Rivista Anarchica Online
Ma lo stato non è sovrastruttura
di Massimo La Torre
«Tutto ciò che vuol crescere sotto il dominio corre il rischio di riprodurlo» Max Horkheimer
1. In Oceania - Fascia Aerea n. 1, la Gran Bretagna descritta da Orwell nell'anno
millenovecentottantaquattro, in ogni casa vi è un teleschermo, «una placca di metallo oblungo
simile a uno specchio opaco, che faceva parte della superficie della parete» (1), il quale per
l'accensione non dipende dal suo «proprietario» (diciamo così, ma impropriamente) ma da
un'istanza superiore (il Partito). Questo schermo, tramite tra l'individuo assolutamente solitario e il
Partito (personalizzato dal ritratto del Grande Fratello affisso dappertutto) (2), ha una ulteriore
peculiarità: esso è in grado non soltanto di trasmettere programmi al suo «proprietario» ma anche di
estorcere le immagini e i suoni della vita di questi. Tale seconda funzione è sempre attivata, di
modo che l'individuo rintanato nel suo squallido flat è costantemente tenuto sotto controllo, giorno
e notte spiato dalla psicopolizia. Oggi, nel millenovecentottantaquattro storico, uno schermo è in
ogni casa anche nel nostro paese. Esso può solo darci, e non rubarci, immagini, ma acquista sempre
più importanza, oserei dire «centralità», nella nostra esistenza. E gli strumenti sono pronti, grazie ai
progressi della telematica, perché lo schermo si carichi di nuove funzioni. Già ora, attorno a quella
scatola di vetro e di resina, si svolge una parte notevole della vita umana: per i bambini del 1984
storico la trottola è un oggetto misterioso, pressocché archeologico; per la loro gioia si accendono i
giochi elettronici collegati al video. Le strade alla sera sono deserte, ciascuno separato dagli altri
riposa fissando la luce bluastra del televisore. Ma quale il rapporto tra Stato e televisore? E' semplice (per quanto paradossale), la televisione è la
manifestazione dello Stato che più si serve della collaborazione dei cittadini, considerato che,
perché lo schermo si illumini, nel 1984 storico è ancora necessario che il suo proprietario prema un
bottone. Ed è un pezzo di Stato che tutti si affannano ad acquistare, magari a colori, la cui
diffusione non intimidisce nessuno, che è l'oggetto immancabile di tutti i concorsi a premi. Dunque,
dall'angolo visuale della nostra vita quotidiana, non è esagerato affermare che «lo Stato è la
televisione». E lo Stato, allora, è dappertutto, e nel cuore stesso della nostra intimità. La televisione
è il segno di questa proliferazione dei margini della sfera statale, dello sfondamento della
dimensione sociale, civile, quotidiana, ottenuto dal potere pubblico. Come è potuto accadere tutto
ciò?
