Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 14 nr. 121
estate 1984


Rivista Anarchica Online

Ma lo stato non è sovrastruttura
di Massimo La Torre

«Tutto ciò che vuol crescere sotto il dominio
corre il rischio di riprodurlo»
Max Horkheimer

1. In Oceania - Fascia Aerea n. 1, la Gran Bretagna descritta da Orwell nell'anno millenovecentottantaquattro, in ogni casa vi è un teleschermo, «una placca di metallo oblungo simile a uno specchio opaco, che faceva parte della superficie della parete» (1), il quale per l'accensione non dipende dal suo «proprietario» (diciamo così, ma impropriamente) ma da un'istanza superiore (il Partito). Questo schermo, tramite tra l'individuo assolutamente solitario e il Partito (personalizzato dal ritratto del Grande Fratello affisso dappertutto) (2), ha una ulteriore peculiarità: esso è in grado non soltanto di trasmettere programmi al suo «proprietario» ma anche di estorcere le immagini e i suoni della vita di questi. Tale seconda funzione è sempre attivata, di modo che l'individuo rintanato nel suo squallido flat è costantemente tenuto sotto controllo, giorno e notte spiato dalla psicopolizia. Oggi, nel millenovecentottantaquattro storico, uno schermo è in ogni casa anche nel nostro paese. Esso può solo darci, e non rubarci, immagini, ma acquista sempre più importanza, oserei dire «centralità», nella nostra esistenza. E gli strumenti sono pronti, grazie ai progressi della telematica, perché lo schermo si carichi di nuove funzioni. Già ora, attorno a quella scatola di vetro e di resina, si svolge una parte notevole della vita umana: per i bambini del 1984 storico la trottola è un oggetto misterioso, pressocché archeologico; per la loro gioia si accendono i giochi elettronici collegati al video. Le strade alla sera sono deserte, ciascuno separato dagli altri riposa fissando la luce bluastra del televisore.
Ma quale il rapporto tra Stato e televisore? E' semplice (per quanto paradossale), la televisione è la manifestazione dello Stato che più si serve della collaborazione dei cittadini, considerato che, perché lo schermo si illumini, nel 1984 storico è ancora necessario che il suo proprietario prema un bottone. Ed è un pezzo di Stato che tutti si affannano ad acquistare, magari a colori, la cui diffusione non intimidisce nessuno, che è l'oggetto immancabile di tutti i concorsi a premi. Dunque, dall'angolo visuale della nostra vita quotidiana, non è esagerato affermare che «lo Stato è la televisione». E lo Stato, allora, è dappertutto, e nel cuore stesso della nostra intimità. La televisione è il segno di questa proliferazione dei margini della sfera statale, dello sfondamento della dimensione sociale, civile, quotidiana, ottenuto dal potere pubblico. Come è potuto accadere tutto ciò?

