Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 109
aprile 1983


Rivista Anarchica Online

Antifascismo anarchico
di Paolo Finzi

Se non fosse perché innanzitutto ci ripugna istintivamente assistere allo stravolgimento della verità e della storia. Se non fosse perché così facendo si cerca di cancellare gli episodi e di stravolgere il senso della notevole presenza anarchica in quelle lotte. Se non fosse, ancora, perché falsificando le aspirazioni di tanta gente si vuol accreditare il fatto che allora si lottò tutti, più o meno, per ottenere quel regime che c'è oggi. Se non fosse per tutto questo, e per altro ancora, noi anarchici lasceremmo senza problemi ai vari partiti «ufficiali» il monopolio dell'antifascismo e della Resistenza: il monopolio, cioè, di quella grande eredità storica che furbescamente dal 1945 si stanno spartendo un po' tutti, cercando di farla fruttare al meglio nella lotta di sempre per il potere. Anche forze che storicamente hanno svolto un ruolo del tutto marginale nell'antifascismo, quali i liberali ed i democristiani, hanno saputo abilmente gonfiare alcuni episodi e personaggi specifici presentandoli come i campioni di un antifascismo, del quale essi furono invece - nel loro ambito - isolate eccezioni. Si è giunti al punto che nella retorica di Stato perfino i carabinieri, il cui motto nei secoli fedeli non fa giustamente cenno a chi sia rivolta la loro fedeltà (indifferentemente garantita, appunto, al potere in quel momento vigente), perfino i carabinieri - dicevo - si sono costruiti una loro immagine di rispettabilità antifascista, strumentalizzando un episodio come quello di cui fu protagonista, certo apprezzabile, il carabiniere Salvo D'Acquisto. Insomma, quando nelle solite mille occasioni (radio, TV, convegni storici, commemorazioni, ecc.) si parla di antifascismo, saltano fuori un po' tutti, dai comunisti ai liberali, dai monarchici alle forze dell'ordine. Tutti, dunque, meno gli anarchici.
A giudicare dalla compagnia in cui ci troveremmo, non sembrerebbe esserci niente di male in questa voluta dimenticanza del nostro contributo. Anzi, ci sarebbe di che rallegrarsi per lo scampato pericolo di essere coinvolti e travolti dalla retorica di questo Stato che non perde occasione, per darsi un'immagine meno indecorosa, per ricordare il suo pedigree antifascista. Ci sono però mille ed una ragione che ci impongono di batterci anche in questo campo perché menzogne, veline, silenzi e strumentalizzazioni non possano cancellare pagine di storia scritte nel vivo delle lotte dagli anarchici: pagine che, per il loro significato più profondo, per la loro irriducibile diversità dall'antifascismo «ufficiale», rivestono un'importanza che travalica di molto la storia del nostro movimento per inserirsi tra i momenti di più alta tensione ideale e militante del movimento di emancipazione sociale degli sfruttati e degli oppressi. Se ne può ricavare un'idea già da una sintetica presentazione dello specifico contributo anarchico alla lotta antifascista.
Quando, nell'immediato primo dopoguerra, il fascismo nasce come movimento in piazza San Sepolcro a Milano, gli anarchici - che durante l'intero conflitto mondiale sono stati la punta di diamante del disfattismo rivoluzionario - costituiscono un movimento profondamente radicato nella società, prevalentemente proletario, attivissimo nella crescente conflittualità sociale. Gruppi, federazioni, giornali un po' in tutto il Paese, soprattutto al Nord e al Centro (ma anche al Sud, soprattutto in certe zone); una presenza decisiva nell'Unione Sindacale Italiana e significativa in altre organizzazione proletarie (FIOM, Ferrovieri, Portuali, ecc.); un'influenza che va ben aldilà degli ambiti propri del movimento specifico e si estende, in molti casi, alla base stessa dei partiti di sinistra. Logico dunque che la prima comparsa del fascismo sulla scena sociale, tutta subordinata come era al disegno antiproletario ed antisovversivo degli industriali e degli agrari, trovi negli anarchici degli avversari fin dall'inizio irriducibili. Mentre per lungo tempo la posizione dei socialisti ben raramente va oltre un vibrato richiamo alle autorità dello Stato liberale perché proteggano il movimento operaio e le forze di sinistra dalle «illegalità fasciste», gli anarchici indicano subito nell'azione diretta al di fuori (e, se necessario, contro) lo Stato l'unica metodologia valida per opporsi alla dilagante violenza fascista. In questo contesto, attivissimi sono gli anarchici nel movimento degli Arditi del Popolo, un movimento ideologicamente spurio, caratterizzato dall'istintiva volontà di ampi settori del movimento proletario di resistere in armi al fascismo. Nei due episodi giustamente più noti (e commemorati) di questa prima Resistenza armata al fascismo, cioè nel '21 a Sarzana e nel '22 a Parma, i militanti anarchici svolgono un ruolo molto importante, a Sarzana addirittura preponderante. Ma anche tra le migliaia di resistenze locali, spesso addirittura individuali, alle camicie nere, notevole è la presenza degli anarchici: una presenza non solo nei lunghissimi elenchi delle vittime, ma anche in quelli - ahimé molto più corti - di coloro che, opponendo violenza alla violenza, armi alle armi, reagirono pur in una situazione obiettivamente sempre più disperata.
Gli ultimi mesi del '22, appena prima e dopo la marcia su Roma, vedono numerose sedi anarchiche distrutte, varie redazioni bruciate, tanti militanti costretti all'esilio, olio di ricino, tante bastonature. E' la definitiva capitolazione di un intero movimento di lotte sociali che solo due anni prima, con l'occupazione delle fabbriche e delle terre, sembrava sul punto di dare la spallata definitiva all'ordine esistente. Negli spazi sempre più ristretti strappati al fascismo, già al potere ma non ancora regime, gli anarchici partecipano agli ultimi conati di sciopero generale, di lotta sovversiva, di propaganda (la rivista malatestiana Pensiero e Volontà esce, sempre più sequestrata, fino al '26).
Ma con numerosi militanti in carcere, una parte del «fronte» antifascista anarchico si è già spostata all'estero, a Parigi innanzitutto. Comitati pro-vittime politiche, raccolte di soldi per sostenere le attività in italia, giornali che riappaiono tra le solite mille difficoltà dell'esilio: e ancora, vigilanza contro le infiltrazioni fasciste, attentati contro gli esponenti più squallidi e pericolosi del governo e del partito fascista, attività cospirativa in genere. Per un ventennio gli esuli anarchici, nel loro insieme, non si limitano a «rimpiangere» la patria, ma si impegnano a fondo nella prosecuzione della lotta contro il regime, i suoi mille alleati, le sue campagne pubblicitarie. E dove i fascisti organizzano e mobilitano la parte più reazionaria dell'emigrazione italiana - in Francia, in Belgio, negli Stati Uniti, in Canada, in Argentina, ecc. - gli anarchici di lingua italiana rispondono con la loro mobilitazione, con la loro propaganda: non pochi sono gli scontri armati antifascisti in terra straniera, spesso oltreoceano.
