Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 109
aprile 1983


Rivista Anarchica Online

L'isola trovata
di Giorgio Meneguz

C'era luce dappertutto, come di giorno. La luna sembrava l'albero di avorio di un enorme vascello sprofondato nell'infinito; spezzato nettamente, lo si poteva indovinare altissimo. La sua punta avrebbe certamente raggiunto il nostro lago, se non fosse che - ai tempi in cui il vascello solcava fiero l'immensità con le vele gravide di futuro - la terra non era ancora scivolata nell'orbita dove giostra da qualche millennio le epoche della storia umana. Ora era possibile vedere solo la sua circonferenza, perfetta, riempita di luce candida.
Seduto sulla riva, me ne stavo sparso in cielo. Anche la luna si era sparpagliata sulle onde del lago fino quasi a raggiungermi i piedi. Le colline dormivano come grassi orsi bruni coricati. Pensavo a Salvatore. Aveva visto un incantevole viso di donna sorridergli e sussurrargli parole mute nel rotondo della luna piena. Poi si era trasformata in un viso maschile, calvo. Salvatore ebbe un sussulto di disgusto per quel pelato che si era sovrapposto a una bellezza così delicata, mai vista in alcuna parte del mondo, neppure in Germania - perché, un tempo, in Germania ci era stato davvero, Salvatore. Ma, timoroso di avere irritato il potere arcano dell'astro con la sua impulsiva reazione, porse fragilmente le sue scuse sui raggi del suo sguardo e, pregandolo di accettarle, gli disse che avrebbe potuto trasformarsi in quello che voleva, se era proprio questo che desiderava. Salvatore avrebbe accettato crani lucidi di masnadieri, teneri visi di bimbi assorti, e persino ragni immondi o altre oscenità impensabili, se la luna avesse voluto. A lei rammentava solamente che quel viso di donna era stupendo, al di là di ogni possibile immaginazione, e l'avrebbe sicuramente rivisto con incontenibile felicità, se gli fosse stata fatta questa grazia. Ma non lo rivide, quella notte. E la luna gli sembrò un mappamondo schiacciato come uno sputo nel quale intavvide per un attimo preciso anche lo stivale dell'Italia.
Ero completamente perduto a contemplare i miei pensieri, tuttavia questo non mi impedì di accorgermi che tutto attorno stava diventando più scuro. Una nuvola nera, come una mano gonfia, aveva nascosto ormai completamente la luna. Ora la notte era piena di stelle. Danzavano molto più numerose e più vicine tra loro del consueto e il loro brillare illuminava il buio lucido e puro come un cristallo, splendente come un abisso caotico di pesciolini fosforescenti.
Improvvisamente un enorme cavaturaccioli incandescente scese infilando la propria punta nell'isola di San Giulio. Girava su se stesso, lentamente, e sprofondava. Incredulo, pensai si trattasse di una delle solite proiezioni della mia fantasia e me ne restai seduto a godermi lo spettacolo. Volevo forse punire le suore (ma perché?) e quello era il fulgido fioretto dell'Arcangelo Gabriele che la mia immaginazione faceva calare dal paradiso celeste. Oppure era il desiderio di sfuggire al terrore di essere punito dall'enorme fallo infuocato di una figura patema che covavo nell'anima e reificavo simbolicamente. O cos'altro ancora? Ero certamente stupito, non avendo io ricevuto un'educazione cattolica e non essendomi mai sentito di conseguenza perseguitato da fantasmi demoniaci o coadiuvato da angeli cusodi. Si trattava di una visione del tutto inconsueta, di questo non avevo ombra di dubbio.
Dolcemente, le onde si stavano guadagnando una dopo l'altra qualche spanna di spiaggia. Per non farmi bagnare i piedi, mi spostai un po' indietro come un gambero, senza alzarmi. Poi la ghiaia iniziò a sussultare sotto di me, e il terreno a vibrare. Spaventato, mi alzai di scatto. Le onde si levarono spumose e la terra sembrava impazzita. Fuggii lontano dal lago lungo un prato e, solo dopo essermi arrampicato sui rami più alti di una grossa quercia nodosa, mi ritenni al sicuro. Non avevo mai provato così tanta paura. Ma non ebbi il tempo per disperarmi. L'albero era scosso violentemente ed io mi stringevo più forte a lui. Anche da quella posizione potevo vedere l'isola. Il cavatappi la stava rialzando dal lago e, come quando si stura un lavandino, alla fine, mentre l'isola saliva al cielo, un mulinello aveva formato un buco nell'acqua. La terra si calmò, e l'acqua del lago turbinava risucchiata nella spirale di quell'occhio nero. Appollaiato come un gufo, ero sconvolto. Scesi e mi avvicinai alla spiaggia, il cuore impazzava ancora nelle mie tempie. Tra la ghiaia melmosa c'era ogni sorta di detriti: legnetti levigati dalla forma sinuosa, alghe strappate, bottiglie vuote di plastica, zatterine di polistirolo e persino un marines americano, rosso, alto non più di tre dita e incollato ad un piedistallo: giaceva carponi a mangiare fango col suo mitra bene impugnato. In breve tempo il lago fu prosciugato; l'acqua, sgorgata chissadove.