Dallo stato liberale allo stato sociale 2. Preliminarmente bisognerebbe domandarsi se è proprio vero che la dimensione statale, nelle
società del passato, fosse meno presente ed invadente. La risposta è incerta per quel che concerne il
periodo dello Stato assoluto, anche se le tecniche politiche dei secoli sedicesimo e diciassettesimo
erano assai meno progredite ed assai più primitive delle attuali. Ma è abbastanza sicura per il
periodo della rivoluzione borghese, là dove programmaticamente si afferma il primato
dell'economia e della società civile. Tuttavia qui sorge una ulteriore domanda: la società civile di
cui si pone il primato nel pensiero liberale è la trama intera dei rapporti sociali, o non piuttosto
soltanto lo spazio economico affidato alle cure della classe capitalista? Detto altrimenti: ritenuto
che lo spazio economico è dominato dal capitalismo ascendente e dal suo selvaggio individualismo,
e che la società civile è tutta qui, concentrata nelle filande e nelle miniere, quale altro senso può
avere l'affermazione del suo primato se non il riconoscimento di una composizione comunque
autoritaria della società (attraversata dall'opposizione tra chi gestisce il processo produttivo e chi lo
subisce)? Ad ogni buon conto, può dirsi senza troppo arrischiare che nella società borghese l'autorità ha
diverse zone di insorgenza; la forma politica, lo Stato, che però non ne conquista il monopolio, e le
imprese che sviluppano anch'esse, per loro interna costituzione, autoritarismo e controllo sociale. Il
dato importante resta la frammentazione dell'autorità, la sua articolazione accentuatamente
concorrenziale, la sua prevalente informalità, mentre lo Stato viene guardato con sospetto in quanto
potrebbe per le sue possibilità accentratrici far saltare questa articolazione liberistica di autorità in
concorrenza tra loro e irrigidire (sclerotizzare) il controllo formale nella formalità istituzionale (3):
il sistema borghese rimane una società «aperta», dove al centro sta comunque l'individuo (seppure
proprietario), e le solidarietà sociali non sono indotte (al contrario aspramente combattute) ma
spontanee e produttrici di cultura alternativa. Se il regime concorrenziale lascia gli individui (in
misura elevatissima i salariati) esposti alle selvagge contingenze della produttività, e li fa correre
sul filo sottilissimo del profitto («il primo liberalismo attribuì importanza alla insicurezza, come
fondamentale e necessario motivo economico» (4), tuttavia adesso li costringe alla solidarietà più
sentita, e scavando un abisso tra la condizione operaia e lo status di capitalista mette la cultura
marginale della classe subalterna al riparo dal condizionamento dei suoi padroni. Se mai vi è stata
cultura operaia, fu quello del capitalismo nascente il periodo in cui questa poté esprimersi nella
separatezza marginalità solidarietà di quanti vendevano la propria forza-lavoro. Dalla società borghese alla società statalizzata, dallo Stato liberale allo Stato sociale la transizione
passa lungo tre assi principali. Questi sono: (a) la debolezza congenita del capitalismo classico,
dovuta alla sua struttura elevatamente conflittuale, alla sua costante insicurezza, fonte di crisi e di
scompensi; (b) la rivoluzione tecnologica, e il conseguente aumento della complessità sociale che
finisce per colpire a morte la figura, centrale per la società borghese, dell'individuo proprietario; (c)
l'irruzione sulla scena politica del movimento operaio che attribuisce all'elemento della forza-lavoro
una rigidità intollerabile per il sistema concorrenziale, e che inoltre si fa portatore di un'ideologia
fondamentalmente statalistica contrapposta al tradizionale antistatalismo della borghesia.
«Attraverso la costituzione di proprie organizzazioni sindacali e politiche la classe operaia ruppe la
funzionalità della società borghese; questa divenne incapace di garantire la valorizzazione del
capitale proprio perché la concorrenza dei capitali individuali e quindi la frammentarietà della
classe dominante di fronte alla compattezza della classe operaia organizzata non le consentiva di
ripristinare il proprio controllo su una forza-lavoro divenuta variabile indipendente» (5).
Fragilità del capitalismo classico 3. Esaminiamo più attentamente le tre vie sopra indicate, attraverso cui si svolge la transizione
dallo Stato liberale allo Stato sociale. (a) La crisi del '29 e la politica economica keynesiana furono gli effetti della composizione
concorrenziale del capitalismo classico che, se pure modificata in direzione oligopolistica e
monopolistica, manteneva un tasso altissimo di insicurezza e di arbitrio. La «mano invisibile» del
mercato si dimostrò incapace di garantire la crescita produttiva e il processo di valorizzazione del
capitale. Afferma Keynes in una conferenza del 1931 a Chicago: «La società capitalistica come
oggi funziona è essenzialmente instabile. Quello che mi chiedo è se potremo mantenere la stabilità
con l'introduzione di un moderato livello di comando /.../ e se quello di cui abbiamo bisogno non
sia un più elevato piano di controllo» (corsivi miei). Così Keynes, rileggendo l'esperienza
mercantilistica dello Stato assoluto, rivaluta il senso del sostegno statale che quella antica politica
esprimeva. «Il peso della mia critica è dunque diretto contro l'inadeguatezza dei fondamenti teorici
della dottrina del laissez-faire /.../; contro la nozione che il saggio d'interesse e il volume
dell'investimento si aggiustano automaticamente al livello ottimo, cosicché sarebbe tempo sprecato
preoccuparsi della bilancia commerciale. Giacché noi, il corpo degli economisti, siamo stati
colpevoli di un errore di presunzione nell'aver trattato come un'ossessione puerile ciò che per secoli
è stato un obiettivo principale dell'azione pratica degli uomini di stato» (Teoria generale, cap.