In Italia, intanto, nel '26 l'anarchico Gino Lucetti, rientrato apposta dalla Francia, apre la serie degli attentati anarchici (tutti purtroppo falliti) contro il Duce. E' l'anno delle leggi speciali, del Tribunale Speciale, del confino: e le isole di confino si riempiono subito anche di anarchici, a decine, poi a centinaia. A Ponza, a Lipari, a Ventotene come nelle altre isole di confino e nelle patrie galere, gli anarchici scrivono pagine memorabili di lotta, insieme con altri confinati e detenuti politici: basta qui citare quella contro l'imposizione del saluto fascista, con il clamoroso processo di Napoli. Nonostante la storiografia ufficiale abbia sempre taciuto questo dato, gli anarchici costituiscono, per numero di confinati, la seconda «comunità» dopo quella comunista (ma va osservato che il regime spesso qualifica come «comunisti» oppositori del regime generici o comunque non iscritti al partito). Non c'è spazio qui per dettagliare ulteriormente.
Resta però il fatto che la presenza anarchica nella lotta antifascista ci fu, e fu notevole: una piccola dimostrazione indiretta la si ha nella lettura delle memorie (spesso decisamente faziose) di non-anarchici attivi nella lotta antifascista. Un esempio, il primo che mi viene in mente, è la raccolta di documenti relativi alla militanza antifascista di Sandro Pertini (Due condanne e sei evasioni), dove gli anarchici - nell'esilio francese, in Svizzera, in carcere, al confino - fanno continuamente capolino.
Un capitolo speciale, denso di significati e di speranze che ancora oggi ci animano con particolare forza, è quello che gli anarchici italiani scrivono in Spagna, tra il '36 ed il '39, impegnandosi non solo con coraggio ma anche con lucidità critica nella rivoluzione sociale e nella lotta antifascista in terra iberica. E la vicenda di Camillo Bemeri, che subito salta in mente, richiama - con il riferimento obbligato alla sua morte, programmata ed eseguita dai comunisti - la drammaticità delle condizioni in cui gli anarchici si trovano a lottare non solo in esilio, ma anche nelle galere e al confino: con il nemico fascista di fronte e, spesso, i comunisti - la quasi totalità dei comunisti - alle spalle. Come già si inizia a dire allora, con i fascisti neri di fronte e quelli rossi alle spalle.
Poi, ultimo capitolo della lotta antifascista, la Resistenza armata tra il '43 ed il '45. Aldilà della citata retorica, è oggi accettato anche dagli storici ufficiali che la Resistenza non coinvolse «tutto» il popolo italiano, «tutte» le forze politiche. Gli anarchici vi prendono parte, in ritardo - spesso - rispetto a quello che possono fare altre forze politiche: le ragioni di questo ritardo sono chiarite nell'articolo di Alfonso Failla che pubblichiamo nelle pagine seguenti. In molti casi la partecipazione degli anarchici si inserisce in strutture politico-militari non caratterizzate politicamente o altrimenti connotate (come le Brigate Garibaldi), ma in alcune zone - a Milano con le brigate Bruzzi-Malatesta, a Carrara con il battaglione Lucetti ed altri, ecc. - gli anarchici sono in grado di partecipare con formazioni proprie al più generale moto di liberazione. Numerosi sono gli anarchici caduti in combattimento, fucilati, tradotti in Germania e sterminati nei lager nazisti.
Da questo panorama, super-sintetico e quindi forzatamente carente anche di aspetti significativi, della presenza anarchica nella lotta antifascista, emerge l'estrema ricchezza umana ed ideale espressa complessivamente dal movimento anarchico. Non si vuole qui tessere una lode indistinta di tutto e di tutti dando il via ad una «contro-retorica» di segno libertario: non furono tutte rose, ci sono stati episodi e figure esemplari ed altri no, comportamenti irreprensibili ed altri discutibili, ecc. C'è tutta un'esperienza ed un'eredità storica da «scoprire», riesaminare, discutere.
Ma una cosa è sottoporre il proprio patrimonio storico ad una critica, anche impietosa, per ricercarne limiti, ingenuità, errori. Un'altra cosa, del tutto differente, è quella di accettare passivamente che il proprio contributo storico sia cancellato o svisato. Noi questo non siamo disposti a subirlo.
C'è chi continua a ripetere che tra i fondatori del fascismo ci furono elementi anarcoidi se non anarchici (come ha fatto recentemente una rivista di presunti studi storici). C'è chi se la prende con gli anarchici perché riducevano l'antifascismo ad una spasmodica ricerca del «grande gesto», limitandosi a fantasticare attentati ed a volte a metterli in pratica fallendo sempre. C'è chi ha sempre ravvisato nella tensione libertaria dell'antifascismo anarchico, nel suo rifiuto del burocratismo e delle pratiche autoritarie, una «dipendenza» da mentalità ed ideologie piccolo-borghesi. Ce ne sono di tutti i tipi di accuse e calunnie contro gli anarchici.
Le ideologie ed i partiti cui appartengono questi calunniatori, questi presunti storici «organici», sono le stesse di quelli che della Resistenza si sono serviti, a partire dal '45, e ancor oggi si servono, per assicurarsi sempre maggiori fette di potere. Piazza Fontana, la P2, gli euromissili a Comiso, le detenzioni di anni e anni in attesa di processo, i Patti Lateranensi e le altre mille delizie offerteci quotidianamente dalla repubblica «antifascista» sono la logica conseguenza della «loro» Resistenza. La nostra, se permettete, fu tutt'altra cosa. Non a caso, la nostra resistenza continua, trentotto anni dopo quel 25 aprile di cui loro festeggiano la ricorrenza.


Dieci anni fa, il numero dell'aprile 1973 di «A» uscì dedicato tutto all'antifascismo anarchico. Con la collaborazione di decine di gruppi e singoli compagni anarchici di tutte le parti d'Italia, veniva per la prima volta ricostruita - senza alcuna pretesa di completezza storiografica - la «geografia» dell'antifascismo anarchico, dai primi scontri armati con le camicie nere alla resistenza armata contro i nazi-fascisti. Un numero tutto «storico», dunque, eccezion fatta per le ultime due pagine, dedicate al «caso Marini», cioè alla vicenda politico-giudiziaria del giovane anarchico Giovanni Marini, allora in carcere da quasi un anno e in attesa di processo per omicidio - per essersi difeso in uno scontro, a Salerno, provocato da un gruppetto di fascisti (uno dei quali rimase ucciso). L'antifascismo «storico», dunque, si legava immediatamente a quello «militante». Le due ultime pagine furono stampate a parte sotto forma di volantone in circa 50.000 copie, diffuse in tutt'Italia nell'ambito della vivace campagna Marini.
