Rivista Anarchica Online
Parola di
Tissahamy
di K. Velusamy
Di colpo sembra
di essere in un altro paese: arbusti bassi e spinosi, sabbia e sole
cocente. Siamo nella giungla della zona arida. Tissahamy, l'anziano
Vedda, è fuori dalla capanna. Ci viene incontro. E comincia a
raccontarci la sua vita. "Da qui non
me ne andrò".
Kandasamy, il
corrispondente da Badulla di "The Island", è disposto ad
accompagnarmi nel villaggio Vedda. Ho avuto il suo indirizzo tramite
la redazione del giornale a Colombo. Ma non è stato facile trovarlo. Kandasamy, come la
maggior parte dei Tamil indiani che vivono nelle zone miste,
preferisce mantenere ignoto il luogo della sua residenza. Dopo le
violenze del 1983, durante la quale gli fu bruciata la casa, le
precauzioni non sono mai eccessive e le rappresaglie singalesi agli
attacchi della guerriglia giustificano le paure della popolazione.
Così, soltanto dopo due giorni di tentativi, riesco a mettermi in
contatto con lui. È maestro
elementare alla scuola di Callen Estate, uno dei tanti agglomerati
dove abitano, lavorano e vivono le famiglie tamil impiegate nella
piantagione di tè. Le colline circostanti sono intensamente adibite
alla coltivazione del tè e su ogni collina c'è un Estate,
comprendente le baracche dei lavoratori, la scuola per i loro
bambini, gli alloggi degli amministratori, una specie di asilo nido
per i neonati, qualche struttura di servizio e il bungalow lussuoso
del sopraintendente. Esso è costruito sulla cima dell'appezzamento a
ribadire la superiorità gerarchica e la funzione dominante, da lui
svolta, per conto del proprietario. Qui la vista è
rasserenata dal verde intenso del paesaggio; la temperatura è
abbastanza mite data l'altitudine. Le piogge abbondanti consentono
una vegetazione ricca di frutti esotici e di alberi maestosi. Ci
crescono spontaneamente caffè, cacao, cannella, garofano e
un'infinità di altre spezie di cui soltanto dopo anni e anni di
permanenza è possibile conoscerne il nome e le proprietà. Le varie
specie di avocado e di mango sono esposte e vendute nei mercati
cittadini a cifre irrisorie, paragonate ai prezzi occidentali. Ogni
angolo è un mercato, dappertutto i colori e i profumi di questa
terra risvegliano sensazioni ormai perdute da chi vive in città. A
che cosa si può paragonare il sapore della Laulu o della Atunona, il
gusto ed il profumo del Jackfruit e delle stesse banane maturate
sugli alberi anziché sulle navi di trasporto? E, quale altra bibita
è più fresca e dissetante del "Pol" e del "Tambili"?
(si tratta di due specie di noce di cocco). Nelle piantagioni
di tè sono le donne addette alla raccolta. Mi vengono incontro per
conoscermi ed aiutarmi a raggiungere la vetta della collina dove è
situata la scuola. Sono tutte donne indiane, dal fisico esile e dai
lineamenti meravigliosi, ornate da braccialetti e da gemme
incastonate alla base del naso. Hanno gesti e modi regali; i colori
dei loro sari e la maniera di indossarli, il loro portamento e la
delicatezza dei loro corpi danno a questi semplici pezzi di stoffa
un'eleganza naturale e una bellezza profonda. La scuola è
all'aperto. La frequentano contemporaneamente 30 alunni fra bambine e
bambini più o meno della stessa età: questa che io conosco è una
scolaresca del quarto e del quinto grado. Sono pieni di curiosità,
ma anche di rispetto: sono discreti e disponibili allo stesso tempo.
Tè, pane, sambol (cocco grattugiato con peperoncino) e banane la
colazione che mi offrono. Osservano ogni mio gesto e la reazione al
cibo che mangio. I loro sguardi sono vivaci, penetranti come il
sapore piccante, fortissimo della loro dieta abituale.