Avevo già visto uno spettacolo simile, ne ero certo. Ma il déjà vu andava oltre la memoria. In città, giù in fondo al lago tutto era illuminato. Pensai si trattasse di una festa e mi decisi a scendere gli infiniti gradini che mi avrebbero condotto sul posto. Levigati, erano ancora bagnati di acqua come di macchie di mercurio vivo. Le alghe erano verdi e soffici; i tritoni (dovetti scansarne anche uno steso sugli scalini) mi guardavano assonnati. Man mano scendevo, la scala si faceva sempre più asciutta. Il paese esalava un delicato profumo di gelsomino e il piacere di quel profumo provò misericordia per il dolore che normalmente avrei cominciato a sentire ai polpacci. Banalità, al suo confronto, la cocaina.
Cavedani e alborelle volavano d'oro e d'argento già sopra la mia testa, a stormi chiassosi. Un luccio se ne stava immobile, elegante come un pavone, senza tempo. Infine, con le ultime centinaia di gradini iniziarono le case e giunsi ben presto al paese. Le strade erano vicoli. Dappertutto c'erano fiori, tanto che sembrava di passeggiare in un giardino regale. Stimolava la mia attenzione un'infinità di cose. Non percepivo più la straordinaria fragranza di gelsomino e pensai che questo cambiamento fosse dovuto alla grande quantità di qualità di fiori, variamente profumati, che ornavano case e vicoli. Bellissime viole del pensiero sui davanzali delle finestre, e poi ancora violette di prato, ciclamini, rose di ogni colore e dimensione, primule, margherite, narcisi, girasoli grossi come il bene che ho voluto a Tiziana, rossi gerani davanti alle porte per scacciare le vipere predatrici del latte fresco per i bimbi, e altri fiori ancora, fiori in qualsiasi posto. Le case non erano particolari, ma le stradine incastonate di coriandoli di pietruzze variopinte, zecchini d'oro e gemme d'acquamarina e di smeraldo, non potevano passare inosservate. La gente nel suo viavai non si curava della mia presenza. Cani e bambini si rincorrevano e facevano capriole. Tutti avevano sul viso un'espressione di spensierata fanciullezza; i vestiti erano bizzarri, non uno uguale all'altro. Incontrai anche delle persone che non riuscii a trattenermi dal giudicarle orrori; fui come incantato nel vedere passeggiare un uomo con tre gambe, una donna-pesce avanzare sbattendosi sul terreno con movimenti clonici come una trota appena pescata, e un gruppetto di nanerottoli sformati seduti sull'uscio di una porta che non era più grossa dell'ingresso che avrebbe portato alla tana di un topo. Distratto e ammaliato da un'allegra musica da sarabanda, giunsi presto in una piazza indescrivibile. Doveva essere giorno di mercato, a giudicare dalla confusione, dal va e vieni delle persone, dai tappeti in terra ricoperti da ogni sorta di cianfrusaglie e ben di dio. Sostai di fronte a un venditore di preparati galenici in fialette di ogni forma e trasparenza che si riveleranno, come molti di voi già sanno per esperienza, portentosi rimedi contro punture di zanzarine, diarree e feritucole varie, signore e signori, gli unici mali che l'attuale modo di vivere non è ancora riuscito a prevenire. Ciarlatanerie. In un angolo, accanto ad una fontanella zampillante, un uomo, vivo!, stava nella posizione del loto ma con la testa completamente sotterrata e le gambe incrociate per aria. Nessuno badava a lui, ma io lo osservavo stupefatto. Mi distolse lo sguardo una bellissima fanciulla in tutù che si elevava agitandosi più alta della folla; avvicinatomi, mi accorsi che danzava il suo ballo di san Vito appoggiando la pianta del piedi su due spilli alti più di mezzo metro e sottili come fili di seta. Un funanbolo stava attraversando la piazza su una ragnatela stesa da un comignolo di una casa a quello di un'altra. Era proprio sopra di noi, completamente nudo, il corpo dipinto con disegni turchesi; fui sicuro, quando mi fu di schiena, che due ali diafane da libellula erano attaccate alle sue spalle. Non sapevo più dove guardare. Seduta su un sasso, una giovane donna allattava una ragazzina dai capelli neri, lunghissimi, accovacciata tra le sue gambe: rimasi colpito dal fatto che quella ragazzina avrà potuto avere non meno di undici o dodici anni di età. Sono certo, a questo punto, che mi si potrà comprendere se la mia descrizione falserà in difetto lo splendore e l'assurdità di ciò che vidi.