Da allora, purtroppo, nuovi studi sulla partecipazione anarchica alla lotta antifascista ne sono apparsi ben pochi e quel numero 20 di «A» (ne è ancora disponibile qualche copia, al costo di 2.000 lire l'una) è ancor oggi uno dei pochi strumenti di memoria storica a disposizione di chi sia interessato a farsi una prima idea generale della sfaccettata presenza degli anarchici alle varie fasi della lotta antifascista.
Questo servizio sull'antifascismo anarchico si collega idealmente a quel numero 20 e non ha altra pretesa che quella di fornire qualche pagina in più di storia anarchica alla conoscenza e alla riflessione dei compagni.
Aprono il servizio alcune pagine tratte dal volume L'anarchico triestino. Autobiografia di Umberto Tommasini (1896-1980) raccolta da Claudio Venza, di prossima pubblicazione per iniziativa del gruppo «Germinal» di Trieste, lo stesso gruppo di cui fu animatore ed instancabile militante Umberto Tommasini. Questo volume, attualmente in composizione, consterà di poco più di 400 pagine e costerà intorno alle 15.000 lire: chi fosse interessato a prenotarne delle copie è invitato a rivolgersi per iscritto al gruppo Germinai, via Mazzini 11, 34121 Trieste. E' il frutto di decine di ore di colloquio con l'allora anziano militante anarchico da parte del compagno Claudio Venza: caratteristica di questa documentazione storica è la scelta di non «tradurre» in italiano la colorata parlata dialettale di Tommasini e di lasciarla appunto in triestino. Nel volume ci sarà un glossarietto; nei brani da noi scelti abbiamo provveduto a fornire tra parentesi la «traduzione» di alcune parole ed espressioni.
Una sintetica presentazione della vita militante di Tommasini abbiamo avuto occasione di pubblicarla all'indomani della sua morte («A» 86, ottobre 1980, E' morto un uomo libero). Ricordiamo qui solo che, dopo esser stato tra i primi ad esser confinato (già nel '26), espatriò poi clandestinamente nel '32 stabilendosi in Francia. Di qui raggiunse nel '36 la Spagna per partecipare alla rivoluzione sociale e alla lotta antifranchista. Arrestato per un periodo nel '37 dai comunisti a Barcellona, rifiutò poi la militarizzazione e ritornò in Francia, fu internato nel campo di concentramento di Vernet d'Ariège, quindi estradato in Italia e subito inviato al confino fino al '43.
Tra le centinaia di anarchici confinati, Tommasini incontrò anche Alfonso Failla che del confino era uno degli «ospiti» più fissi: Failla (nato a Siracusa nel 1906, attivissimo fin da giovane nella lotta antifascista) era confinato ininterrottamente (salvo una brevissima parentesi) dal 1930: in questi 13 anni di confino, un po' di tempo se l'era passato in galera, a causa delle lotte sostenute al confino contro le angherie e le provocazioni dei vari ducetti locali. Nell'articolo di Failla che riproduciamo in queste pagine (originariamente apparso sull'Agitazione del sud del 1966) sono ricostruiti gli ultimi mesi di confinamento, nell'estate del '43. E' giusto ricordare che sia Tommasini sia Failla hanno proseguito un'intensissima attività militante nel secondo dopoguerra.
Chiude questo servizio sull'antifascismo anarchico un documento di elevato valore morale e politico. Si tratta del «testamento» scritto nel dicembre 1930 dall'anarchico sardo Michele Schirru (Padria 1899 - Roma 1931), nell'imminenza del suo rientro in Italia (era emigrato nel 1920 negli Stati Uniti) con la ferma intenzione di attentare al duce. Arrestato in un albergo romano mentre, da tempo, era intento a mettere a punto il suo proposito, Schirru non fece niente per allontanare da sé i sospetti ma anzi affermò e riaffermò con orgoglio la sua volontà tirannicida. Il processo durò un giorno e si concluse con la scontata sentenza capitale, eseguita all'alba del 29 maggio 1931, a Forte Braschi, a Roma. Sulla vicenda di Schirru è appena uscito un libro - il primo a lui dedicato - scritto da Giuseppe Fiori, senatore della sinistra indipendente ed ex-direttore di Paese Sera. Di questo volume (L'anarchico Schirru, Mondadori, Milano 1983, pagg. 256, lire 12.000) pubblicheremo una nostra recensione critica sul prossimo numero.

UMBERTO TOMMASINI: "E semo arivai a Ponza"

Dove che lavoravo mi, in via Santa Lucia, iera el vecio tribunal. Là sucedeva che i fazeva un processo a dei comunisti, no' so per che cosa, e i fassisti i xe andai là e xe sta un conflito, nel '21. I comunisti ga tirà un per de colpi de rivoltela e dopo i ga taià (tagliato) la corda. Alora i fassisti cori drio (dietro). Mi lavoravo e no' savevo che cossa iera sucesso. Dopo un momento vedemo che i fassisti vien dentro in oficina, vien dentro con dei strangolini perché i meteva a posto la strada, quei strangolini che tira su le piere. I vien dentro là, porco dio! Uno ciapa (prende) un strangolin per dame zo, alora mi lo ciapo, ciapo (prendo) el strangolin e ghe fazzo per darghe zo. El paron me xe saltà adosso: «Per carità! Te rovini l'oficina!». El me ga abrazzà e 'l me ga impedì. I mati ga vista la mala parata e i ga taià la corda, iera in due de lori. Tuti in agitazion in oficina: un sardegnol (sardo) xe vignù (venuto) fora col fero caldo, ierimo tuti in lota. El paron ga comincià quasi a pianzer. Iera soversivi, no' iera nissun fassista là in oficina.
Comincia 'sta agitazion; el paron: «Rispondo mi, no' fe' gnente (fate niente); vederè che no' sucederà gnente». Mi, un po' de nervosismo, iero vizin a la porta. E tuto un momento vien la squadra de Gallo, che la comandava. El primo el me ga blocà mi; alora el me ga ciapà pe' 'l peto co' 'na rivoltela in man e un ga ciapà un toco de fero e le me ga dà un colpo pe' la testa. Alora mi me son svincolado e son scampà. De drio iera dei magazzini là; se gavemo baricà al pian de sora. I fassisti iera de soto, noi ierimo de sora che butavimo zo (giù) feri. Lori gaveva (avevano) le rivoltele e ga tirà qualche colpo. Iera la caserma dei carabinieri in via dei Fabbri, là, dopo xe vignudi i carabinieri. I diseva che se arendevimo noi. «Arenderci? Che vadi via almeno quela genìa là. Cossa? Arenderse a quela gente là!». Dialogo coi carabinieri e coi fassisti ... I ga mandà via i fassisti e alora noi semo andai zo.