"La mia è
una vita selvaggia"
L'alba dei paesi
orientali è precoce. Alle sette di mattina il sole è già alto:
conviene partire presto, perché sono necessarie quasi quattro ore
per percorrere non più di 35 miglia. Il caldo sfavorisce e
sconsiglia di guidare oltre le dieci del mattino. Da Badulla,
cittadina sul versante sud-orientale delle ultime propaggini del
centro montagnoso, si percorre una strada tortuosa e solo in parte
asfaltata. Le prestazioni della jeep sugli arditi tornanti che
scendono da Badulla lasciano a desiderare. È necessario che guidi
con molta prudenza, perché devo prevedere per tempo lo spazio
necessario ad incrociare l'autobus di linea in modo da non dovermi
fermare sull'orlo del precipizio: cosa d'altra parte consueta quando
due veicoli provengono in direzione opposta. Di colpo sembra di
essere in un altro paese. Dalla lussureggiante vegetazione della zona
umida ci si trova nella giungla della zona arida. Arbusti bassi e
spinosi, sabbia e sole cocente. L'aria è secca, e senza ombra di
nubi e vapori. Nell'isola tropicale si trova un pezzo di Africa
equatoriale... Da Mahiyangane,
sede di un'antichissima Dagoba e di un relativo tempio buddista
chiamato appunto RajaVhiare, occorre proseguire per altre due miglia
verso il villaggio di Dambana. Accogliamo nella jeep due giovani che
conoscono la lingua vedda. Saltano su, entusiasti di rendersi utili e
di rompere con la monotonia della giornata. Lungo il percorso, un
accidentatissimo sentiero fuori strada, si uniscono a noi due Vedda,
un ragazzo e un bambino. Ci condurranno senza mai sbagliare alla
capanna di Tissahamy, situata nel cuore della giungla. I nostri
compagni di viaggio sono scioccati dalla presenza di gente inconsueta
come noi: "civilizzati" e così lontani dal loro mondo.
Kakule, il ragazzo Vedda, vuole la torcia e dopo averla accuratamente
ispezionata si impossessa delle batterie ormai scariche. Un corso d'acqua,
affluente del Mahaweli, mi dà l'unico punto di riferimento del
nostro cammino, ed un breve refrigerio dall'arsura del caldo.
Tissahamy è fuori dalla capanna. Il rumore della jeep lo ha
avvertito dell'arrivo di persone straniere. Ci viene incontro e, con
un caloroso saluto che consiste nello scuotere reciprocamente le
braccia tenendosi per le mani, ci dà il benvenuto. È un uomo
anziano, ma con una lucidità spiccata sostenuta dalla saggezza di
una lunga vita. "Innewa, innewa, innewa..." (C'ero, c'ero,
c'ero...). Non conosce la sua età cronologica, ma conosce la
quantità delle esperienze che hanno caratterizzato l'esistenza. "La
mia è una vita selvaggia. Il rapporto con gli animali ha scandito la
mia vita: la paura e l'amicizia degli animali. Ricordo due episodi
importanti: quando un elefante mi afferrò e mi scaraventò lontano
senza uccidermi e quando mi trovai davanti ad un orso. Lo uccisi con
le mie mani. E poi tanti altri piccoli avvenimenti quotidiani". Il bagno mattutino
al fiume, la caccia, la raccolta del miele. La giornata è presa da
questi fondamentali compiti. Radici e tuberi costituiscono un
sostituto alimentare alla cacciagione. Ma l'attività che rimpiazza
una magra o infruttuosa caccia è la coltivazione "chena".
Si brucia un pezzo di giungla, si rimesta la terra e rotativamente la
si adibisce ad orto tropicale. Tutta la famiglia partecipa: anche i
bambini, con il compito di tener lontani gli animali dal campo quando
gli adulti sono a caccia. Dal "chena" ricavano mais,
semenze, peperoncino, patate e cipolle. Un cereale particolare di
questa coltivazione è il "kurrakan": impastato con acqua
viene consumato come una focaccia, ma di basso valore proteico. Non amo fare
domande; il più delle volte risultano assurde per la mentalità ed
il contesto culturale di questa gente. Osservare vivendo insieme a
loro è il solo modo per un approccio che li rispetti. Così
trascorro con loro una settimana. Ma non è abbastanza. Mi meraviglio
che la moglie di Tissahamy non esca mai dalla capanna, se non in
compagnia del marito e raramente. Una volta le chiesi di raccontarmi
un sogno. Fu una domanda impertinente, perché il marito tagliò
corto dicendo che la moglie non sognava. I bambini invece stanno
intorno alla jeep e la osservano da tutte le angolazioni. Di notte
dormo là dentro e loro fanno a gara a dividere il "letto"
con me. Le loro facce aperte, i loro occhi ingenui e le bocche sempre
disposte al sorriso sono le ultime immagini prima del sonno.