Dallo stato liberale allo stato sociale
2. Preliminarmente bisognerebbe domandarsi se è proprio vero che la dimensione statale, nelle società del passato, fosse meno presente ed invadente. La risposta è incerta per quel che concerne il periodo dello Stato assoluto, anche se le tecniche politiche dei secoli sedicesimo e diciassettesimo erano assai meno progredite ed assai più primitive delle attuali. Ma è abbastanza sicura per il periodo della rivoluzione borghese, là dove programmaticamente si afferma il primato dell'economia e della società civile. Tuttavia qui sorge una ulteriore domanda: la società civile di cui si pone il primato nel pensiero liberale è la trama intera dei rapporti sociali, o non piuttosto soltanto lo spazio economico affidato alle cure della classe capitalista? Detto altrimenti: ritenuto che lo spazio economico è dominato dal capitalismo ascendente e dal suo selvaggio individualismo, e che la società civile è tutta qui, concentrata nelle filande e nelle miniere, quale altro senso può avere l'affermazione del suo primato se non il riconoscimento di una composizione comunque autoritaria della società (attraversata dall'opposizione tra chi gestisce il processo produttivo e chi lo subisce)?
Ad ogni buon conto, può dirsi senza troppo arrischiare che nella società borghese l'autorità ha diverse zone di insorgenza; la forma politica, lo Stato, che però non ne conquista il monopolio, e le imprese che sviluppano anch'esse, per loro interna costituzione, autoritarismo e controllo sociale. Il dato importante resta la frammentazione dell'autorità, la sua articolazione accentuatamente concorrenziale, la sua prevalente informalità, mentre lo Stato viene guardato con sospetto in quanto potrebbe per le sue possibilità accentratrici far saltare questa articolazione liberistica di autorità in concorrenza tra loro e irrigidire (sclerotizzare) il controllo formale nella formalità istituzionale (3): il sistema borghese rimane una società «aperta», dove al centro sta comunque l'individuo (seppure proprietario), e le solidarietà sociali non sono indotte (al contrario aspramente combattute) ma spontanee e produttrici di cultura alternativa. Se il regime concorrenziale lascia gli individui (in misura elevatissima i salariati) esposti alle selvagge contingenze della produttività, e li fa correre sul filo sottilissimo del profitto («il primo liberalismo attribuì importanza alla insicurezza, come fondamentale e necessario motivo economico» (4), tuttavia adesso li costringe alla solidarietà più sentita, e scavando un abisso tra la condizione operaia e lo status di capitalista mette la cultura marginale della classe subalterna al riparo dal condizionamento dei suoi padroni. Se mai vi è stata cultura operaia, fu quello del capitalismo nascente il periodo in cui questa poté esprimersi nella separatezza marginalità solidarietà di quanti vendevano la propria forza-lavoro.
Dalla società borghese alla società statalizzata, dallo Stato liberale allo Stato sociale la transizione passa lungo tre assi principali. Questi sono: (a) la debolezza congenita del capitalismo classico, dovuta alla sua struttura elevatamente conflittuale, alla sua costante insicurezza, fonte di crisi e di scompensi; (b) la rivoluzione tecnologica, e il conseguente aumento della complessità sociale che finisce per colpire a morte la figura, centrale per la società borghese, dell'individuo proprietario; (c) l'irruzione sulla scena politica del movimento operaio che attribuisce all'elemento della forza-lavoro una rigidità intollerabile per il sistema concorrenziale, e che inoltre si fa portatore di un'ideologia fondamentalmente statalistica contrapposta al tradizionale antistatalismo della borghesia. «Attraverso la costituzione di proprie organizzazioni sindacali e politiche la classe operaia ruppe la funzionalità della società borghese; questa divenne incapace di garantire la valorizzazione del capitale proprio perché la concorrenza dei capitali individuali e quindi la frammentarietà della classe dominante di fronte alla compattezza della classe operaia organizzata non le consentiva di ripristinare il proprio controllo su una forza-lavoro divenuta variabile indipendente» (5).