In questo fratempo mi gavevo un beretin per via (a causa) de la polvere in testa. Tiro zo el bereto: porca miseria, tuto insanguinà, tuta la facia sporca de sangue come una maschera, almeno me ga dito i altri. Iera qualche operaio anche più anzian: «Qua bisogna che andemo zo». «Ben - digo - volè che vado zo mi cussì sporto? Che vadi zo qualchedun altro». Gavevimo messo una bocaporta co' una scala su, gavevimo messo due morse de su a cio' che no' vegni nissun. Tirà via quel là, anche là me ga tocà andar zo per primo. Alora i carabinieri me ga ciapà in consegna, me ga portà zo per via Santa Lucia.
Se radunava gente, publico e alora i fassisti me insultava. «Quela putanazza de tu' mare (madre) ...», mi ghe disevo de tuto. E 'ste don e che pianzeva: «Guarda quel povero omo come ch'el xe ridoto...». E me ga portà in via Lazzaretto Vecchio, che iera el comissariato de polizia e là i ga fato raporto. Son sta un poco de tempo là, dopo i me ga portà a la guardia medica come che iero, un poco netà (pulito) in muso del sangue. Ma i me ga portà a piedi, che la guardia medica iera in via San Francesco, in principio dove che xe quela clinica. Co' due polizioti, un per parte, mi in mezo. Semo andai là, i me ga taià un poco i cavei (i capelli), i me ga medicà, messo un ceroto e dopo i me ga portà de novo in caserma. I ga arestà anche i fassisti, però, un tre de lori in aresto. I sarà stadi diese-dodise de lori, no' i iera de più; i coreva drio ai comunisti, a quei che ghe gaveva sparà, che gaveva avù (avuto) el conflito davanti al Tribunal e i credeva, dato che là noi gavevimo apena comincià a lavorar - perché cominciavimo a la meza - i ga visto che andavimo dentro a lavorar in terliss (tuta da lavoro), lori i pensava che xe vignudi dentro i comunisti de noi. E xe sta evidente dopo, che noi no' ghe entravimo ma lori xe entrai dentro e i credeva che fussimo stai anche noi là con lori, almeno mi credo. Che dopo i sia vignudi con altri scopi, no' so. I conosseva che l'ambiente là iera ambiente soversivo perché el paron iera anche socialista e i saveva che tuti quanti i gaveva formà la cooperativa edilizia; iera la sezione metalurgica de la cooperativa edilizia. A la sera i me ga lassà (lasciato) andar e dopo i ga lassà andar anche i fassisti; Gallo dopo lo ga lassà andar anche lui.
A quei tempi certo le azioni iera più de disturbo, quasi di afermazione, come i Primi Magi, come i aniversari ... I comunisti per la rivoluzion russa meteva una bandiera su qualche ciminiera, su qualche fabrica. Noialtri, l'ultima manifestazion di protesta, il 1° Magio del '26. Un cinque-sei giorni prima però, perché se saveva che in quei giorni se iera sorveliadi, gavemo fato un stampo, scrito su: «W il I Maggio». Alora di note, semo andai per i cantieri, zo per Sant'Andrea. Gavemo scrito dapertuto: «W el I Maggio», «W el I Maggio» là, su le strade dove che va i operai in cantier. Ga fato colpo, ga almeno risveglià el ricordo del I Magio e i ga dito che la gente discuteva in fabrica: «Meno mal che xe ancora qualchedun che ga el coragio de far qualche cosal»). Mi e un grupo de muli (ragazzi) che conossevo, dei giovani che conosseva l'ambiente, i saveva quando che passava le patulie dei fassisti de note, perché i patuliava tuta la cità; quando che passava lori, noi se nascondevimo. Semo andai fino in via Madonna del Mare, gavemo fato tuto un giro fino soto la Federazione Marinara, in via Massimiliano. Semo andai fin là, anche sui scalini de la Federazione Marinara: «W il I Maggio!». Semo andai fino in piazza de la Valle; là gavevimo l'ultima pitura, gavemo fato el lavor, dopo gavemo messo dentro la tabela co' l'iscrizion e gavemo messo soto un'oficina, una fonderia.
E dopo, i primi de novembre, i ne ga becà tuti quanti. El 6 novembre i ga votà le legi ecezionali: l'abolizione dei giornai, dei partiti e i ga istituì el confino, el tribunal speciale e tuti quei afari là.
I ne ga arestà. Pensavimo che semo candidati come minimo al confino, ierimo za preparadi. Tanto è vero - una domenica - mi stavo a casa de Zuder, che saria el compagno de la Nina Longa. I xe vignui e i ga domandà de Zuder. «Meno mal. I porta via lui solo e mi no' i me porta via»). E inveze dopo: «Eh! Abita anche Tommasini qua?». «Ahi! Ahi!» go dito e dopo i ne ga portà via tuti e do.
Messi dentro a disposizion de la polizia. Alora gavemo capì che xe l'istituzion del confino. I me ga comunicà cinque ani de confin. Cinque, tre, quatro a seconda, no' a tuti uguale. Go fato ricorso al Ministero degli Interni protestando pe' 'l confino, che no' gavevo fato gnente e che no' iera altro che per spirito di persecuzione. Ma, poco tempo dopo, i me ga confermà. Iera una pro-forma...
Semo partiti in dicembre, 5 o 6 dicembre - me par - del '26. I ne ga tignù più de un mese in prigion.
I ne ga portà zo e fora iera due caciatorpedinieri che acompagnava el piroscafo, ghe girava torno perché i gaveva paura che fussi qualche colpo de mano per liberarne. Iera un piroscafo adibido anche ai emigranti e lazzò iera materassi de crena (crine) e noi, per star un poco meio - ierimo quatro a quatro ligai co' una man - andavimo a cior (prendere) 'sti materassi e li metevimo zo, per star zo. E se gavemo fato un fumo, una polvere e caldo che iera asfissiante. Parechi de quei che gavea mal de cuor ... svenimenti, ghe tocava portarli su. Là gavemo comincià a protestar, a zigar: «Aria, aria. Qua si muore, qua si muore!». Iera un ambiente chiuso e un zigo cussì forte, caro mio, ga impressionà la milizia, l'autorità, i carabinieri. Iera impressionai: subito a avistar se iera qualche nave in vista, no' iera gnente. Lazzò la situazion diventava sempre più grave e uno che iera con mi ghe ga ciapà svenimento, mal de cuor, un marchigian: «Qua si muore, vigliacchi!». E la milizia gaveva i nervi a fior de pele, anche lori; iera co' i moscheti a la baioneta là, pronti. E alora mi li insultavo propio: «Non avete il coraggio, vigliacchi! Sparate, che non avete il coraggio!». Ma de tuto ghe go dito, de tuto. E alora xe vignù zo el capitano dei carabinieri, el capitano de la milizia: «Fermi! Fermi!». I ga ritirà la milizia perché se no perdeva i nervi anche lori, quei iera capaci: un massacro, podeva vignir là! Se ga radunà su el capitano de la nave, el capitano dei carabinieri e el capitano de la milizia e i ga discusso del problema perché noi volevimo aria. Ga deliberado de portarne in coverta: tuti quanti sentai in coverta. Gavemo fato un viagio de papi. Vedevimo 'sti delfini che ne coreva drio, le caciatorpediniere che girava torno. Semo 'rivai, contenti de aver visto... Sai, picole cose che dava sodisfazion de aver costreto l'autorità a dar quel che te gavevi domandà. E dopo i ne ga mandà al confino. No' i ne ga portà davanti a la comission, i ne ga comunicado la condanna dei ani de confin.
