Rivista Anarchica Online
Arte come anarchia
di Dario Bernardi / Fabio Santin
E' da alcuni decenni uno degli artisti più impegnati nei movimenti d'avanguardia. Nei primi anni
'60, in particolare, è stato tra i fondatori (con Arturo Schwarz, Paride Accetti, Virgilio Dagnino,
Man Ray, Alik Cavaliere, ecc.) dell'Institutum Pataphysicum Mediolanense. Enrico Baj (Milano,
1924) è uno degli artisti italiani contemporanei più noti ed apprezzati. Grazie al manifesto
realizzato con i suoi motivi grafici dal Centro Studi Libertari «G. Pinelli» per l'incontro di Venezia
(ripreso anche da questa copertina di «A»), ha dato il suo «segno» anche all'incontro. Fabio Santin e Dario Bernardi (due dei curatori della mostra su arte ed anarchia) sono andati a
trovarlo nel suo studio. Ecco il testo dell'intervista che ne è nata.
Benjamin Peret ha scritto: «Il poeta si erge contro tutti, compresi i rivoluzionari che collocandosi
sul terreno della sola politica, isolata arbitrariamente dall'insieme del movimento culturale
preconizzano la sottomissione della cultura al compimento della rivoluzione sociale». Tu cosa ne
pensi?
Io mi sono trovato spesso in una situazione un po' particolare perché, pur rifiutando un'arte politica,
mi sono ritrovato a farla, anzi mi ritengo l'unico, fra i contemporanei, ad aver fatto arte politica, una
politica non inscritta nei ruoli o nei dettami di un partito, ma l'ho fatta seguendo un certo filone le
cui basi erano le stesse che avevano portato alla fondazione del «movimento nucleare».
Successivamente ho cominciato a fare queste serie di personaggi improntati al più stupido
autoritarismo, fra le quali la serie dei generali; ho ampliato lo stesso tema con composizioni più
vaste come le parate militari, i comizi, ecc .. Sono poi arrivato ad una rivisitazione di Guernica che
era il primo quadro ad esprimere un attacco in sede artistica e pittorica alla violenza. Nel 1970 sono passato al tema dell'anarchico Pinelli perché si era presentato questo caso
macroscopico nella cronaca italiana. Fatto che, d'altra parte, ricalcava le orme di altri avvenimenti dello stesso genere, come l'anarchico
Salsedo gettato da una finestra della questura di New Y ork nel 1920. Sempre nell'ambito della violenza e con un accenno a quella che possiamo definire la «pornografia
del potere», ovvero l'oscenità del potere che rappresenta le sue stesse porcherie, ho dipinto una
grande opera relativa al caso Watergate (la Nixon's Parade), dove Nixon e Kissinger guidano la
parata del Columbus Day. Con questa mia opera volevo anche raffigurare una connessione del
potere statunitense con la mafia italo-americana, quindi una denuncia della «mafiosità» del potere. L'ultima mia opera che, secondo me, rappresenta l'apoteosi di questo tipo di pittura e che ho
iniziato nel 1951 è l'Apocalisse, un grande quadro al quale vado ancora aggiungendo dei pezzi e dei
personaggi, è un po' un working-progress, un'opera in continua progressione.
Quando hai fatto questi quadri hai voluto seguire una linea politica particolare o ti sei
semplicemente ispirato a fatti ed avvenimenti dandone una tua personale interpretazione?
Tutte queste cose io le ho fatte seguendo solo una «mia» linea e quindi senza volermi metter al servizio di nessun comandamento politico. E' per questo che credo di aver fatto arte politica nel
senso che ormai l'arte ha libertà di espressione, libertà alla quale nessun artista dovrebbe rinunciare.
Perché la politica la si fa con le opere, esprimendo la realtà. Sono contrario all'arte astratta che si
compiace solo di pure forme e colori e di puri equilibri estetici. Penso che l'arte debba
rappresentare qualcosa.
Quindi tu non pensi ad un'arte svincolata dalla realtà, svincolata da ogni fatto e da ogni
avvenimento...
Esattamente, non ho mai fatto questo tipo di arte anche perché tutti i nostri gesti sono collegati a dei
fatti, a degli eventi, a delle crisi, a delle esaltazioni, a delle guerre, a delle tragedie, a delle gioie. Mi
sembra assurdo che si possa fare dell'arte svincolata da tutto questo. A me parrebbe dell'arte
«inumana». Per questo io cerco di fare un'arte che abbia delle connessioni con la realtà di tutti i
giorni.
Allora condividi il pensiero di B. Pèrèt?