XXIII). Il superamento della conflittualità tra privati (i singoli imprenditori) poteva darsi o
nell'equilibrio delle zone private e nella loro reciprocità (e quindi nella dimensione collettiva e
pluralista che è la proposta proudhoniana), oppure nella subordinazione del privato al pubblico che
veniva identificato, in linea con la tradizione liberale, con lo Stato in quanto spazio neutrale e tale
perché generale (espressione dell'interesse generale) (6). Nel primo caso, che non comporta in
Proudhon l'equilibrio tra capitalisti ma l'equilibrio tra unità produttive (che è assolutamente
incompatibile con la dialettica capitalistica), come nel secondo, che significa l'assunzione da parte
dello Stato della funzione imprenditoriale, il capitalismo classico trovava la sua morte. Non posso,
pertanto, sottoscrivere l'opinione seguente: «Ciò che conta nel modo di produzione capitalistico è il
capitale complessivo, per quanto riguarda invece i singoli capitali è importante la loro «persona
giuridica» non la loro «composizione sociale». Queste frazioni del capitale possono essere capitali
individuali (i proprietari borghesi), ma anche società per azioni, o enti di stato» (7). Ciò perché «il
destino del capitale non è legato necessariamente alla borghesia» (8), il che equivale a dire che il
destino del capitale non coincide con le sorti del capitalismo.
La burocratizzazione del management (b) Quanto detto sopra ci riporta al secondo asse di trasformazione del capitalismo: la rivoluzione
tecnologica, il conseguente aumento della complessità sociale, il gonfiarsi delle dimensioni
dell'impresa e la divaricazione tra la forma giuridica proprietaria (fissata nel diritto di proprietà
come diritto assoluto) e la realtà effettuale della gestione dei processi economici. La crescente
complessità sociale provoca la burocratizzazione del management, che deve farsi collettivo, e
dunque la sua progressiva separatezza dal diritto di proprietà, che è per definizione individuale (9).
«Questa fase è definita dal processo che Schumpeter chiamerà «mutamento di funzione
dell'imprenditore»: ossia dalla separazione tra proprietà e gestione dei mezzi di produzione» (10).
E' ciò che può definirsi, nell'ambito delle grandi società per azioni, la scissione tra proprietà e
possesso, tra la figura del proprietario azionista (fruitore degli utili) e quella del gestore manager il
quale determina la politica dell'impresa. Qui la forma giuridica rappresenta una realtà sorpassata, e
non segnala il vero spazio del potere economico. La proprietà diviene nudum ius, o qualcosa di più
del mero diritto nel caso dell'azionista poiché a questi compete non solo il diritto di disposizione
(del titolo) ma anche il diritto di godimento (degli utili) e tuttavia non ha il potere di gestione.
Queste tre facoltà (disposizione, godimento, gestione) tendono a costituire una unità nel diritto di
proprietà, e solo in una situazione di transizione possono darsi staccate; tuttavia preludono sempre
ad una nuova riunione in capo ad un unico soggetto. Una situazione analoga marca, ad esempio in Sicilia, il declino del feudatario e l'ascesa della
borghesia terriera. Il nobile trasferitosi nella città riceve dalle sue terre una lauta rendita che gli
consente di vivere nell'ozio e nel lusso, ma il massaro, e poi il gabelloto, sono i soggetti che di fatto
detengono e gestiscono le terre (11). Essi diverranno i proprietari, quando la forma giuridica che
possiede una relativa autonomia si riadeguerà allo stato di fatto cui generalmente corrisponde.