Fragilità del capitalismo classico
3. Esaminiamo più attentamente le tre vie sopra indicate, attraverso cui si svolge la transizione dallo Stato liberale allo Stato sociale.
(a) La crisi del '29 e la politica economica keynesiana furono gli effetti della composizione concorrenziale del capitalismo classico che, se pure modificata in direzione oligopolistica e monopolistica, manteneva un tasso altissimo di insicurezza e di arbitrio. La «mano invisibile» del mercato si dimostrò incapace di garantire la crescita produttiva e il processo di valorizzazione del capitale. Afferma Keynes in una conferenza del 1931 a Chicago: «La società capitalistica come oggi funziona è essenzialmente instabile. Quello che mi chiedo è se potremo mantenere la stabilità con l'introduzione di un moderato livello di comando /.../ e se quello di cui abbiamo bisogno non sia un più elevato piano di controllo» (corsivi miei). Così Keynes, rileggendo l'esperienza mercantilistica dello Stato assoluto, rivaluta il senso del sostegno statale che quella antica politica esprimeva. «Il peso della mia critica è dunque diretto contro l'inadeguatezza dei fondamenti teorici della dottrina del laissez-faire /.../; contro la nozione che il saggio d'interesse e il volume dell'investimento si aggiustano automaticamente al livello ottimo, cosicché sarebbe tempo sprecato preoccuparsi della bilancia commerciale. Giacché noi, il corpo degli economisti, siamo stati colpevoli di un errore di presunzione nell'aver trattato come un'ossessione puerile ciò che per secoli è stato un obiettivo principale dell'azione pratica degli uomini di stato» (Teoria generale, cap. XXIII). Il superamento della conflittualità tra privati (i singoli imprenditori) poteva darsi o nell'equilibrio delle zone private e nella loro reciprocità (e quindi nella dimensione collettiva e pluralista che è la proposta proudhoniana), oppure nella subordinazione del privato al pubblico che veniva identificato, in linea con la tradizione liberale, con lo Stato in quanto spazio neutrale e tale perché generale (espressione dell'interesse generale) (6). Nel primo caso, che non comporta in Proudhon l'equilibrio tra capitalisti ma l'equilibrio tra unità produttive (che è assolutamente incompatibile con la dialettica capitalistica), come nel secondo, che significa l'assunzione da parte dello Stato della funzione imprenditoriale, il capitalismo classico trovava la sua morte. Non posso, pertanto, sottoscrivere l'opinione seguente: «Ciò che conta nel modo di produzione capitalistico è il capitale complessivo, per quanto riguarda invece i singoli capitali è importante la loro «persona giuridica» non la loro «composizione sociale». Queste frazioni del capitale possono essere capitali individuali (i proprietari borghesi), ma anche società per azioni, o enti di stato» (7). Ciò perché «il destino del capitale non è legato necessariamente alla borghesia» (8), il che equivale a dire che il destino del capitale non coincide con le sorti del capitalismo.