Quando che dovevimo partir pe' 'l confin, mi gavevo proposto da far una specie de manifestazion, ma i comunisti no' ga volesto marcar de zigar qualche cosa perché iera le familie. I ne ga portà via a le sei ore de matina, scuro e nissun, gnente. Quando che semo andai fora del carcere mi go zigà (urlato): «Viva l'anarchia». Dopo me xe saltai adosso i polizioti: «Silenzio». 'Ste done che pianzeva, 'ste familie ... i ne ga portà a la stazione e i ne ga messo in una stanzeta. I polizioti disi: «Eh lei, Tommasini, sempre cussì!».
Xe vignù mio papà a saludarme e el ga fato una scenata che anche i carabinieri iera quasi comossi. El xe vignù dentro: «Ah, fio mio! Te go visto partir in guera, ma adesso no' te vederò più!». E dopo el xe andà via e iera 'sti cavei bianchi, iera rizzi, bianchi, impressionante, vestì da lavor, co' un grembiul come che gaveva i fachini una volta. Me diseva Calligaris: «Porca miseria, no' go pianto quando xe vignù mia mama a saludarme in preson, che ga ciapà el svenimento; me go comosso quando xe vignù tuo pare... ».
Dopo i ne ga messo su, ne le cele de sicurezza e là gavemo comincià a far un poco de scandal: «Eviva la libertà! Ritorneremo vincitori!». Tute questo cose. E i fassisti iera zo e i protestava... ierimo tredici comunisti e due anarchici, mi e Gunsher. I fassisti iera là e i ghe ga dito ai carabinieri: «Se non mettete ordine voi, entriamo su noi». Mi go dito: «Eviva la libertà», questi moti, slogan.

ALFONSO FAILLA: Dopo il 25 luglio

Dopo il 25 luglio 1943 - data della caduta del fascismo - la liberazione dei confinati politici che si trovavano in quella data nell'isola di Ventotene ebbe inizio soltanto oltre due settimane dopo che il governo Badoglio, rifacendosi alle tradizioni dell'Italia borghese e monarchica, iniziò la liberazione degli antifascisti incominciando, nell'ordine di precedenza, dai moderati fino ai giellisti, repubblicani, socialisti e comunisti. Coerentemente ai contatti avuti e con gli impegni presi con i vari partiti dello schieramento parlamentare tradizionale, gli anarchici, esclusi dalla liberazione - di fronte al progressivo avanzare dal Sud degli eserciti anglo-americani - fummo invece trasferiti al campo di concentramento di Renicci di Anghiari in provincia di Arezzo. Con noi furono pure esclusi dalla liberazione comunisti e nazionalisti jugoslavi e albanesi ed alcuni antifascisti italiani. C'imbarcarono intorno al 20 d'agosto su una corvetta della regia marina non attrezzata al salvataggio di centinaia di persone nel caso di un probabile attacco di sottomarini. Quando la nave uscì dal porticciolo di Ventotene, prima di virare per Gaeta, gridammo ripetutamente il nostro saluto al compagno Gino Lucetti prigioniero nell'ergastolo dell'isola di Santo Stefano. Dopo alcune ore di sosta a Gaeta, dove avemmo i primi saluti dal compagno Salvatore Vellucci, dai suoi figli e da sua moglie, incominciò il nostro viaggio verso il campo di concentramento. Eravamo scortati da carabinieri ed agenti di P.S. Non eravamo ammanettati tanto che fu facile a parecchi compagni, tra i quali i fratelli Girolimetti, Giorlando, ecc. di evadere. In tutte le stazioni improvvisammo comizi, affacciati dai finestrini, incitando alla lotta radicale contro il fascismo ed il nazismo. A Roma il nostro treno fu sballottato da una stazione all'altra, si disse per proteggerci dai bombardamenti aerei ma in realtà per impedire i nostri contatti con i compagni romani e le nostre proteste per la nostra mancata liberazione.
Ricordo con dispiacere un tentativo di evasione mio e del compagno Arturo Messinese fallito per un casuale incontro con un gruppo di nostri guardiani che rientravano in stazione dopo essersi allontanati temporaneamente. Lungo tutto il viaggio, nelle soste alle varie stazioni, i nostri inviti alla lotta contro il fascismo incontrarono lo stupore e l'indecisione popolare. Fu ad Arezzo che notammo una diffusa e simpatica comprensione solidale da parte di centinaia di persone che si trovavano in quella stazione. Fu qui che vedemmo per l'ultima volta il compagno Zambonini. Era stato un forte e deciso militante, ferito nella guerra di Spagna ed ospite, con noi, nell'isola di Ventotene durante la seconda guerra mondiale.
Alla partenza da Ventotene, di fronte alle nostre proteste per la mancata liberazione c'era stato promesso che saremmo stati liberati nei giorni seguenti, in terra ferma. Il compagno Zambonini, alla stazione di Arezzo, si rifiutò di proseguire per il campo di concentramento; perciò venne condotto in carcere. Dopo, durante la resistenza, sarà fucilato dai nazifascisti nel poligono di Reggio Emilia.
Arrivati, sull'imbrunire, alla stazione di Anghiari, fummo ricevuti da alcune centinaia di carabinieri e soldati ai quali sentimmo distintamente rivolgere dai loro ufficiali l'ordine di caricare le armi. Protestammo energicamente.
In un alterco con gli ufficiali che ci insolentivano minacciando fucilazioni, i compagni Marcello Bianconi e Arturo Messinese gridarono: «Sparate vigliacchi!». Perciò furono immediatamente condotti in cella di sicurezza. Così ebbe inizio la nostra agitazione contro il regime interno del campo di concentramento.
