Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 14 nr. 116
febbraio 1984


Rivista Anarchica Online

Kafka e l'anarchismo
di Michail Levi

Il problema della dimensione politica negli scritti di Kafka, visto come una questione metafisica e psicologica separata, è stato lungamente discusso dai suoi biografi e critici. La maggior parte cita i suoi rapporti con i circoli anarchici di Praga senza attribuirvi un particolare significato. Altri critici riconoscono che uno dei temi fondamentali dell'opera kafkiana è la lotta dell'uomo contro la macchina burocratica nei suoi molteplici aspetti.
Analizzando il contenuto delle sue principali opere e alla luce della sua biografia (che testimonia la sua simpatia nei confronti del gruppi anarchici) possiamo trovare una relazione che fa maggior luce sul mondo spirituale di Kafka. Bisogna dire che questa relazione politica è frammentaria: il mondo di Kafka è molto più ricco, più completo e poliedrico ed è difficile riassumerlo in una formula condensata ed isolata dal contesto generale.
I suoi primi contatti con i circoli anarchici o libertari di Praga risalgono al periodo nel quale egli cominciò a lavorare nella compagnia di assicurazioni per operai. Secondo la testimonianza di Mijal Kasha, uno dei fondatori del movimento anarchico a Praga, e di Mijal Mares, che allora era un giovane anarchico, Kafka partecipò frequentemente alle riunioni anarchiche del «Mlodite Club» ed a quelle antimilitariste ed anticlericali dell'associazione operaia «Vites Kerber». Partecipò anche al movimento anarcosindacalista cecoslovacco. Tutti i testimoni concordano nel dire che Kafka mostrava grande interesse alle discussioni che si svolgevano durante le riunioni, anche se non prese mai la parola e non partecipò ai dibattiti. Kasha, che lo stimava molto, solitamente lo chiamava «Klidos», che vuol dire più o meno «il gigante pacifico». Mijal Mares riferisce che, invitato da lui, Kafka partercipò ad iniziative anarchiche. La prima fu una manifestazione di protesta contro la condanna a morte del grande pensatore ed educatore anarchico spagnolo Francisco Ferrer. Kafka partecipò alla manifestazione che fu disciolta dalla polizia. Nel 1912 partecipò anche alla manifestazione di protesta contro la condanna a morte dell'anarchico Liabedz a Parigi. Anche questa manifestazione fu violentemente discioha dalla polizia, vi furono alcuni arresti e fra i detenuti risultava anche Kafka.
Mares racconta che Kafka leggeva con vivo interesse e simpatia gli scritti dei diversi teorici anarchici, tra i quali Domela Niewenhuis, i fratelli Reclus, Vera Finger, Bakunin, Jean Grave, Kropotkin ed altri. Esistono altri due testimoni delle tendenze antiautoritarie di Kafka e della sua simpatia per gli sfruttati. Nella sua opera «Lettera al padre» (1919) definisce «tirannica» la propensione di suo padre per il commercio e così lo accusa: Definivi i dipendenti «nemici pagati»; forse lo erano, ma prima che lo diventassero tu già mi sembravi il loro nemico pagante (...). Certo esageravo, perché ritenevo senz'altro che tu incutessi a tutti il terrore che incutevi a me (...). Io però presi in odio l'azienda che troppo mi ricordava i miei rapporti con te (...). Così finii per appartenere al partito dei tuoi dipendenti.
Qui troviamo un nesso fra la ribellione nei confronti dell'autorità paterna e la ribellione anarchica contro la forza economico-politica imperante.
E' noto il profondo odio che Kafka sentiva verso il suo lavoro nella compagnia di assicurazioni che definiva «il nido degli oscuri burocrati». Non riusciva a sopportare le sofferenze degli operai la cui vita veniva introdotta nel labirinto giuridico-burocratico della «Cassa di Assicurazioni Operaia». Questa frase spesso ripetuta, menzionata da Max Brod, è un'acuta e significativa espressione del suo pensiero: Quello che non va è la gente: vengono da noi con le loro suppliche invece di assaltare le officine e distruggerle; vengono da noi a chiedere misericordia. Lo spirito anarchico di questa frase, che Bakunin avrebbe certamente sottoscritto, è sufficiente per ricordarci la posizione di Kafka di fronte alle istituzioni burocratiche.
Max Brod dice che la struttura realista di molti capitoli de «Il processo» e de «Il castello» traggono la loro origine dalla compagnia di assicurazioni. E' fuori dubbio che questo lavoro burocratico e la ribellione di Kafka costituiscono le fonti dello spirito libertario che traspare dai suoi scritti.