Ugualmente - come è noto - gli azionisti di oggi accumulano profitti, ma in gran parte (soprattutto
nelle grandi imprese e nelle multinazionali) non riescono a determinare la politica dell'impresa.
Questo è invece il compito dei managers i quali, restando formalmente dei soggetti salariati, sono il
gruppo sociale che di fatto detiene e gestisce il potere economico. Questo gruppo, che sembra
assumere le caratteristiche di una «nuova classe», è parente stretto della tecnoburocrazia statale che
controlla il settore pubblico dell'economia e fonda la propria posizione nella gerarchia sociale
esclusivamente sul proprio sapere e sulla propria sapienza politica. Si delinea quella che Bruno
Rizzi chiamava «proprietà di classe» contrapposta alla proprietà individuale vigente nella società
borghese (12).
Movimento operaio e stato (c) Nel processo di diffusione dello Stato nel territorio sociale, un ruolo di primo piano ha giocato
l'insorgenza del movimento operaio e dell'ideologia dominante di questo: il marxismo. Gran parte
del pensiero socialista, e innanzittutto il pensiero marxista così come si forgia nella prassi politica a
partire dalla Prima Internazionale, è molto indulgente nei confronti dei poteri dello Stato. Questo,
in quanto dimensione in radice collettiva e superiore alle diverse zone individuali, viene esaltato in
contrapposizione all'egotismo capitalistico. Val la pena ricordare ancora una volta che il termine
«socialismo» viene coniato in polemica con quello di «individualismo», che sembra costituire, con
la sua dottrina del laissez-faire, la filosofia dell'imprenditore manchesteriano. Lo Stato
materializza, agli occhi dei socialisti come Cabet e Blanc, la comunità degli interessi e viene
identificato con la società di cui costituirebbe l'istituzionalizzazione e la formalizzazione. Tra Stato
e comunità intercorre, secondo l'avviso di questo pensiero socialista, una relazione come tra forma
e sostanza. Ecco spiegato il perché si mischia «socializzazione» con «nazionalizzazione», e la
messa in comune dei mezzi di produzione diviene in quest'ottica la loro statizzazione.
Lo statalismo marxista 4. Il programma immediato del Manifesto del partito comunista abbonda di «nazionalizzazioni» e
di provvedimenti accentratori dello Stato: al punto (1) «espropriazione della proprietà fondiaria e
impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato», al punto (2) «imposta fortemente
progressiva», al punto (5) «accentramento del credito nelle mani dello Stato per mezzo d'una banca
nazionale con capitale di Stato e con monopolio esclusivo», al punto (6) «accentramento dei mezzi
di trasporto nelle mani dello Stato», al punto (7) «aumento delle fabbriche nazionali» (che
riprendono l'idea degli ateliers nationaux di Louis Blanc), al punto (8) «istituzione di eserciti
industriali» (13). Il movimento operaio, nella sua componente maggioritaria marxista (dalla
Seconda alla Terza Internazionale), spinge con le sue rivendicazioni nella direzione del
potenziamento dell'intervento statale, non soltanto indirettamente premendo sulle aziende e
costringendo lo Stato a muoversi in operazioni di sostegno e di salvataggio dell'industria privata,
ma anche e soprattutto direttamente individuando nello Stato il tramite necessario per la
rivoluzione socialista. Marx parla di «interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti
borghesi di produzione» (14). Così, il movimento operaio, agendo nel quadro di una logica
inflessibilmente statalista, stabilisce «un rapporto di stretta interdipendenza tra inversione della
tendenza al crollo e immissione delle masse organizzate /.../ nella dinamica evolutiva del sistema
sociale: questo nuovo elemento è in grado di mutare gradualmente fisionomia e qualità dello
sviluppo, in quanto spinge lo Stato a farsi sempre più «sociale» e «riformatore». La lotta per il