La burocratizzazione del management
(b) Quanto detto sopra ci riporta al secondo asse di trasformazione del capitalismo: la rivoluzione tecnologica, il conseguente aumento della complessità sociale, il gonfiarsi delle dimensioni dell'impresa e la divaricazione tra la forma giuridica proprietaria (fissata nel diritto di proprietà come diritto assoluto) e la realtà effettuale della gestione dei processi economici. La crescente complessità sociale provoca la burocratizzazione del management, che deve farsi collettivo, e dunque la sua progressiva separatezza dal diritto di proprietà, che è per definizione individuale (9). «Questa fase è definita dal processo che Schumpeter chiamerà «mutamento di funzione dell'imprenditore»: ossia dalla separazione tra proprietà e gestione dei mezzi di produzione» (10). E' ciò che può definirsi, nell'ambito delle grandi società per azioni, la scissione tra proprietà e possesso, tra la figura del proprietario azionista (fruitore degli utili) e quella del gestore manager il quale determina la politica dell'impresa. Qui la forma giuridica rappresenta una realtà sorpassata, e non segnala il vero spazio del potere economico. La proprietà diviene nudum ius, o qualcosa di più del mero diritto nel caso dell'azionista poiché a questi compete non solo il diritto di disposizione (del titolo) ma anche il diritto di godimento (degli utili) e tuttavia non ha il potere di gestione. Queste tre facoltà (disposizione, godimento, gestione) tendono a costituire una unità nel diritto di proprietà, e solo in una situazione di transizione possono darsi staccate; tuttavia preludono sempre ad una nuova riunione in capo ad un unico soggetto.
Una situazione analoga marca, ad esempio in Sicilia, il declino del feudatario e l'ascesa della borghesia terriera. Il nobile trasferitosi nella città riceve dalle sue terre una lauta rendita che gli consente di vivere nell'ozio e nel lusso, ma il massaro, e poi il gabelloto, sono i soggetti che di fatto detengono e gestiscono le terre (11). Essi diverranno i proprietari, quando la forma giuridica che possiede una relativa autonomia si riadeguerà allo stato di fatto cui generalmente corrisponde. Ugualmente - come è noto - gli azionisti di oggi accumulano profitti, ma in gran parte (soprattutto nelle grandi imprese e nelle multinazionali) non riescono a determinare la politica dell'impresa. Questo è invece il compito dei managers i quali, restando formalmente dei soggetti salariati, sono il gruppo sociale che di fatto detiene e gestisce il potere economico. Questo gruppo, che sembra assumere le caratteristiche di una «nuova classe», è parente stretto della tecnoburocrazia statale che controlla il settore pubblico dell'economia e fonda la propria posizione nella gerarchia sociale esclusivamente sul proprio sapere e sulla propria sapienza politica. Si delinea quella che Bruno Rizzi chiamava «proprietà di classe» contrapposta alla proprietà individuale vigente nella società borghese (12).