Vivere e morire
qui
"Sono libero e
non ho nessun problema personale. Sono preoccupato però per i miei
figli che dovranno andarsene da questa terra che è loro", mi
confida Tissahamy. Il progetto Mahaweli è iniziato nel '77 e da
allora sono iniziati i problemi. "Voglio non meno di 1000 acri
di terra per starmene libero con la mia gente. In nome di Kuveni
voglio riscattare la mia gente". Kuveni è una donna Vedda che,
dopo aver aiutato il conquistatore indoariano Vijaya ad impadronirsi
dell'isola, viene da lui ripudiata, secondo il mito che sta alla base
della storia singalese. "Voglio fare meglio di mio padre",
afferma senza ombra di incertezza il primogenito di Tissahamy. Si
chiama Unnia Kakule Nayakale. Il portamento fiero, l'accetta sempre
in spalla alla maniera Vedda, i capelli folti raccolti sulla nuca. Li
scioglie solo quando si lascia fotografare. Unnia è un abilissimo
cacciatore. Ha il privilegio di servirsi dell'arco paterno a sostegno
dell'eredità morale che dovrà raccogliere alla sua morte. La lotta
di questi ultimi Vedda può sembrare insensata e senza futuro. Ma la
forza della loro convinzioni contiene una dose di verità: "La
civiltà e i piani di sviluppo sono stati per noi fonte di disagi e
di avversità. La nostra società è libera dal crimine, perché ci
basta quello che abbiamo e che possiamo procurarci con le nostre
mani. Chi ama la libertà non muore mai di fame. Io voglio vivere e
morire qui dove da sempre è vissuta e morrà la mia gente". "Sono riuscito
a salvarmi arrampicandomi su un albero..."; "Per fortuna il
tetto della casa non è stato inghiottito dalle acque". Queste
le brevi storie di qualche sopravvissuto alla tragedia di Kantalai,
nel distretto di Trincomal. Il 20 aprile scorso
lo sbarramento costruito sulla riva sinistra del lago artificiale di
Kantalai ha ceduto, consentendo alla forza delle acque di spazzare
via l'intero villaggio di Polonkotuwo, situato in prossimità della
diga. Le autorità locali hanno cercato di minimizzare il fatto,
dando delle cifre sulle vittime che sono state smentite dal
segretario della Croce Rossa norvegese. Da una parte si parla di meno
di 150 morti e 2000 senza tetto; dall'altra addirittura di 2500
vittime e 10.000 senzatetto. In un mondo dove la
vita umana ha un valore minimo, strumentale agli interessi economici
e di potere le statistiche sono usate come mezzi per manipolare la
verità secondo il proprio tornaconto. E le autorità dello Sri Lanka
non si sono smentite in merito. Per chi conosce direttamente la
quotidianità della povera gente è facile capire che nessuna
istituzione predisposta al censo e alla salvaguardia del territorio
sapeva esattamente il numero degli abitanti. Quando non si ha niente,
neppure la dignità di essere registrato come cittadino e considerato
essere vivente, perdere tutto è all'ordine del giorno. Così la
disgrazia è solo uno dei tanti eventi nella miseria dell'esistenza.
Vivere in un luogo piuttosto che in un altro, in un villaggio o in un
campo profughi non cambia molto per loro... Fin dalle prime
luci dell'alba del 20 aprile la certezza del pericolo e l'imminenza
di una catastrofe non erano molto difficili da prevedere. In una
sequenza che sarebbe comica se fosse parte integrante di una finzione
cinematografica, la sentinella di guardia avverte il sovrintendente
ai lavori; questi l'ingegnere all'irrigazione che a sua volta si
mette in contatto con il Direttore deputato a Trincomale. Insieme
all'ufficiale di coordinamento, il D.D. giunge sul luogo per aprire
lo sbarramento di destra nell'inutile ed intempestivo tentativo di
alleggerire la pressione di sinistra. Dalle quattro di mattina,
quando la breccia nello sbarramento era di solo 20 piedi, a
mezzogiorno, quando ormai la diga cedeva completamente nessuno si è
preoccupato di avvertire e far sgombrare la popolazione. Otto ore non
sono bastate ad evitare il peggio. Originariamente
costruito dal re Aggabodhi II (602-614 d.c.), il "tank" di
Kantalai fu restaurato dagli Inglesi nel 1875. Dal '52 al '56 la
capacità d'acqua del serbatoio raggiunse i 110.000 ac.ft. Nel 1976
fu collegato al sistema del fiume Mahaweli, consentendo l'irrigazione
di 20.000 acri di terreno adibito a risaia e canna da zucchero. Nel
novembre dell'85 era stato constatato un danno alla sponda destra del
lago che avrebbe se non altro dovuto insospettire i dirigenti del
Ministero addetto allo sviluppo delle terre e del progetto Mahaweli
sulla sicurezza dell'intero impianto. Sulla tragedia di
Kantalai, come pure su altre "catastrofi naturali" avvenute
lo scorso febbraio quando intere colline, spogliate degli alberi per
la monocultura del tè, hanno perso la loro consistenza e sono
slittate sui centri abitati in seguito alle piogge stagionali (1800
morti e 2500 i senza casa), invocare la "fatalità" ed il
"destino avverso" oltre ad essere bugiardo è criminale. Al
di là del valore informativo l'intrecciarsi significativo di notizie
ed avvenimenti gravi in questi primi mesi dell'86 può forse dare
un'idea meno astratta della situazione dello Sri Lanka.