socialismo viene così a coincidere con la lotta per la liberazione dello Stato dai ceppi ad esso
imposti dal potere privato e monopolistico» (15). Ma lo statalismo del movimento operaio non è tutto nei contenuti dele sue rivendicazioni, ma
anche: (a) nell'accettazione della divisione dei due piani, il politico e l'economico,
nell'organizzazione della lotta sociale, e nella conseguente predominanza del politico
sull'economico (si pensi alla concezione del partito come «avanguardia» e del sindacato come
«cinghia di trasmissione» del partito); (b) nella interna strutturazione gerarchica delle sue
organizzazioni (partito e sindacato per l'appunto). Horkheimer lucidamente descrive questo
specchiarsi del movimento operaio nelle teoriche dello Stato autoritario: «Le grandi organizzazioni
promuovevano una idea di socializzazione difficilmente distinguibile da quella di statalizzazione,
nazionalizzazione e pubblicizzazione nel capitalismo di Stato /.../ L'immaginazione, ormai, non si
sollevava più dal solido terreno dei dati di fatto se non per porre, in luogo dell'apparato statale
esistente, le burocrazie partitiche e sindacali e, in luogo del principio del profitto, i piani annuali
dei funzionari» (16). Si verifica nel movimento operaio un fenomeno analogo a quello del divorzio
tra proprietà e gestione nelle grandi società per azioni: «Col crescere dell'apparato diviene sempre
più tecnicamente difficile controllare e sostituire questi dirigenti, di modo che tra la pratica utilità
del loro permanere, e la loro personale decisione a non andarsene, sembra regnare un'armonia
prestabilita. Il dirigente e la sua cricca diventano, nell'organizzazione operaia, così indipendenti,
quanto nel campo opposto il management del monopolio industriale di fronte all'assemblea degli
azionisti» (17).
Si può parlare di «stato totale»? 5. Giunti a questo punto è doveroso interrogarsi sul significato di tale abnorme sviluppo della sfera
statale. Siamo ancora nel solco tracciato dal capitalismo classico che è cresciuto col sostegno dello
Stato fino ad arrivare alla «maturità» (18) o non siamo piuttosto dentro «il processo finale di
liberazione dello Stato dalla rappresentanza diretta dell'interesse capitalistico»? (19). Ci troviamo di
fronte allo Stato sociale, in cui si è realizzata la funzione completa di politico ed economico, o
meglio della pubblica amministrazione e dell'impresa privata o siamo ancora in presenza di una
ulteriore forma del capitalismo, così come crede chi scrive che «vedere nello sviluppo dello Stato
/.../ l'emergere di elementi non capitalistici /.../ non risulta convincente perché lo Stato non
interviene in merito alla natura stessa del rapporto di capitale, ma nella «pratica» dei rapporti
proprio per garantire la vigenza delle leggi generali del modo di produzione»? (20). Quest'ultima
ipotesi è condivisa da Franco Ferri il quale parla di «nuovo modo di essere del capitalismo» e vede
nelle differenti sistemazioni politico-istituzionali uscite dalla crisi del '29 «i modi specifici con i
quali il capitalismo ha risposto alla crisi riorganizzando il potere e la propria egemonia attraverso i
nuovi assetti, come gestione e governo complessivo delle contraddizioni sociali» (21). Tale ipotesi,
tuttavia, non mi soddisfa, poiché tutto quanto si è finora detto esclude che si possa fondatamente
qualificare come capitalistico in senso proprio il sistema sociale nel quale ci troviamo a vivere. Ma
mi soddisfa poco anche la definizione di Stato totale, dapprima perché denuncia il suo carattere di
«idealtipo» e d'altro canto perché riconduce ad unità una realtà segnata di pluralismo. Di Stato totale, a mio parere, può parlarsi correttamente se si intende con ciò fissare: (a) la tendenza
presente nel mondo contemporaneo alla confusione tra Stato e società; (b) l'intrico di pubblico e