Questo era stato fino ad allora uno dei peggiori del genere. I prigionieri erano in massima parte partigiani jugoslavi e con essi erano centinaia di minorenni e ragazzi di pochi anni. Il regime alimentare era stato sempre scarso e pessimo; centinaia di internati, specialmente bambini e ragazzi, erano morti a causa del pessimo trattamento. In cambio, la sorveglianza era feroce e bestiale. Guardavano i prigionieri centinaia di soldati e carabinieri, richiamati, quest'ultimi, dalle regioni toscane e limitrofe. Il comandante in seconda maggiore Fiorenzuoli ed il tenente Panzacchi si distinguevano per i loro arbitrii. Era perfino proi bito che gli internati delle varie sezioni in cui era diviso il campo si avvicinassero alle reti metalliche divisorie per conversare reciprocamente. Il mattino seguente il nostro arrivo i nostri aguzzini fecero una dimostrazione di forza. Le minacce degli ufficiali rivolte a noi con lo spiegamento dei picchetti armati seguendo l'arresto dei compagni Bianconi e Messinese voleva conseguire lo scopo di intimidirci e renderci alla loro mercè. Costituivamo, insieme ai compagni reduci dalle lotte combattute nell'esilio e in Spagna, l'aggruppamento più provato dalle lotte che in carcere e al confine ci erano costate ulteriori condanne ad anni di carcere e di confino supplementari, oltre che la vita di parecchi compagni, per difendere la nostra dignità umana dagli arbitrii della milizia e della polizia fasciste. E l'odore di polvere era per noi un maggiore incentivo a non desistere dalla lotta iniziata contro gli aguzzini del campo di concentramento di Renicci di Anghiari. Reclamammo libertà di comunicazione tra i prigionieri dei vari settori, la cessazione degli arbitrii perpetrati specialmente dal tenente Panzacchi coadiuvato da alcuni soldati come lui dichiaratamente fascisti. E il ritorno tra noi dei compagni Bianconi e Messinese. Dopo alcuni giorni di dure schermaglie il comandante del campo, colonnello Pistone, decise di togliere il divieto di intercomunicazione tra i prigionieri dei vari raggi ed ai ragazzi fu raddoppiata la razione alimentare che era costituita da qualche centinaio di grammi di pane e di poca minestra, alternativamente di carota o di patate non sbucciate e di acqua pompata direttamente dal sottostante fiume Tevere, che provocava epidemie di coliti e dissenteria.
I nostri rapporti con i nostri custodi rischiarono di arrivare ad una rottura tragica. Si pretendeva che all'appello mattutino noi ci si fosse allineati militarmente e che uno di noi stessi, in funzione di caporeparto, ci avesse contati e presentati all'ufficiale di ispezione.
Continuammo per parecchi giorni a rifiutarci. Il nervosismo, tra gli ufficiali specialmente, era al parossismo. Il compagno Emilio Canzi, quando stavamo arrivando all'urto, intervenne. Ci pregò di non formalizzarci e si assunse egli l'ingrato compito. Così ci allineavamo alla meglio e gli ufficiali dal canto loro accettarono il compromesso. Però gli occhi di Emilio Canzi, nel presentarci senza formalità all'ufficiale lo superavano in altezza morale molto più di quanto glielo consentiva la sua già alta statura fisica.
Qualcuno, tra noi, masticava amaro sulla «incoerenza» di Emilio Canzi che allora aveva già nella mente la costituzione dei primi nuclei partigiani che nella sua nativa zona di Piacenza, sul finire della guerra, costituivano un insieme di circa diecimila uomini. Le migliaia di partigiani jugoslavi che popolavano il campo, comunisti o nazionalisti, avevano fino allora conosciuto gli italiani come aguzzini e fascisti e perciò erano animati da profondo odio sciovinista antiitaliano nonostante che fossero formalmente osservanti della disciplina al punto che nel presentarsi ogni mattina sembravano un reparto delle stesse truppe che li tenevano prigionieri.
La nostra manifestazione di solidarietà internazionale, da essi non richiesta, impresse uno spirito nuovo nel loro comportamento e l'Italia da quel momento per essi non fu più soltanto la patria del fascismo che li opprimeva ma anche di uomini militanti nella lotta internazionalista per la libertà dei popoli. Questo spirito internazionalista risorto dall'azione nei cuori e nei canti si confuse anche nel sangue di due prigionieri, uno slavo e un anarchico italiano, la sera del 9 settembre 1943. Quel giorno avevamo appreso che il fascismo con l'aiuto di Hitler aveva ricostruito un governo Mussolini nell'Italia centro-settentrionale. Noi ce ne accorgemmo per i preparativi dei baldanzosi ufficiali e soldati fascisti che ripresero il sopravvento sulla parte moderata del comando. In tutte le sezioni del campo i prigionieri jugoslavi che noi vedevamo ogni mattina allinearsi disciplinatamente si rivelarono formazioni militari già preparate. Nei comizi che si tennero in tutte le sezioni chiesero al comando militare le armi per marciare contro i nazisti. Nella nostra sezione aveva la parola vibrante Ganu Kriezju uno dei tre fratelli notabili albanesi che dividevano con noi l'internamento a Ventotene. In quel momento udii la cornetta del posto di guardia che chiamava il picchetto armato, di corsa. Non dubitai che esso si sarebbe diretto prima che altrove alla nostra sezione per l'odio che i fascisti risentivano contro noi anarchici, ultimi arrivati. Mi diressi perciò all'entrata per osservare ciò che stava per accadere, feci in tempo per udire chiaramente l'ordine dato dal maggiore Fiorenzuoli agli uomini del picchetto di caricare a salve e di sparare subito dopo avere intimato seccamente agli internati l'ordine di sciogliere il comizio e di ritirarsi nei cameroni. Non tutti gli internati avemmo il tempo di renderci conto di ciò che accadeva. Subito dopo i primi spari di fucileria del picchetto armato agli ordini di Fiorenzuoli seguirono quelli incrociati delle mitragliatrici poste circolarmente sulle torrette di guardia che cingevano il campo.
Premeditazione o paura? Le salve furono soverchiate dai sibili dei proiettili. Sul terreno restarono feriti un internato jugoslavo ed il compagno Aldeghieri, di Verona, colpito allo stesso braccio in cui era stato ferito in Spagna nella guerra contro Franco.
Un'ondata di violenza terroristica si scatenò contro di noi all'interno dei dormitori. All'entrata, nel nostro camerone, del tenente Panzacchi, che brandiva la pistola alla testa dei suoi soldati e carabinieri, un giovane jugoslavo gridò: Vigliacchi! Pochi minuti prima io avevo insistito ad accompagnare Aldeghieri fuori della porta del camerone che ci imponevano di non oltrepassare in quel momento, affinché lo medicassero senza perdere tempo, cosa che era stata fatta ma che aggiungeva contro di me altri motivi di risentimento a quelli che avevamo dati nei giorni passati. Il tenente Panzacchi mi disse a bruciapelo: «Siete stato voi a gridare vigliacchi!». Risposi: «Non sono stato io ma, certamente, non siete degli eroi!». Con me nel camerone erano centinaia di compagni. Il silenzio apparentemente disarmato di quegli uomini era più forte delle centinaia di uomini armati. Ancora una volta lo spirito indomito della nostra resistenza disarmò coloro che ci tenevano sotto il controllo a vista delle loro armi. Ne uscii soltanto con un colpo di baionetta ad una tempia che però ricevetti dalla parte piatta per essermi tempestivamente abbassato. Era il regalo - non andato a segno - di un brigadiere dei carabinieri che aveva tolto il fucile con l'arma innestata ad un suo subalterno. Nei giorni che seguirono alcuni anarchici italiani, evasi dal campo di Renicci insieme ad albanesi e jugoslavi, costituirono i primi gruppi partigiani che operarono nella zona tosco-marchigiana. Altri ci dirigemmo in tutte le direzioni. Prima di chiudere questo modesto ricordo dei numerosi compagni che poi lasciarono la vita nella lotta contro il nazifascismo o negli stenti derivati dai mali contratti nelle galere e nelle isole di confino del regime fascista, voglio rievocare la grandezza umana di un ufficiale del comando di Renicci di Anghiari. Aveva in consegna una quarantina di noi per condurci alla prefettura di Arezzo da dove avremmo dovuto essere liberati.