Movimento operaio e stato
(c) Nel processo di diffusione dello Stato nel territorio sociale, un ruolo di primo piano ha giocato l'insorgenza del movimento operaio e dell'ideologia dominante di questo: il marxismo. Gran parte del pensiero socialista, e innanzittutto il pensiero marxista così come si forgia nella prassi politica a partire dalla Prima Internazionale, è molto indulgente nei confronti dei poteri dello Stato. Questo, in quanto dimensione in radice collettiva e superiore alle diverse zone individuali, viene esaltato in contrapposizione all'egotismo capitalistico. Val la pena ricordare ancora una volta che il termine «socialismo» viene coniato in polemica con quello di «individualismo», che sembra costituire, con la sua dottrina del laissez-faire, la filosofia dell'imprenditore manchesteriano. Lo Stato materializza, agli occhi dei socialisti come Cabet e Blanc, la comunità degli interessi e viene identificato con la società di cui costituirebbe l'istituzionalizzazione e la formalizzazione. Tra Stato e comunità intercorre, secondo l'avviso di questo pensiero socialista, una relazione come tra forma e sostanza. Ecco spiegato il perché si mischia «socializzazione» con «nazionalizzazione», e la messa in comune dei mezzi di produzione diviene in quest'ottica la loro statizzazione.

Lo statalismo marxista
4. Il programma immediato del Manifesto del partito comunista abbonda di «nazionalizzazioni» e di provvedimenti accentratori dello Stato: al punto (1) «espropriazione della proprietà fondiaria e impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato», al punto (2) «imposta fortemente progressiva», al punto (5) «accentramento del credito nelle mani dello Stato per mezzo d'una banca nazionale con capitale di Stato e con monopolio esclusivo», al punto (6) «accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello Stato», al punto (7) «aumento delle fabbriche nazionali» (che riprendono l'idea degli ateliers nationaux di Louis Blanc), al punto (8) «istituzione di eserciti industriali» (13). Il movimento operaio, nella sua componente maggioritaria marxista (dalla Seconda alla Terza Internazionale), spinge con le sue rivendicazioni nella direzione del potenziamento dell'intervento statale, non soltanto indirettamente premendo sulle aziende e costringendo lo Stato a muoversi in operazioni di sostegno e di salvataggio dell'industria privata, ma anche e soprattutto direttamente individuando nello Stato il tramite necessario per la rivoluzione socialista. Marx parla di «interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione» (14). Così, il movimento operaio, agendo nel quadro di una logica inflessibilmente statalista, stabilisce «un rapporto di stretta interdipendenza tra inversione della tendenza al crollo e immissione delle masse organizzate /.../ nella dinamica evolutiva del sistema sociale: questo nuovo elemento è in grado di mutare gradualmente fisionomia e qualità dello sviluppo, in quanto spinge lo Stato a farsi sempre più «sociale» e «riformatore». La lotta per il socialismo viene così a coincidere con la lotta per la liberazione dello Stato dai ceppi ad esso imposti dal potere privato e monopolistico» (15).
Ma lo statalismo del movimento operaio non è tutto nei contenuti dele sue rivendicazioni, ma anche: (a) nell'accettazione della divisione dei due piani, il politico e l'economico, nell'organizzazione della lotta sociale, e nella conseguente predominanza del politico sull'economico (si pensi alla concezione del partito come «avanguardia» e del sindacato come «cinghia di trasmissione» del partito); (b) nella interna strutturazione gerarchica delle sue organizzazioni (partito e sindacato per l'appunto). Horkheimer lucidamente descrive questo specchiarsi del movimento operaio nelle teoriche dello Stato autoritario: «Le grandi organizzazioni promuovevano una idea di socializzazione difficilmente distinguibile da quella di statalizzazione, nazionalizzazione e pubblicizzazione nel capitalismo di Stato /.../ L'immaginazione, ormai, non si sollevava più dal solido terreno dei dati di fatto se non per porre, in luogo dell'apparato statale esistente, le burocrazie partitiche e sindacali e, in luogo del principio del profitto, i piani annuali dei funzionari» (16). Si verifica nel movimento operaio un fenomeno analogo a quello del divorzio tra proprietà e gestione nelle grandi società per azioni: «Col crescere dell'apparato diviene sempre più tecnicamente difficile controllare e sostituire questi dirigenti, di modo che tra la pratica utilità del loro permanere, e la loro personale decisione a non andarsene, sembra regnare un'armonia prestabilita. Il dirigente e la sua cricca diventano, nell'organizzazione operaia, così indipendenti, quanto nel campo opposto il management del monopolio industriale di fronte all'assemblea degli azionisti» (17).