privato ad ogni accelerazione di tale tendenza alla statalizzazione delle attività sociali (che coincide
in gran parte con ciò che Habermas definisce la «colonizzazione» della vita quotidiana). Lo Stato
totale è quello Stato che, facendosi società, si corrompe, si degrada, assume - per orientare la
propria azione - criteri sempre più privatistici, si corporativizza (22). «Si delinea così uno Stato che
'colonizza' amministrativamente la vita privata, 'l'esperienza' individuale e collettiva; uno stato
'dell'amministrazione totale', uno stato 'complesso' che risponde alla complessità delle aspettative e
dei comportamenti tentando di irretirli» (23). Lo Stato, cioè, risucchiando la realtà sociale sempre
più complessa e pluralista, non può mantenere l'antica strutturazione unitaria, ed è preso nel vortice
di spinte centrifughe e di molteplici aspettative. Il risultato è che la complessità e il pluralismo
divengono caratteri propri anche dello Stato oltreché della società. I connotati della pesante
macchina di governo ne escono profondamente modificati (24): tra gli altri effetti, quello
dell'erosione della neutralità della pubblica amministrazione. E' il trionfo di una «situazione di
frantumazione risultante dalla crisi del modello keynesiano /.../ con l'intreccio marcatissimo di
politica ed economia e la sussunzione istituzionale dentro l'interesse generale di tutti i conflitti della
società civile senza più la pretesa di trascenderli» (25). L'aspetto «pluralistico» dello Stato totale è colto da Franz Neumann nel suo studio del moderno
Behemoth (lo Stato nazional-socialista tedesco), il quale - ad avviso del giurista tedesco -, lungi
dall'essere monolitico, risulta dall'insieme di tante consorterie politico-economiche in concorrenza
fra loro ma tutte egualmente annidate nell'apparato pubblico (26). A questo proposito, mi pare
opportuno riportare la tesi di Horkheimer per il quale il dominio politico, se vuole riprodursi come
contrapposizione tra dominanti e dominati, deve mantenere al suo interno degli antagonismi e delle
diversificazioni: «Il cartello mondiale è impossibile, esso si ribalterebbe subito in libertà. I pochi
grandi monopoli, che mantengono in piedi forme di concorrenza nonostante metodi identici di
fabbricazione e identici prodotti, danno il modello delle future costellazioni politiche» (27). Nelle società-Stato delle corporazioni pubblico-private, il conflitto, negato al di fuori del sistema, si
trasforma in concorrenza politica al suo interno. «La nuova forma che la contraddizione viene ad
assumere è /.../ il portato della disseminazione del potere negli «specialismi» e dell'allargamento
dello Stato alla «società civile». Ma /.../ non nella direzione di un'unità indistinta di economia e
politica /.../: piuttosto, nel senso di un'interazione complessa tra dinamica del ciclo economico e
imperativi del sistema» (28). Sia ben chiaro, però, che il riconoscimento dello Stato corporato, e della sua interna conflittualità è
possibile a partire dalla consapevolezza della povertà scientifica dell'ortodossia che vede nello
Stato una mera «sovrastruttura», e rimastica di continuo una frase di Marx: «Il potere politico, nel
senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l'oppressione di un'altra» (29).
Lo Stato, disgraziatamente, non è «sovrastruttura», ma (se si vuole ancora adoperare la
terminologia marxiana) struttura non è forma, o non solo forma, ma sostanza (30).
1) G. ORWELL, Millenovecentottantaquattro, trad. it., Mondadori, Milano «, p. 25.
2) «La faccia dai baffi neri riguardava da ogni cantone. Ce n'era una proprio nella casa di fronte.
«Il grande fratello vi guarda», diceva la scritta, mentre gli occhi neri fissavano con penetrazione
quelli di Winston» (G. OR WELL, op. cit., p. 26).