In viaggio gli facemmo osservare che Arezzo era già nuovamente in mano ai fascisti ed ai tedeschi e condurci là equivaleva portarci a morte.
Quell'ufficiale, nelle quotidiane discussioni che facevamo, dimostrava idealità fasciste, però era alieno da atti arbitrarii come quelli che erano cari al tenente Panzacchi, suo collega. Alle nostre insistenze, arrivati in località S. Firenze pochi chilometri prima di Arezzo ci fece scendere dal camion e, chiamati in disparte chi scrive e Mario Perelli, ci consegnò l'elenco del nostro gruppo dicendoci: «Voi siete responsabili di questi uomini!». Quindi fece girare il camion e ritornò con i soldati della scorta al campo. Era il tenente Rouep, fiorentino, veniva dagli alpini.
Io e Perelli bruciammo il foglio. Quel gruppo di compagni si sciolse e ciascuno si avviò in direzioni diverse verso tutte le strade che ricordano vivi o morti, la loro presenza nella storia vera della lotta per la libertà.
Storia che deve sempre essere «fatta» prima che gli altri, quelli che di solito scrivono e sistemano arbitrariamente i fatti della storia, possano scrivere la «storia» che non hanno «fatta».
E questo è un discorso che può anche essere valido in relazione agli episodi che ho ricordato. Ed ai molti altri che restano da ricordare.

MICHELE SCHIRRU: Il mio testamento

Nacqui trentun anni orsono in un piccolo paese della provincia di Sassari.
Non ebbi un'infanzia di privazioni e di stenti; mio padre, allora impiegato, guadagnava abbastanza per il mantenimento della famiglia benché numerosa. Sin da fanciullo manifestavo il mio spirito vivace; mal sopportavo le imposizioni, e le prepotenze dei più forti mi esasperavano. Dovevo aver dieci anni quando incominciai a leggere, e ben presto con vera avidità, L'Asino di Podrecca e un altro giornaletto intitolato Il Seme. I dialoghi di «Salinzucca» e «Masticabrodo» mi appassionavano tanto che nel mio animo di fanciullo prese forma una vera e propria avversione contro i preti e la chiesa.
Crebbi così scapigliato e selvaggio, come tanti crescono nella nostra isola.
Non frequentai molte scuole. In Sardegna più che in qualsiasi altra parte d'Italia, la scuola è il privilegio dei ricchi. Nei suoi piccoli paesi non esiste che la terza elementare; solo i capiluoghi di mandamento hanno fino alla sesta classe. Chi volesse proseguire gli studi, oltre le elementari, dovrebbe recarsi a Cagliari o a Sassari. Ma le condizioni economiche della gente povera che vive del suo lavoro, non hanno mai permesso in nessuna parte d'Italia e tanto meno in Sardegna, di mantenere figli a pensione ed a scuola in città lontane e dispendiose.
Ma se io non potevo muovermi, la parola della speranza nella redenzione umana, la parola della libertà varcava i monti e passava i mari arrivando anche nei nostri piccoli paesi.
Quando un oratore veniva dalle nostre parti a parlare di socialismo, di anticlericalismo e di emancipazione da tutte le ingiustizie che da secoli infiniti le classi privilegiate infliggono a tutti i diseredati della terra, io non mancavo mai di accorrere ad ascoltarli. La mia mente ancora bambina li comprendeva poco, ma io li ammiravo, li adoravo, quasi, questi oratori, come i miei coetanei adoravano i loro santi e le immagini religiose delle loro chiese.
Avevo una gran sete di sapere, leggevo, mi appassionai al socialismo, e questo fu la mia fede.
Non per molto, tuttavia. A quindici anni potei lasciare la Sardegna e recarmi sul continente dove presi contatto con gli operai aventi una coscienza politica più matura.
La loro compagnia e le loro discussioni suscitavano in me il più vivo interesse; erano il pane spirituale che da tempo cercavo. Allora la mia mente che s'apriva conobbe l'ideale anarchico, la sua bellezza, la sua grandezza. E il socialismo mi parve una povera cosa con le sue preoccupazioni politiche, con le sue battaglie elettorali, con le sue paure di turbare le laboriose digestioni di lor signori. Il mio era un temperamento ribelle, la mia era una coscienza, sia pure in formazione, tutta tesa verso un completo ideale di libertà e di giustizia; e nei libri e negli opuscoli anarchici, così vibranti di entusiasmo, trovavo le parole e i pensieri che perfettamente esprimevano il mio stato d'animo e le mie speranze.
Così divenni anarchico. Attratto da quel grande ideale di libertà e di giustizia integrale che è l'anarchia, ma anche dall'ardore e dal disinteresse con cui gli anarchici si impegnavano nella lotta per la demolizione del regime sociale esistente. Credo che solo noi anarchici siamo i veri difensori della libertà, solo noi comprendiamo tutto il suo valore; e per essa tutto noi sacrifichiamo, perché essa è tutto per noi.
Venne la guerra. Nell'agosto del 1917, fui a Torino e nei moti contro la guerra di quella città, fui arrestato da un brigadiere dei carabinieri, sardo anche lui, un certo Dore, che credo sia poi rimasto ucciso in un conflitto con degli operai durante il periodo dell'occupazione delle fabbriche. Poi dovetti anch'io fare il soldato per tre anni, dei quali quattordici mesi di guerra.
Dopo l'armistizio presi parte alle agitazioni del popolo italiano, partecipando, benché militare, ancora, alle sue dimostrazioni. In occasione dei movimenti del 20-21 luglio 1919, ancora soldato, fui arrestato, e non so per quale miracolo non fossi deferito al tribunale militare, come in quei giorni mi si minacciava. Forse lo devo alla paura che in quel periodo aveva preso posseso delle autorità.
Dopo l'abbandono delle fabbriche da parte degli operai, per il tradimento vigliacco del Partito Socialista e della Confederazione generale del lavoro, anch 'io, disgustato ed avvilito per le battaglie perdute e per le energie inutilmente sprecate, presi la via dell'estero, pensando che in Italia non ci fosse più nulla da fare.