Si può parlare di «stato totale»?
5. Giunti a questo punto è doveroso interrogarsi sul significato di tale abnorme sviluppo della sfera statale. Siamo ancora nel solco tracciato dal capitalismo classico che è cresciuto col sostegno dello Stato fino ad arrivare alla «maturità» (18) o non siamo piuttosto dentro «il processo finale di liberazione dello Stato dalla rappresentanza diretta dell'interesse capitalistico»? (19). Ci troviamo di fronte allo Stato sociale, in cui si è realizzata la funzione completa di politico ed economico, o meglio della pubblica amministrazione e dell'impresa privata o siamo ancora in presenza di una ulteriore forma del capitalismo, così come crede chi scrive che «vedere nello sviluppo dello Stato /.../ l'emergere di elementi non capitalistici /.../ non risulta convincente perché lo Stato non interviene in merito alla natura stessa del rapporto di capitale, ma nella «pratica» dei rapporti proprio per garantire la vigenza delle leggi generali del modo di produzione»? (20). Quest'ultima ipotesi è condivisa da Franco Ferri il quale parla di «nuovo modo di essere del capitalismo» e vede nelle differenti sistemazioni politico-istituzionali uscite dalla crisi del '29 «i modi specifici con i quali il capitalismo ha risposto alla crisi riorganizzando il potere e la propria egemonia attraverso i nuovi assetti, come gestione e governo complessivo delle contraddizioni sociali» (21). Tale ipotesi, tuttavia, non mi soddisfa, poiché tutto quanto si è finora detto esclude che si possa fondatamente qualificare come capitalistico in senso proprio il sistema sociale nel quale ci troviamo a vivere. Ma mi soddisfa poco anche la definizione di Stato totale, dapprima perché denuncia il suo carattere di «idealtipo» e d'altro canto perché riconduce ad unità una realtà segnata di pluralismo.
Di Stato totale, a mio parere, può parlarsi correttamente se si intende con ciò fissare: (a) la tendenza presente nel mondo contemporaneo alla confusione tra Stato e società; (b) l'intrico di pubblico e privato ad ogni accelerazione di tale tendenza alla statalizzazione delle attività sociali (che coincide in gran parte con ciò che Habermas definisce la «colonizzazione» della vita quotidiana). Lo Stato totale è quello Stato che, facendosi società, si corrompe, si degrada, assume - per orientare la propria azione - criteri sempre più privatistici, si corporativizza (22). «Si delinea così uno Stato che 'colonizza' amministrativamente la vita privata, 'l'esperienza' individuale e collettiva; uno stato 'dell'amministrazione totale', uno stato 'complesso' che risponde alla complessità delle aspettative e dei comportamenti tentando di irretirli» (23). Lo Stato, cioè, risucchiando la realtà sociale sempre più complessa e pluralista, non può mantenere l'antica strutturazione unitaria, ed è preso nel vortice di spinte centrifughe e di molteplici aspettative. Il risultato è che la complessità e il pluralismo divengono caratteri propri anche dello Stato oltreché della società. I connotati della pesante macchina di governo ne escono profondamente modificati (24): tra gli altri effetti, quello dell'erosione della neutralità della pubblica amministrazione. E' il trionfo di una «situazione di frantumazione risultante dalla crisi del modello keynesiano /.../ con l'intreccio marcatissimo di politica ed economia e la sussunzione istituzionale dentro l'interesse generale di tutti i conflitti della società civile senza più la pretesa di trascenderli» (25).
L'aspetto «pluralistico» dello Stato totale è colto da Franz Neumann nel suo studio del moderno Behemoth (lo Stato nazional-socialista tedesco), il quale - ad avviso del giurista tedesco -, lungi dall'essere monolitico, risulta dall'insieme di tante consorterie politico-economiche in concorrenza fra loro ma tutte egualmente annidate nell'apparato pubblico (26). A questo proposito, mi pare opportuno riportare la tesi di Horkheimer per il quale il dominio politico, se vuole riprodursi come contrapposizione tra dominanti e dominati, deve mantenere al suo interno degli antagonismi e delle diversificazioni: «Il cartello mondiale è impossibile, esso si ribalterebbe subito in libertà. I pochi grandi monopoli, che mantengono in piedi forme di concorrenza nonostante metodi identici di fabbricazione e identici prodotti, danno il modello delle future costellazioni politiche» (27).
Nelle società-Stato delle corporazioni pubblico-private, il conflitto, negato al di fuori del sistema, si trasforma in concorrenza politica al suo interno. «La nuova forma che la contraddizione viene ad assumere è /.../ il portato della disseminazione del potere negli «specialismi» e dell'allargamento dello Stato alla «società civile». Ma /.../ non nella direzione di un'unità indistinta di economia e politica /.../: piuttosto, nel senso di un'interazione complessa tra dinamica del ciclo economico e imperativi del sistema» (28).
Sia ben chiaro, però, che il riconoscimento dello Stato corporato, e della sua interna conflittualità è possibile a partire dalla consapevolezza della povertà scientifica dell'ortodossia che vede nello Stato una mera «sovrastruttura», e rimastica di continuo una frase di Marx: «Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l'oppressione di un'altra» (29). Lo Stato, disgraziatamente, non è «sovrastruttura», ma (se si vuole ancora adoperare la terminologia marxiana) struttura non è forma, o non solo forma, ma sostanza (30).

