa, dunque, se qualche operaio diventa deficiente, se qualche altro resta immobilizzato in un letto,
purché si continui a PRODURRE? Ma la morale della storia non si limita a questo. In tutta
la faccenda, l'atteggiamento dei sindacati è stato
quanto mai cauto. Soltanto dopo l'ultima fuga di gas, quando ormai le cose erano diventate insostenibili,
si sono sentiti in dovere di intervenire, e soltanto per esprimere una "decisa", quanto sterile, condanna
verbale. Di chiudere il TDI, come sembrerebbe logico in chi sostiene di avere il compito istituzionale
di
difendere gli interessi proletari, nessuno ha avuto il coraggio di parlare. È dunque evidente
che i sindacati condividono l'ansia di produttività e di ripresa economica dei padroni
e dei dirigenti più di quanto non sentano l'esigenza elementare di tutelare l'integrità fisica
dei lavoratori.
E pensare che c'è chi vorrebbe affidare ai sindacati il ruolo di controllori della
"nocività"!
Gruppo Machno
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