Andai prima a Parigi e poi a New York. E negli Stati Uniti rimasi per dieci anni. Anche in America feci del mio meglio per non essere mai assente dalla lotta: contro l'opera nefanda del prete, come contro l'infiltrazione fascista nelle colonie italiane.
A Pittsfield, Mass., nel marzo del 1921, fui aggredito e pugnalato da un emissario del prete italiano del luogo, e fui ferito ad una spalla ed al fianco sinistro. Il mio assalitore fu ferito da una palla di rivolterra ad un piede; ed io venni arrestato ed accusato di assalto con intento di uccidere. Liberato sotto cauzione di trecento dollari, evitai il processo assentandomi. Compresi allora che dovunque vadano gli anarchici sono messi all'indice e perseguitati senza scrupulo: io, l'aggredito, ero l'accusato; il mio aggressore, perché sicario d'un prete, era l'accusatore. La giustizia dello Stato è uguale in tutti i paesi.
Presi parte alle agitazioni per i nostri due grandi martiri Sacco e Vanzetti. Fui altre volte arrestato nella lotta antifascista ed ho la coscienza tranquilla di avere a questa portato un buon contributo di cui i fascisti d'America serbano un buon ricordo.
Il fascismo, con tutte le altre dittature e tirannie, mi ha sempre ispirato orrore. Mussolini, con le sue vigliaccherie, con le sue feroci persecuzioni di tutto un popolo, con i suoi cinismi brutali non aventi altro scopo che di conservargli il potere, io l'ho sempre considerato un rettile dei più dannosi per l'umanità. Le sue pose da Nerone, da boia, da carnefice di un popolo e della libertà che si gloria di strozzare e di calpestare, mi hanno sempre ispirato odio, odio e ribrezzo, non per l'uomo, che è poco più di mezzo quintale di carne flaccida e avariata, ma pel tiranno massacratore dei miei compagni, traditore di quei lavoratori che sino a pochi anni prima lo avevano sfamato. Questo odio accumulato da anni e anni di riflessione, compresso nel mio cuore di uomo libero, dovrà un giorno esplodere.
Fin dal 1923 pensavo che per stroncare la tirannia bisognava stroncare il tiranno. La libertà non è un corpo putrefatto che si possa calpestare impunemente. La storia ci insegna che in tutti i tempi la libertà calpestata dai tiranni ha trovato difensori arditi. La tirannia assolda sicari; ma la libertà crea i vindici e gli eroi. E nesun esercito di sicari è mai riuscito a trionfare della volontà né ad arrestare la mano del giustiziere.
Ai primi di quest'anno venni in Europa col solo scopo di incontrare questo boia e ricordargli che la libertà è ancora più viva che mai, che ancora riscalda il cuore dei ribelli e li spinge al sacrificio: e che non è ancora spenta la buona e vecchia razza degli anarchici che sanno vendicare le crudeltà e le torture inflitte ai propri compagni.
Nel maggio di quest'anno, in occasione dei viaggi clamorosi del tiranno nell'Italia Settentrionale, e specialmente a Milano, cercai inutilmente di mettere in esecuzione il mio piano. Dovetti purtroppo constatare che non basta averne la volontà, occorre anche avere il mezzo adeguato per colpire. E vista l'inanità del mio sforzo, ripigliai la via dell'estero onde aver agio di prepararmi meglio e procurarmi il materiale che mi occorreva per poter colpire bene e con sicuro effetto.
Oggi ritento la prova, certo di riuscire, certo che la vendetta cadrà inesorabile e provvidenziale sul mostro che, non contento del martirio inflitto a quaranta milioni di italiani, fra poco, sempre per libidine di potere, d'accordo con la monarchia sabauda, razza di traditori e di codardi, e con la complicità di tutti gli altri fascismi d'Europa, scatenerà su tutto l'uman genere il flagello sterminatore di una nuova guerra.
Il mio gesto non sarà delitto, perché riparazione di crudeltà senza numero e prevenzione di stragi ancora maggiori; non sarà assassinio perché volto contro una belva che d'umano non ha che l'apparenza: sarà un servizio reso all'umanità ed è dovere d'ogni uomo amante della libertà, d'ogni anarchico di compierlo.
Ma se io cadrò senza aver raggiunto il mio risultato che da tanti anni spero di raggiungere, sono sicuro che altri prenderà il mio posto. Ai tiranni non si perdona, non si deve dar tregua mai. Facciamo nostro il moto del tiranno stesso: «Rendere la vita impossibile ai nemici».
Nessuno più di lui è nemico del genere umano.
Ebbene, noi dobbiamo cercare con tutti i mezzi ed in tutti i luoghi, di rendere la vita impossibile tanto al boia che ai suoi tirapiedi. Ce lo impongono le esigenze della lotta. La tirannia muove alla libertà una guerra spietata, senza tregua. Noi non abbiamo soltanto il diritto ma anche il dovere di difendere nella libertà i destini dell'umanità. Accettiamo la sfida, e la vittoria sarà nostra.
E se nell'opera del vindice esiste un merito, se alla sua memoria hanno da tributarsi glorificazioni; se io riuscissi nel mio disegno, quel merito non sarà stato mio ma dell'Idea che mi ha sempre animato, che mi assiste ed incoraggia ad osare, che mi insegna quanto si deve amare la libertà, quanto si deve odiare la tirannia.
Senza quest'idea sarei anch'io una delle tante pecore del gregge che dà tutta la lana che può dare; senza di essa, sarei uno qualunque della folla che vive alla giornata sopportando rassegnato tutte le peggiori oppressioni. Ad essa quindi i meriti e le glorificazioni.
L'ideale anarchico che educa l'individuo alle sublimi bellezze dell'amore infinito, della solidarietà sociale, della giustizia e della libertà integrali, è anche animatore dello spirito di vendetta contro il male e di distruzione per tutto ciò che è obbrobrio e vergogna. E il fascismo col suo capo sanguinario, con la sua monarchia fedifraga, è la vergogna e l'obbrobrio insieme del nostro tempo.
Questo nobile ideale anarchico ch'è tanta parte di me, ha dato molti martiri per la libertà, un grande numero di eroici giustizieri. Io non dubito che anche questa volta saprà far giustizia del macabro despota di Roma.
Se riuscirò nei miei intenti, veglino gli anarchici tutti perché alla demagogia politica sempre pronta a trar profitto del sacrificio altrui, non sia lecito travisare i meriti che avrà il gesto che sto per compiere, gesto che non può essere che anarchico. Veglino perché non si tenti di toglierne di fronte agli uomini e di fronte alla storia, l'onore e la gloria all'alto ideale che lo ispira e che in quest'ultima tappa del mio cammino, è il solo viatico della mia coscienza: L'Anarchia.

Dicembre 1930