1) G. ORWELL, Millenovecentottantaquattro, trad. it., Mondadori, Milano «, p. 25.

2) «La faccia dai baffi neri riguardava da ogni cantone. Ce n'era una proprio nella casa di fronte. «Il grande fratello vi guarda», diceva la scritta, mentre gli occhi neri fissavano con penetrazione quelli di Winston» (G. OR WELL, op. cit., p. 26).

3) Come scrive Mihaly Vajda, «la borghesia è la prima classe dominante nella storia, ossia il primo strato sotto un determinato aspetto dominante, che non ha un potere politico, anzi che si trova talvolta costretta a combattere per la propria specifica possibilità di dominio contro il potere politico» (M. VAJDA, Sistemi sociali oltre Marx. Società civile e stato burocratico all'Est, trad. it., Feltrinelli, Milano 1980, p. 62). Così, «la totalità sociale che chiamiamo società borghese consiste nella separazione della società civile nel senso stretto del termine e dello Stato e deve essere definita un pluralismo di potere, un gioco di forze tra i ruoli del potere economico e politico per la prima e unica volta nella storia umana separati gli uni dagli altri» (ivi, pp. 64-65).

4) J. DEWEY, Liberalismo e azione sociale, trad.it., La Nuova Italia, Firenze 1948, p. 69.

5) S. D'ALLURA, Sviluppi della teoria rivoluzionaria sulla questione attuale dello Stato, tesi di laurea, Università di Messina Facoltà di lettere e filosofia, corso di laurea in filosofia, relatore il prof C. Valenti, anno accademico 1977-1978, inedita, p. 51.

6) Di «schema liberal-marxista», in merito alla teoria dello Stato parla Vajda (cfr. op. cit., p. 63). Importanti sono, a questo proposito, le osservazioni di Cornelius Castoriadis: «Il carattere centrale e sovrano della produzione e dell'economia (e la riduzione corrispondente di tutta la problematica sociale e politica) non sono nient'altro che i temi organizzatori dell'immaginario dominante dell'epoca (e della nostra): l'immaginario capitalista. /.../ La «recezione», la penetrazione del marxismo nel movimento operaio è stata, infatti, la reintroduzione (o la risorgenza) in questo movimento delle principali significazioni immaginarie sociali del capitalismo di cui esso aveva tentato di liberarsi nel periodo precedente» (C. CASTORIADIS, Le contenu du socialisme Union Général d'éditions, Paris 1979, pp. 29-30, trad. mia).

7) S. D'ALLURA, op. cit.,p. 47.

8) Ivi, p. 48.

9) Cfr. C. CASTORIADIS, From Bolshevism to Bureaucracy, in «Our Generation», vol. 12, n. 2, pp. 45-46.

10) G. MARRAMAO, Pluralismo corporativo, democrazia di massa, Stato autoritario, in AA. VV., Stato e capitalismo negli anni Trenta, Editori riuniti, Roma 1979, p. 23.

11) Su questo punto, cfr. R. ROMEO, Il risorgimento in Sicilia Laterza, Bari 1950.

12) cfr. B. RIZZI, L'URSS: collectivisme bureacratique. La bureacratisation du monde, II ed., Champ libre, Paris 1976.

13) K. MARX - F. ENGELS, Manifesto del partito comunista trad. it., Editori riuniti, Roma 1977, pp. 88-89.

14) Ivi, p. 88. Corsivo mio.

15) G. MARRAMAO, Pluralismo corporativo, democrazia di massa, Stato autoritario, cit., p. 24. Corsivo mio.

16) M. HORKHEIMER, Lo Stato autoritario, trad. it., in «Marxiana», anno l, n. l, gennaio-febbraio 1976, p. 114.

17) Ivi, p. 115.

18) «L'organizzazione del capitalismo, il capitalismo stesso la porta dentro di sé proprio come natura sua e cioè l'organizzazione del capitalismo non viene portata dall'esterno, dallo Stato, ma è appunto un determinato tipo di sviluppo del capitale ...» (M. TRONTI, Lo Stato nel capitalismo organizzato, in AA. VV., Stato e capitalismo negli anni Trenta, cit., p. 79.

19) Ivi, p. 82.

20) S. D 'ALLURA, op. cit., pp. 46-47. Corsivo mio.

21) F. FERRI, Ripensando gli anni Trenta, in AA. VV., Stato e capitalismo negli anni Trenta, cit., p. 11.