Si, sono d'accordo, ma se vuoi con una precisazione: l'opera d'arte deve avere delle correlazioni e
deve poter incidere sul sociale.
Come è nata esattamente l'idea del quadro «I funerali dell'anarchico Pinelli»?
Proprio in quel periodo io avevo appena finito una rivisitazione del Guernica di Picasso e mi
dedicavo spesso a riproporre quadri che erano per me particolarmente significativi. Stavo cercando
un nuovo soggetto per il mio prossimo quadro e nel contempo mi stavo interessando molto al
movimento futurista, quando avvenne il caso Pinelli e così, ispirandomi al quadro futurista di Carrà
«I funerali dell'anarchico Galli», cominciai questo mio grande quadro. Originariamente il titolo era «L'assassinio dell'anarchico Pinelli», titolo che poi modificai per non
fare troppo scalpore. Il quadro, tra l'altro, mi era stato ordinato per una mia mostra che doveva aver
luogo al Salone delle Cariatidi a Milano. Fino a quel momento non era stato posto alcun veto a
questa mia opera senonché, proprio il giorno dell'inaugurazione della mostra, venne ucciso il
commissario Calabresi. La mostra non fu più inaugurata e proprio quella mattina ricevetti la telefonata del sindaco Aniasi
che mi spiegava che, per motivi di sicurezza, sarebbe stato meglio rinviare la data
dell'inaugurazione. Come era facile prevedere, la mostra non venne più fatta e il quadro non venne
più esposto in Italia, anzi, per l'esattezza fu esposto una volta a Firenze ma all'interno di un'altra
iniziativa e il quadro fu quasi completamente ignorato. Fortunatamente molte altre nazioni erano
interessate alla mia opera che è stata esposta in tutto il mondo, è uno dei miei quadri più conosciuti.
Peccato che in Italia non si possa far nulla, comunque vedremo...
Tu hai fatto una critica all'astrattismo, ma non pensi che si possa incidere sul sociale facendo
anche solo un discorso di immagini, di segni e di colori?
Certo, un pittore che non rappresenta temi anarchici può, in ipotesi, creare un simbolo, un segno
che abbia un valore per il movimento. Secondo me, però, l'astrattismo rimane un modo di evadere,
di non risolvere i problemi, ovvero di limitare i problemi a quelli di ordine estetico ed individuale. E cosa ne pensi del rapporto fra le idee e il modo di vita? Come ti rapporti personalmente con la
realtà?
Io sono «partigiano» di una certa coerenza tra il mio modo di dipingere e la mia vita privata. Per
quanto mi è possibile cerco di non essere contraddittorio, anche se la contraddittorietà fa ormai
parte della vita contemporanea. Ho conosciuto spesso artisti che si sono proclamati estremamente
rivoluzionari e che poi tenevano comportamenti e convinzioni di bassa ideologia borghese, di
convenzionale conformismo.
Esiste anche il problema del mercato dell'arte. Può un artista rimanere libero o deve soggiacere
alle regole di mercato?
Un artista può anche scegliere di fare un secondo lavoro che gli permetta di sopravvivere e, nel
contempo, mantenere la propria libertà di espressione. Comunque non credo che in questa era si
possa ancora parlare di problemi di sopravvivenza; siamo veramente in un'epoca di tale spreco e di
tale consumismo che il problema secondo me si pone in termini molto ridotti.
In che misura la provocazione del modello anarchico, inteso come rifiuto dell'autorità e della
delega, influisce sul tuo modo di vivere e di creare?
Io avevo già scritto un testo che riguardava Pinelli e in un certo punto avevo cercato di chiarire
come, in fondo, uno dei moventi (o una delle pulsioni principali) di un artista ha sempre a che fare
con una base anarchica, cioè con una volontà di libertà e di ribellione ai dettami del conformismo
vigente per quello che attiene l'arte. Mi viene in mente una frase di Marx ovvero che non si tratta di
celebrare il mondo ma di modificarlo. Diciamo allora che uno spirito vagamente anarchico alberga
in ogni artista, forse in me più che in altri perché io mi sono addentrato in certe tematiche e ho
coltivato più a lungo questa sensazione che per altri pittori è solo epidermica. Quindi in arte viva
l'anarchia, anche perché senza questo stimolo non vi è arte d'invenzione, ma bensì arte di
celebrazione o di rappresentazione. Per inventare bisogna essere liberi e rompere i legami che ci
ancorano a ricette precostituite.
La tua ultima opera è l'Apocalisse, spiegaci un po' questa tua visione da fine del mondo, cosa
volevi rappresentare?