Poeta quindi nemico dello stato
La tendenza anarchica nella vita di Kafka può forse essere considerata una passione giovanile passeggera, limitata a poche anni (1909-1912) della sua vita? Certo è vero che dopo il 1912 Kafka smise di partecipare alle attività anarchiche con i gruppi cecoslovacchi e cominciò a dimostrare un maggior interesse per i circoli ebraici e sionisti. Dobbiamo però ricordare le parole scambiate nel 1920 con G. Janusz, non solo perché definisce gli anarchici cecoslovacchi care e allegre persone (...) tanto gentili e fraterne che quasi forzatamente crediamo alle loro parole, ma anche perché le opinioni sociali e politiche che esprime sono molto vicine all'anarchismo. Così Kafka commenta con Janusz la non-ammissione dei poeti nella Repubblica di Platone: I poeti forniscono agli uomini nuovi occhi e in questo modo cercano di introdurre un cambiamento nel mondo reale. Per questo sono individui pericolosi per lo Stato, perché chiedono trasformazioni. Però lo Stato e i suoi fedeli servitori hanno una sola ed esclusiva volontà, quella di continuare ad esistere. Questa frase ci induce a pensare che Kafka si considerasse proprio come uno di questi poeti che mettono in pericolo la sicurezza dello Stato.
Kafka definisce il capitalismo come un sistema caratterizzato da relazioni nelle quali vi è sempre una gerarchia, dove tutto è concatenato. Questo è un pensiero tipicamente anarchico, nel quale si sottolinea il carattere oppressore e schiavizzante del regime vigente. La sua posizione scettica nei confronti del movimento operaio classista è anche una conseguenza della diffidenza che gli anarchici hanno sempre dimostrato verso i partiti politici e le loro istituzioni.
Durante una manifestazione operaia nella quale si sventolavano bandiere e si agitavano cartelloni, Kafka commentò con Janusz: Questa gente è così convinta di se stessa, così convinta di essere nel giusto! Dominano la strada e credono di essere quelli che detengono il potere del mondo. Però si sbagliano: perché dietro di loro ci sono segretari, funzionari, politici professionisti, tutti questi moderni «sultani» ai quali gli operai preparano il cammino verso il potere (...) la ribellione svanisce e si rimane sotto il giogo di una nuova burocrazia. La causa dell'umanità sofferente è intrecciata con i fogli della burocrazia (...).

L'orribile macchina della «giustizia»
Dei suoi tre romanzi più noti, «America» è certamente quello meno influenzato dalle idee libertarie. Nel suo secondo, «Il processo», emerge il problema della burocrazia autoritaria come uno dei temi fondamentali dell'opera. E' evidente che ne «Il processo» viene sottolineato l'aspetto burocratico-giuridico dell'apparato statale, oltre a quello politico-militare che gli anarchici hanno sempre combattuto. Questo fatto è facilmente comprensibile se teniamo presente che Kafka stesso fu un burocrate della giustizia, lavoro che gli dava la nausea.
Joseph K., l'innocente vittima de «Il processo», viene arrestato una mattina e nessuno riesce a spiegargli il motivo della sua detenzione. Viene giudicato in un tribunale nel quale non gli viene permesso di interporre appello ai giudici supremi; un tribunale che non riconosce la difesa anche se in parte la tollera; le sue decisioni risultano incomprensibili; i giudici non si fanno riconoscere, pronunciandosi alla fine con una sentenza che ordina «che muoia come un cane». La mancanza di leggi è soppiantata anche ne «Il processo» da una forte organizzazione giuridica che Joseph K. critica con indignazione: Un'organizzazione che si avvale di funzionari corrotti, ispettori imbecilli e giudici inquisitori (che nel migliore dei casi sono moderati) compreso anche il capo della gerarchia giuridica che si serve di un grande numero di servitori, funzionari, poliziotti ed altri aiutanti. Non mi astengo nemmeno dal dire a questa poderosa organizzazione: Boia! Carnefici! Cosa vuol dire, signori miei, che persone che sono giuridicamente innocenti vengano detenute facendole oggetto di assurde investigazioni?
«Il processo» descrive la macchina legale dal punto di vista delle vittime, degli uomini umili e sottomessi: una gerarchia burocratica, assurda e senza comprensione che non conosce la pietà.