22) «Inoltre non si deve trascurare che, nell'osmosi che si è compiuta tra Stato e società, la vecchia contrapposizione tra una sfera politica (statuale e sovrastrutturale) e una sfera sociale (economica e strutturale) si è vieppiù attenuata, lasciando emergere una nuova modalità d'ordine burocratico-organizzativa, in cui la «ruolizzazione» e la conflittualità di tipo corporativo guadagnano sempre più terreno» (G.M. CHIODI, La menzogna del potere, Giuffré, Milano 1979, p. 91). Cfr. anche ivi, pp. 142-143. Il dibattito sul corporativismo nelle società contemporanee, o neo-corporativismo, è stato acceso di recente dagli studi di Gerhard Lehmbruc e Philippe C. Schmitter. Di quest'ultimo, cfr. in particolare Still the century of corporatism?, in «Review of Politics», 1974, pp. 85-131.

23) F. PlPERNO, Orizzonti possibili (Lo Stato metastabile), in «Metropoli», anno II, n. 2, aprile 1980.

24) C'è chi, al proposito, sostiene che nelle società industriali avanzate dell'occidente non siamo più in presenza di uno Stato nel senso stretto del termine. Questa è l'opinione, ad esempio, di Helmut Willke (di questi, cfr. Entzauberung des Staates. Uberlegungen zu einer sozietalen Steverungstheorie, Athenaum, Konigstein 1983).

25) A.ILLUMINATI, Gli inganni di Sarastro. Ipotesi sul politico e sul potere, Einaudi, Torino 1980, p. 6. Più avanti l'autore ribadisce lo «specifico pluralismo che sorge, dopo Keynes, dentro lo Stato e non più fra «società politica» e «società civile» articolata, quando il capitalismo di Stato redistribuisce dentro e fra gli apparati i contrasti fra le differenti frazioni della borghesia».

26) Cfr. F. NEUMANN, Behemoth. The structure and practice of National Socialism (1933-1944), Cass, London 1967. E' interessante notare che per uno studioso dei regimi socialisti dell'Est uno degli aspetti distintivi del totalitarismo è la privatizzazione dei poteri pubblici: «Forse il carattere strutturale più importante del totalitarismo del ventesimo secolo è la privatizzazione della sfera pubblica» (J. T. GROSS, A note on the nature of Soviet Totalitarianism, in «Soviet Sudies», 1982, p. 376, trad. mia).

27) M. HORKHEIMER, Lo Stato autoritario, cit., p. 132.

28) G. MARRAMAO. op. cit., loc. cit., p. 33. Di questo avviso è anche Wittfogel: «La seconda rivoluzione industriale che stiamo oggi vivendo, perpetua il principio di una società policentrica mediante grandi complessi burocratizzati che si controllano e si condizionano mutualmente e lateralmente: fra essi, i più importanti sono il governo, le grandi organizzazioni economiche e agricole e i sindacati dei lavoratori» (K. A. WITTFOGEL, Il dispotismo orientale, trad. it., vol. II, Vallecchi, Firenze 1968, pp. 704-705). Per Wittfogel la dinamica «laterale», orizzontale, tra grosse concentrazioni di potere politico-economico, è direttamente proporzionale alla burocratizzazione della sfera decisionale e al parallelo attenuarsi della dinamica verticale tra «base» e «vertice». «La diminuzione dei controlli verticali dal basso (da parte degli elettori, degli azionisti e degli iscritti ai sindacati) procede di pari passo con l'estensione dei controlli laterali. Questi ultimi non sono nuovi /.../. Ma, benché la loro importanza sia cresciuta, le recenti rivoluzioni comuniste e fasciste dimostrano che essi sono scarsamente efficaci a impedire un'accumulazione totalitaria di potere» (K. A. WITTFOGEL, op. cit., pp. 704-705, nota (a)). I controlli laterali (ovvero il pluralismo corporativo) non sono, pertanto, - per questo studioso - incompatibili con la tendenza totalizzante dello Stato contemporaneo, ne rappresenterebbero anzi una specifica manifestazione.

29) K. MARX-F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, cit., p.89.

30) Per riconoscimenti in questo senso, cfr. M. VAJDA, op. cit., in particolare pp. 61-62.