Mi sedetti intontito sulla panca di una taverna, ai margini della piazza. "E' lo zeffiro leggero che da ponente ti ha portato a noi, vero?" mi disse l'oste avvicinatosi con delicatezza. "Certamente", risposi subito fingendo di avere compreso chiaramente le sue parole. "Ma, dica, oggi è un giorno particolare, o è sempre così la vita di questo luogo, sa, io mi interesso di problemi sociali e culturali" e lui mi rispose che è sempre così ma sempre è diverso. "L'organizzazione che diamo alla nostra società viene da noi considerata il grado più alto di ordine che esiste in natura". "Dio mio, a me sembra piuttosto un angosciante disordine, e io sono anarchico ma non è possibile accettare tutta questa disorganizzazione, questo casino, e poi chi lavora è sfruttato e chi si diverte a passeggiare sui fili di ragnatela è un parassita, e poi tra la folla ho incontrato persone dall'aspetto orribile, dal comportamento non del tutto decoroso, che neppure sto a descrivere, tantomeno civile o etico, tuttavia mi piacerebbe sapere di più sulla vostra vita ... ".
"Non riesco ad afferrare completamente cosa tu voglia dirmi, ma ti assicuro che tra noi c'è posto anche per chi vuol stare tranquillo, a due passi sui monti, per esempio. Oppure parlandone all'assemblea del mattino si potrebbero trovare milleuna altre soluzioni. Ciò che ci tiene uniti in una naturale legge di uguaglianza è la consapevolezza che ognuno di noi è distinto e diverso dall'altro: in modo superficiale o radicale non importa. Ma se ti va ti porto un ottimo té affinché ti possa lievemente ristorare per il viaggio che hai percorso, a meno che tu non abbia lo stomaco attanagliato dai morsi della fame, in quel caso ... ".
"Vada per il té, buon uomo".
Un vecchio dai capelli bianchi che gli cadevano lisci sulle spalle, ben pettinati e lucenti come il mantello invernale di un ermellino, mi si sedette di fronte, dall'altra parte del tavolo. Aveva il volto dipinto: bianca la metà destra, nera la sinistra. "Benvenuto pellegrino, posso parlarti del tuo passato?" e gli risposi con emozione e curiosità "prego, certamente che può farlo".
Mi scrutò con occhi profondi da marinaio. Osservò le mie mani, i solchi nelle loro palme madide di sudore. Mi disegnò le labbra col suo indice secco e nodoso, contò i miei denti e passando le sue mani esperte nei miei capelli, li contò anch'essi ad uno ad uno, velocissimo. Volle guardare l'iride dei miei occhi ma non riuscivo a sostenere il suo sguardo di tempeste, naufragi e isole incantate. Infine, iniziò così il suo discorso: "Il tuo nome è Moltitudine. Giovanissimo, quando i tuoi anni erano forse ancora mesi, ti colse una burrasca. Fu all'incirca in quel periodo, quando i tentacoli dei tuoi sensi si espandevano tastando il mondo abbagliante, che ti accorgesti che era urgente procurarti una maschera. Cosa che facesti senza poter riflettere ulteriormente e senza neppure domandarti alcunché sulla qualità. L'unica cosa certa era la sua funzione: essa ti avrebbe difeso, aiutandoti a reagire alla realtà della violenza, della miseria; ti ripiegasti in te stesso, nelle domande che ti ponevi e nelle risposte che ti davi, esternasti un'apparentemente assurda passività. Il tuo essere vivace non era gradito, il tuo recarti piacere dava fastidio agli altri. Costruisti fantasticherie di convenienti omissioni o tenere gonfiature di fatti accaduti per metà, come spesso succede anche agli adulti. La trovasti semplice ed espressiva, innocente, vecchia, presa in prestito da qualche malconcia compagnia teatrale; non tua ma di tua appartenenza, sotto la quale avresti potuto ridere o piangere, emozionarti o essere indifferente, senza suscitare emozioni indesiderate a chi già deve averne avute troppe, chiedere e risponderti su tutto ciò che ti pareva giusto fare ma inutile, gravoso o superfluo farlo conoscere. Avevi finalmente risolto alla tua maniera quella che ritenesti essere la crisi della tua famiglia e ora questa stessa famiglia in crisi la porti nella tua testa e nelle tue emozioni. Credesti di togliere almeno le tue responsabilità dal suo aggravarsi; rispondevi sinceramente nel tuo cuore a ciò che ti chiedevano, ma per loro esisteva solo il tuo silenzio. Ti rifugiasti bene sotto il suo velo protettore, in modo che nessuna persona potesse capire quali fossero stati i tuoi reali e più spontanei sentimenti e più intense emozioni. Tacevi. E il tuo silenzio