Il villaggi o contro il castello
Ne «Il castello» Kafka tratta direttamente il problema dello stato e della burocrazia. Il paese che egli descrive è una visione sarcastica della cruda realtà che conobbe e visse sotto l'impero austro-ungarico.
«Il castello» oppone la forza, il potere e lo Stato al popolo, che ha come suo simbolo «il villaggio». Questo castello è dipinto e rappresentato come qualcosa di estraneo, ostile, che non permette la sua comprensione: costituisce una specie di strana e capricciosa forza che governa il popolo per mezzo di una tortuosa gerarchia di burocrati dal comportamento assurdo, incomprensibile, ridicolo.
Nel quinto capitolo, Kafka ci narra una parodia tragicomica del mondo burocratico: il disordine «ufficiale», che definisce come un ridicolo allarme. L'assurda logica interiore di questa idea si scopre in tutta la sua nudità nelle seguenti parole del sindaco:
Cosa vuol dire: se ci sono uffici di controllo? Ci sono solamente uffici di controllo. Certo non sono destinati a scoprire errori nel significato più squallido della parola, una volta stabilito che questi errori non avvengono; e anche quando qualche volta questi errori accadono, come nel suo caso, chi può dire con sicurezza che si tratta di un errore? Il sindaco della città ci ricorda che tutto l'apparato burocratico è costituito solo da uffici che si controllano l'un l'altro, però sostiene che in pratica non esiste niente che necessiti di un controllo. Pertanto non si trovano mai errori veramente gravi. Qualsiasi disposizione nega la precedente e, in definitiva, si dimostra la stupidità ufficiale. All'interno qualcosa sta crescendo, si espande a macchia d'olio: carte, cartacce d'ufficio (come dice Kafka) nei quali è confusa la causa dell'umanità sofferente. Un mare di carte riempie l'ufficio di Sordini.
Il culmine dell'alienazione burocratica si riassume però nelle parole dette dal sindaco, quando definisce l'apparato ufficiale come una macchina autonoma che funziona per se stessa. Qui Kafka evidenzia l'intimo e più inumano dei contenuti della creazione burocratica: il processo di alienazione che trasforma una struttura di relazioni umane in un oggetto pietrificato, in una macchina cieca.
Ne «Il castello» Kafka allude alla frequente doppiezza di una serie di eroi. Klam, per esempio, assomiglia ad un'aquila quando lo si osserva mentre espleta le sue funzioni ufficiali, però quando questo significativo rappresentante del castello viene visto attraverso il buco della serratura, ci appare come qualsiasi altro burocrate: di media statura, grasso, che fuma e beve birra, con baffi a punta e basette, ecc .. Allo stesso modo ci appare il castello: dall'esterno sembra impenetrabile, tutto forza; però guardandolo da vicino si vede che non soffre meno del villaggio.
Il lato brutto ed iniquo del potere del castello risalta nella lettura del capitolo Sordini-Amalia; l'espulsione dell'innocente ragazza che non accetta le indegne proposte del funzionario.
La propensione di Kafka a scoprire il volto meschino, mediocre ed immorale che si nasconde dietro la magnifica facciata dello Stato risalta molto bene anche in altri scritti. Ne «Il processo» ci tratteggia un giudice che occupa sfacciatamente il suo ruolo di giustiziere, però attraverso le dichiarazioni di Leni noi ci rendiamo conto di chi è in realtà quell'uomo che sta seduto su un semplice banco da cucina coperto da un vecchio mantello: l'anziano e rispettato Codigo nel vacuo recinto della giustizia risulta essere un collezionista di fotografie e di racconti pornografici. Lo stesso motivo lo troviamo in tanti scritti di Kafka, per esempio «Possesso», nel quale il Dio del Mare ci appare come un burocrate mediocre, che seduto sul suo tavolo da lavoro si dedica a risolvere semplici operazioni di aritmetica.
«Il castello» tratta il problema dell'impotenza dell'uomo di fronte alla diabolica farsa, alla pedante puntualità; alla complicata, brutale e ridicola tattica dell'onnipotente apparato di governo. Non solo Kafka, come un estraneo e un sovversivo, ma tutti coloro che lottano contro il potere sono triturati senza pietà dalla macchina, non per mezzo di un colpo mortale e diretto, ma con lentezza, indirettamente e con astuzia, succhiandone il midollo dalle loro ossa. In questo racconto si attacca il potere politico e burocratico in quanto tale. Proprio come i pensatori anarchici, Kafka non critica una forma determinata di stato ma il suo significato essenziale ed universale: il potere istituzionale e gerarchico.
Questa analisi de «Il castello» e de «Il processo» può essere considerata parziale se non si tiene conto che l'atteggiamento di Kafka e di Joseph K. di fronte all'autorità non consiste solo in una pura ribellione: in questa posizione troviamo anche un certo timore riverenziale. La stessa situazione ambivalente la possiamo notare anche nel comportamento di Kafka nei confronti del padre e nel suo rapporto con la stessa «autorità divina».