3) Come scrive Mihaly Vajda, «la borghesia è la prima classe dominante nella storia, ossia il
primo strato sotto un determinato aspetto dominante, che non ha un potere politico, anzi che si
trova talvolta costretta a combattere per la propria specifica possibilità di dominio contro il potere
politico» (M. VAJDA, Sistemi sociali oltre Marx. Società civile e stato burocratico all'Est, trad. it.,
Feltrinelli, Milano 1980, p. 62). Così, «la totalità sociale che chiamiamo società borghese consiste
nella separazione della società civile nel senso stretto del termine e dello Stato e deve essere
definita un pluralismo di potere, un gioco di forze tra i ruoli del potere economico e politico per la
prima e unica volta nella storia umana separati gli uni dagli altri» (ivi, pp. 64-65).
4) J. DEWEY, Liberalismo e azione sociale, trad.it., La Nuova Italia, Firenze 1948, p. 69.
5) S. D'ALLURA, Sviluppi della teoria rivoluzionaria sulla questione attuale dello Stato, tesi di
laurea, Università di Messina Facoltà di lettere e filosofia, corso di laurea in filosofia, relatore il
prof C. Valenti, anno accademico 1977-1978, inedita, p. 51.
6) Di «schema liberal-marxista», in merito alla teoria dello Stato parla Vajda (cfr. op. cit., p. 63).
Importanti sono, a questo proposito, le osservazioni di Cornelius Castoriadis: «Il carattere
centrale e sovrano della produzione e dell'economia (e la riduzione corrispondente di tutta la
problematica sociale e politica) non sono nient'altro che i temi organizzatori dell'immaginario
dominante dell'epoca (e della nostra): l'immaginario capitalista. /.../ La «recezione», la
penetrazione del marxismo nel movimento operaio è stata, infatti, la reintroduzione (o la
risorgenza) in questo movimento delle principali significazioni immaginarie sociali del capitalismo
di cui esso aveva tentato di liberarsi nel periodo precedente» (C. CASTORIADIS, Le contenu du
socialisme Union Général d'éditions, Paris 1979, pp. 29-30, trad. mia).
7) S. D'ALLURA, op. cit.,p. 47.
8) Ivi, p. 48.
9) Cfr. C. CASTORIADIS, From Bolshevism to Bureaucracy, in «Our Generation», vol. 12, n. 2,
pp. 45-46.
10) G. MARRAMAO, Pluralismo corporativo, democrazia di massa, Stato autoritario, in AA. VV.,
Stato e capitalismo negli anni Trenta, Editori riuniti, Roma 1979, p. 23.
11) Su questo punto, cfr. R. ROMEO, Il risorgimento in Sicilia Laterza, Bari 1950.
12) cfr. B. RIZZI, L'URSS: collectivisme bureacratique. La bureacratisation du monde, II ed.,
Champ libre, Paris 1976.
13) K. MARX - F. ENGELS, Manifesto del partito comunista trad. it., Editori riuniti, Roma 1977,
pp. 88-89.
14) Ivi, p. 88. Corsivo mio.
15) G. MARRAMAO, Pluralismo corporativo, democrazia di massa, Stato autoritario, cit., p. 24.
Corsivo mio.
16) M. HORKHEIMER, Lo Stato autoritario, trad. it., in «Marxiana», anno l, n. l, gennaio-febbraio
1976, p. 114.
17) Ivi, p. 115.
18) «L'organizzazione del capitalismo, il capitalismo stesso la porta dentro di sé proprio come
natura sua e cioè l'organizzazione del capitalismo non viene portata dall'esterno, dallo Stato, ma è
appunto un determinato tipo di sviluppo del capitale ...» (M. TRONTI, Lo Stato nel capitalismo
organizzato, in AA. VV., Stato e capitalismo negli anni Trenta, cit., p. 79.
19) Ivi, p. 82.
20) S. D 'ALLURA, op. cit., pp. 46-47. Corsivo mio.
21) F. FERRI, Ripensando gli anni Trenta, in AA. VV., Stato e capitalismo negli anni Trenta, cit., p.
11.