Terrorismo e
attentati
In base alla
legislazione speciale per la prevenzione del terrorismo, operazioni
di polizia contro avversari politici sono abbastanza frequenti.
Recentemente si dava notizia sulla stampa governativa dell'arresto di
oltre cento membri del "Janatha Vimukthi Peramuna" (Fronte
della liberazione popolare). Il J.V.P., organizzazione marxista
rivoluzionaria singalese, fu considerato il responsabile
politico-militare dell'insurrezione giovanile del 1971. Da allora fu
messo fuori legge. Oggi se ne fa il capro espiatorio, insieme al
terrorismo tamil, di tutti i mali del paese. Secondo il "National
Intelligence Bureau" l'accusa per gli arrestati è di
"cospirazione contro il governo in lega con i terroristi del
nord". Non soltanto nel
Nord e nell'Est del paese la situazione è particolarmente esplosiva.
Per circa tre mesi è stato imposto il coprifuoco anche nelle aree
delle piantagioni. Nuwara Eliya, Hatton, Norwood, Bogawantalawa,
Maskeliya sono state teatro di violenti scontri fra polizia e civili.
Questi centri, situati nel cuore della zona montagnosa, rappresentano
il fulcro dell'economia del paese. Le piantagioni di tè e di caucciù
si susseguono senza interruzione. In esse lavorano, raccolti negli
"Estate" (proprietà statali), migliaia e migliaia di tamil
di origine indiana. Privati della
cittadinanza da generazioni e, conseguentemente, di qualsiasi diritto
civile, sono in balia delle contrattazioni diplomatiche tra l'India e
lo Sri Lanka. Inoltre il presidente del sindacato (Ceylon Workers
Congress) che dovrebbe tutelare i loro interessi è il Sig.
Thondaman, ricco piantatore di tè, entrato dal 1978 nel governo
dell'United National Party in qualità di Ministro dello sviluppo
industriale e rurale. Nella prima
settimana di maggio due gravissimi attentati sono avvenuti nel paese.
All'esplosione di una bomba, collocata su un Tristar delle linee aree
nazionali, che ha causato la morte di quindici persone, è seguita
quella al palazzo delle telecomunicazioni nel centralissimo quartiere
di Colombo: dieci morti e molti i feriti. Per il primo
incerte rivendicazioni, rese note dalla agenzia di stampa srilankese
sono state smentite dalle organizzazioni politiche tamil che
risiedono nella capitale dell'India meridionale Madras. A rendere più
oscuro il quadro si aggiunge la rivendicazione del secondo atto di
terrorismo: in questo caso la sigla è J.V.P. Gli attentati sono
stati compiuti contemporaneamente a significativi incontri ed impegni
politici: i colloqui diplomatici fra una delegazione indiana con
esponenti del governo di Colombo per una soluzione negoziata della
"crisi etnica" e l'appello dello Sri Lanka Freedom Party (il
partito della Bandaranaike) per indire elezioni generali. Nella
eccessiva oscurità della situazione una cosa risulta essere chiara:
rimestare nelle acque torbide è il gioco sporco della sporca guerra
per il potere. "Eserciti di
liberazione", "giusta guerra", "stati futuri che
rispetteranno tutte le razze e le minoranze" sono bugie della
propaganda e illusioni che hanno oppresso ed opprimono la gente di
tutto il mondo. Gli eserciti e la guerra non liberano e non rendono
giustizia; l'uguaglianza ed il rispetto non sono mai garantite da
alcun stato, che viceversa si basa, nella migliore delle ipotesi, sui
nazionalismi o sull'omogeneità etnica. Circa centocinquanta giovani
tamil, appartenenti (forse) ad un'organizzazione guerrigliera
minoritaria sono stati bruciati vivi da militanti di un'altra
formazione rivale ("Le tigri liberatrici dell'Elam tamil").