Per dipingere questo grande quadro mi sono ispirato ad un libro di Konrad Lorenz, Gli 8 peccati
capitali della nostra civiltà, dove egli denuncia lo scempio e lo sfruttamento indiscriminato che
l'uomo compie della natura; quasi come se l'uomo, non potendo più sfruttare gli uomini come
schiavi, pensasse di potersi rifare sulla natura. Quello era anche il periodo della crisi energetica, era
appena stato pubblicato il rapporto del Massachussett's Institute of Technology che riportava dati
allucinanti, tutti sembravano accecati dal mito del progresso. Questo è stato lo spunto. E' un'opera
fantastica (nel senso che è di fantasia) che voleva rappresentare un ritorno ad un «visionalismo
mostruoso», è un quadro popolato di mostri che possiamo identificare con la distruzione,
l'inquinamento, l'informatica, ecc..
Qual è allora il tuo rapporto con l'informatica e con la crescente computerizzazione del
quotidiano?
Ho trattato il tema dell'informatica anche artisticamente, la mia ultima mostra a Milano l'avevo
intitolata «Epater le robot». Volevo far capire che l'arte potrebbe essere una delle poche vie rimaste
contro la crescente computerizzazione. Il computer è uno strano strumento del potere al quale noi
deleghiamo le nostre capacità intellettive, la nostra memoria. La pittura, invece, con la sua libertà di
espressione, con la sua anarchia, rappresenta una specie di linguaggio che ci permette altre vie di
comunicazione, vie sicuramente diverse da quelle dei circuiti integrati, dell'informatica
computerizzata e di tutti gli altri sistemi di robottizzazione. Può essere una via percorribile...
Ritornando al tema dello spreco, cosa pensi della pop-art americana e della sua ironizzazione del
consumismo?
All'inizio ho amato molto questa forma artistica che era successiva ad un altro movimento, il new-dada, che era molto conosciuto ed apprezzato anche in Europa. Ma se all'inizio sembrava
un'ironizzazione del consumismo è poi diventato una rappresentazione glorificante di esso, si è
trasformato in arte celebrativa, in arte del regime capitalistico americano. La sua ironia è stata
lentamente trasformata in pubblicità, è stata riassorbita dal potere.
Secondo te, dopo la pop-art si può ancora parlare di arte?
Io penso e spero che l'arte sia vecchia come l'uomo e che continui. Certo, i nuovi movimenti
artistici fanno spesso dei discorsi molto fuorvianti, i movimenti stessi sono numerosissimi al punto
che non riusciamo più a seguirli. Giudicarli ora è impossibile, secondo me è un giudizio che si
potrà esprimere solo a posteriori.
Nella serie dei generali tu usi tutta una serie di materiali strani: nastri, coccarde, medaglie. Oltre
ad una funzione estetica del materiale, c'è anche una funzione chiaramente ironica sui soggetti?
Che importanza dai a questi materiali?
Ci sono varie motivazioni. Dal punto di vista tecnico bisogna tener presente che io amo molto
lavorare con le mani e con i materiali, è una mia passione. Non penso che la pittura si faccia solo
con i colori, tutto è colore, ogni materiale è di per sé colore. Invece, a livello di attacco critico, di
denuncia della violenza, del potere, è evidente: ho raffigurato i generali e altri soggetti che
rientravano nel tema dell'aggressività, li ho raffigurati con ironia.
Questi tuoi grandi quadri, per le loro dimensioni, sono praticamente invendibili?
Si, ho riservato al mercato solo una piccola parte della mia attività che è quella della grafica.
Ma questa scelta è casuale, è solo una scelta artistica o vi è anche un discorso critico sul rapporto
tra arte e mercato?
Sai, in Europa i collezionisti ricercano sempre piccoli quadri con i quali devi inevitabilmente
ripetere te stesso. Tutti vogliono riconoscere nel quadro il tuo «marchio di fabbrica».
Ma l'arte, allora, ha ancora un potere di denuncia di determinate realtà, come nei secoli passati
quando era considerata come portatrice di verità o è ormai completamente riassorbita dalla
macchina del potere?
Mah, è difficile dirlo. Se pensi al '68 ti rendi conto che i valori esaltati in quegli anni sono stati
completamente annacquati, riassorbiti. Gli status-symbol più meschini che sembravano
completamente superati oggi ricompaiono improvvisamente. Dalla contestazione si è passati al
riflusso. Quindi, si, l'arte è riassorbita dal potere come avviene per tutti i fenomeni e gli
avvenimenti sociali, anche l'artista è vittima del riassorbimento istituzionale. L'importante è non
subire passivamente, o perlomeno capire quello che avviene intorno a noi. Penso dunque che
l'artista debba essere libero e che debba rappresentare e costruire la propria libertà.
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