Quando l'uomo è divorato dalla macchina
Tra i racconti brevi di Kafka il più significativo dal punto di vista politico è «La fortezza»: un vigoroso grido di protesta contro l'autorità bestiale e la falsa ed estranea giustizia. Spesso si è sostenuto che attraverso questo racconto egli aveva previsto l'esistenza dei campi nazisti, ma in realtà Kafka tratteggia una precisa realtà della sua epoca: il colonialismo francese. I comandanti e gli ufficiali della «prigione» sono francesi che «non vogliono dimenticare la loro casa»; i soldati sottomessi, gli operai manovali e la vittima condannata a morte, sono indigeni che non capiscono una parola di francese. Kafka introduce il dramma coloniale per sottolineare la brutalità di alcuni governanti. Questo potere autoritario è più brutale di quello che troviamo ne «Il castello» e ne «Il processo».
Ne «La fortezza» Kafka ci parla della crudele vendetta di un potere iracondo. Un disgraziato coscritto è condannato a morte per non avere obbedito agli ordini impostigli e per aver mancato di rispetto ad un suo superiore. Fu visto non eseguire uno stupido obbligo, cioè ossequiare ad ogni ora della notte la porta della sua stanza. Questo soldato osò ribellarsi all'autorità e per tutta risposta ne ricevette dal suo capitano un ceffone e non essendovi nella disciplina militare la possibilità di difendersi, egli venne condannato a morte per mezzo di una macchina di tortura che avrebbe schiacciato il suo corpo: «Rispetta chi è sopra di te!». Questo però non è l'aspetto essenziale del racconto, ma anche se il contenuto fosse stato solo questo, il racconto non sarebbe cambiato, come non sarebbero cambiati centinaia di altri racconti di fortezze e di istituti correzionali. La figura centrale della fortezza non è né l'investigatore né la vittima, l'ufficiale o il comandante, bensì la «macchina».
Il racconto tratta della macchina infernale, della sua origine, dei suoi fini e del suo significato. La macchina, secondo le parole dell'ufficiale, con il passare del tempo si trasforma in un ingranaggio fine a se stesso. La macchina non esiste per intliggere castigo all'uomo, ma è l'uomo che è destinato alla macchina, le serve come alimento con il suo corpo, deve alimentarle perché essa possa scrivere sul suo corpo una bella frase con lettere di sangue, decorarlo con fiori ed altri ornamenti. L'ufficiale stesso servirà la macchina fino a quando anch'egli cadrà vittima del Moloch che non riesce a soddisfare la sua fame.
Kafka ritorna nuovamente alle radici del problema: il processo dell'alienazione che oggettivizza, al punto che tutto ciò che l'uomo crea si trasforma in un padrone oppressore ed estraneo: la macchina domina l'uomo e lo distrugge invece di aiutarlo e di servirlo.

(traduzione di Antonia Zanardini
dalla rivista anarchica messicana
Tierra y Libertad, maggio 1983)