Secondo la testimonianza oculare di un medico tamil, rilasciata
all'agenzia di stampa indiana, gli assalitori hanno cosparso di
benzina le vittime dandogli poi fuoco. "Essi guardavano bruciare
i corpi con una sorta di frenesia, al punto che posso pensare che gli
assassini fossero fuori di senno, perché un così efferato macello
non può essere compiuto da nessuno sano di spirito. Le vittime
avevano per la maggior parte meno di 20 anni; alcuni addirittura dai
tredici ai quindici anni". La popolazione civile nella penisola
di Jaffna è traumatizzata: "...criticare le azioni dei
militanti, qualunque esse siano, vuol dir rischiare una pallottola
nella testa" ha aggiunto un cittadino "io non voglio più
l'Elam...". Quale sarà allora
il futuro per lo Sri Lanka? Difficile dirlo, perché può succedere
di tutto e da un momento all'altro. La guerra,
nonostante le perdite drammatiche nella popolazione, la situazione
sempre più difficile dei rifugiati e le implicazioni economiche che
stanno portando l'isola alla rovina, fa comodo a troppi. Il conflitto
fa comodo al governo di Jayawardene innanzitutto, che fa della guerra
il capro espiatorio per ogni tipo di difficoltà che sta incontrando
il paese. L'economia va male? Colpa dei terroristi che scoraggiano
gli investimenti esteri. I progetti di impianti di irrigazione non
vanno avanti? Non si possono realizzare perché i terroristi rendono
insicure le zone di lavoro. Non ci sono turisti? Colpa dei terroristi
che fanno loro paura. In questa situazione il capo dello stato può
permettersi dei provvedimenti in politica interna ed estera che vanno
al di là della forma più autoritaria di una democrazia liberale. I tentativi di
mediazione del governo indiano trovano come interlocutore la
dirigenza TULF (Tamil United Liberation Front), la formazione
politica più moderata che è mal vista dai gruppi separatisti dei
giovani tamil. Inoltre questi tentativi sono mal visti anche dal
governo di Colombo ed hanno provocato nelle ultime settimane
polemiche reazioni da parte dei diversi ministri dello Sri Lanka. Pur
tuttavia se da un lato la macchina propagandistica del governo forza
per sminuire l'importanza della confederazione indiana, la realtà
politica impone alle autorità di Colombo di sottomettersi alle
pressioni di Nuova Delhi. Jayawardene utilizza la presenza di 70
milioni di Tamil indiani nel vicino Tamil Nadu come spauracchio per
una possibile invasione dell'isola a danno dei singalesi. Argomentazioni
paradossali, che riconoscono implicitamente gli effetti che potrebbe
avere un intervento armato indiano nello Sri Lanka. Paradossalmente
le azioni repressive dei militari sono riuscite a dare coesione alle
diverse organizzazioni guerrigliere, divise inizialmente da dissapori
e divergenze ideologiche profonde. Una certa popolarità conquistata
dalla guerriglia sta modificando la rigidità delle strutture della
società tamil, anche se le caste dominanti riescono ancora a
mantenere le loro posizioni di privilegio. Resta sintomaticamente
insoluto, però, il problema riguardante la sorte delle centinaia di
migliaia di lavoratori tamil nelle piantagioni dello Sri Lanka che
vivono in zone a maggioranza singalesi. Rispondere che saranno
accolti nel nuovo stato tamil del nord-est oltre ad essere una
soluzione affrettatamente ingenua è anche politicamente sbrigativa. Anche per una parte
dei ribelli la guerra rappresenta uno strumento di potere: finché il
conflitto continua possono permettersi di avere una posizione di
forza. Se i paesi occidentali continueranno a finanziare lo Sri
Lanka, Jayawardene potenzierà l'esercito ed il genocidio sarà cosa
fatta. La secessione di una parte dell'isola è malvista anche dallo
stesso Rajiv Gandhi, fautore di una soluzione federalista. Il primo
ministro indiano, confrontato con le mire autonomiste di diverse
province indiane, non può permettersi di avere un esempio così
provocatorio di rivolta armata ai propri confini. È d'altronde
impossibile per l'India lasciare lo Sri Lanka al suo destino. Gandhi
non può alienarsi le simpatie della numerosa popolazione tamil
indiana che segue attentamente il dramma che stanno attraversando i
"cugini" sull'isola vicina. Potrebbe succedere che l'India
intervenga come "forza di pace". Una soluzione non
augurabile, perché vorrebbe dire fare dello Sri Lanka una nuova
Cipro nell'Oceano Indiano e libanizzare il conflitto etnico.
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