22) «Inoltre non si deve trascurare che, nell'osmosi che si è compiuta tra Stato e società, la vecchia
contrapposizione tra una sfera politica (statuale e sovrastrutturale) e una sfera sociale (economica
e strutturale) si è vieppiù attenuata, lasciando emergere una nuova modalità d'ordine burocratico-organizzativa, in cui la «ruolizzazione» e la conflittualità di tipo corporativo guadagnano sempre
più terreno» (G.M. CHIODI, La menzogna del potere, Giuffré, Milano 1979, p. 91). Cfr. anche ivi,
pp. 142-143. Il dibattito sul corporativismo nelle società contemporanee, o neo-corporativismo, è
stato acceso di recente dagli studi di Gerhard Lehmbruc e Philippe C. Schmitter. Di quest'ultimo,
cfr. in particolare Still the century of corporatism?, in «Review of Politics», 1974, pp. 85-131.
23) F. PlPERNO, Orizzonti possibili (Lo Stato metastabile), in «Metropoli», anno II, n. 2, aprile
1980.
24) C'è chi, al proposito, sostiene che nelle società industriali avanzate dell'occidente non siamo
più in presenza di uno Stato nel senso stretto del termine. Questa è l'opinione, ad esempio, di
Helmut Willke (di questi, cfr. Entzauberung des Staates. Uberlegungen zu einer sozietalen
Steverungstheorie, Athenaum, Konigstein 1983).
25) A.ILLUMINATI, Gli inganni di Sarastro. Ipotesi sul politico e sul potere, Einaudi, Torino 1980,
p. 6. Più avanti l'autore ribadisce lo «specifico pluralismo che sorge, dopo Keynes, dentro lo Stato
e non più fra «società politica» e «società civile» articolata, quando il capitalismo di Stato
redistribuisce dentro e fra gli apparati i contrasti fra le differenti frazioni della borghesia».
26) Cfr. F. NEUMANN, Behemoth. The structure and practice of National Socialism (1933-1944),
Cass, London 1967. E' interessante notare che per uno studioso dei regimi socialisti dell'Est uno
degli aspetti distintivi del totalitarismo è la privatizzazione dei poteri pubblici: «Forse il carattere
strutturale più importante del totalitarismo del ventesimo secolo è la privatizzazione della sfera
pubblica» (J. T. GROSS, A note on the nature of Soviet Totalitarianism, in «Soviet Sudies», 1982,
p. 376, trad. mia).
27) M. HORKHEIMER, Lo Stato autoritario, cit., p. 132.
28) G. MARRAMAO. op. cit., loc. cit., p. 33. Di questo avviso è anche Wittfogel: «La seconda
rivoluzione industriale che stiamo oggi vivendo, perpetua il principio di una società policentrica
mediante grandi complessi burocratizzati che si controllano e si condizionano mutualmente e
lateralmente: fra essi, i più importanti sono il governo, le grandi organizzazioni economiche e
agricole e i sindacati dei lavoratori» (K. A. WITTFOGEL, Il dispotismo orientale, trad. it., vol. II,
Vallecchi, Firenze 1968, pp. 704-705). Per Wittfogel la dinamica «laterale», orizzontale, tra grosse
concentrazioni di potere politico-economico, è direttamente proporzionale alla burocratizzazione
della sfera decisionale e al parallelo attenuarsi della dinamica verticale tra «base» e «vertice».
«La diminuzione dei controlli verticali dal basso (da parte degli elettori, degli azionisti e degli
iscritti ai sindacati) procede di pari passo con l'estensione dei controlli laterali. Questi ultimi non
sono nuovi /.../. Ma, benché la loro importanza sia cresciuta, le recenti rivoluzioni comuniste e
fasciste dimostrano che essi sono scarsamente efficaci a impedire un'accumulazione totalitaria di
potere» (K. A. WITTFOGEL, op. cit., pp. 704-705, nota (a)). I controlli laterali (ovvero il
pluralismo corporativo) non sono, pertanto, - per questo studioso - incompatibili con la tendenza
totalizzante dello Stato contemporaneo, ne rappresenterebbero anzi una specifica manifestazione.
29) K. MARX-F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, cit., p.89.
30) Per riconoscimenti in questo senso, cfr. M. VAJDA, op. cit., in particolare pp. 61-62.
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