esterno era un caos di parole, segreti desideri intrecciati tra loro, rumorosi al tuo interno, assordanti. Esternasti sempre le frasi di circostanza e convenzionali, nascondendo molto bene sotto la maschera quelle che erano più legate al tuo cuore. Un giorno guardasti finalmente il tuo viso negli occhi di un'amica. E il tuo corpo corazzato provò un leggero tremore e una sottile angoscia, quando vide riflessa una sembianza che avrebbe dovuto appartenergli ma non riconosceva. Togliesti lo sguardo e ti rispecchiasti furtivo, disgustato. Anche il corpo che ti trasportava ti sembrò osceno, lo trovasti addirittura ridicolo, goffo. Era diventato un veicolo che ti impacciava, affascinava, ripugnava. Lui (il corpo) era quello che la gente vedeva, e tu ti stringevi accucciato al suo interno, tra le spine dei tuoi mali e le piume delle tue piccole, effimere, intime gioie. Avresti voluto piangere. Forse lo facesti, ma nessuno se ne accorse. Ora potevi dire e dirti cose che si contraddicevano tra loro; dimostrare di sentire e sentire veramente: eri due, anzi fosti in molti di più. Ti alzasti, felice della fecondità del nuovo giorno; bene adattato all'ambiente, a quella che gli altri ti convinsero essere la realtà. I giorni, poi, furono molti, ma in quanto alla felicità, non riconoscesti più quella sincera, confondendo i sentimenti che la maschera dimostrava per accattivarsi la simpatia degli altri con le tue emozioni pure. Accettasti che la gente ti vivesse addosso. Spesso ti assopivi nel tuo ruolo. In seguito ti sei svegliato. Io non sono io!, gridasti soffocato dalla maschera ... Io sono sotto, dentro, lontano ma vicino, troppo!, presente ma assente; io sono come mi conoscete ma posso anche non essere così, perché non totalmente sono così; io non sono solo questo mio specchio deforme, mia falsa immagine, mia maschera irreale, mio manichino; io sono in casa, nel grembo del mio cuore, disperato e affettuoso; io sono schiavo del significato sociale della mia immagine: avrei un altro linguaggio, ma l'ho scordato. Sfrattatemi. Vene prego! Piangesti disperatamente, singhiozzasti fino a toglierti il respiro. La gente delle tue terre, sorda alle tue parole, non si accorge che lotti ancora più disperato perché non ritieni più possibile né accettare né rifiutare quel costume che ti sei costruito per liberarti e ti ha reso prigioniero. E la tua disperazione è tale che non ti accorgi neppure più di essere disperato. La gente non sa che non hai ancora trovato la tua propria vera identità. Ma tu ancora non ti sei accorto che di vero c'è solo l'incompletezza".
Finito che ebbe di parlare, mi scordai completamente il suo discorso: le sue parole mi sembravano vuote di significato, del tutto senza senso. Tuttavia mi sentivo un poco stordito.
"E' un filibustiere" mi disse l'oste facendomi l'occhiolino con simpatia. "Ecco il té. I discorsi sul passato sono tutto ciò che Cipriano riesce a offrire, ma nulla è poco".
"Lasciamo perdere: sono più interessato all'aspetto politico. Continuando il discorso, io credo che la società debba essere libera da governanti e organizzata dalle assemblee federate. Lei mi parlava di quelle giornaliere ... " dissi dalle profonde vette della mia razionalità. "Sicuro; naturalmente ogni mattina, in tutti i quartieri, teniamo le nostre assemblee; ci raccontiamo i sogni che ci hanno deliziato o turbato la notte, e gli anziani e chi ha qualche idea in proposito discutono su questi sogni, sulla loro incidenza nei nostri rapporti interpersonali. Così ci si conosce un po' tutti, e ci si riconosce un po' in tutti. Ognuno poi lavora, studia, gioca, offre quello che può offrire e prende quello che gli serve, per quei quattro giorni che dobbiamo vivere".
Mi prese un'ansia mozzafiato, non sapevo spiegarmela ma ero affaticato dalla situazione e dalla baraonda e non riuscivo più a reggere tanta spontanea delicata irrazionale ingenuità, beati voi. Quanto pago il té? "Quello che vuoi".
Cercai cinquecento lire tra le monete nel portafoglio e le posai sul tavolo. "Ma non ci serviamo di gettoni di quel tipo, se proprio vuoi pagare offri ciò che puoi, ciò che sei capace di fare, a meno che non abbia cesellato tu stesso questi dischetti nichelati". Preso in contropiede, imbarazzato, balbettai che non sapevo fare nulla.
"Poco male, per me. Sono spiaciuto per quanto ti riguarda" mi disse l'oste.
"No, non è vero" mi risentii. "Se vuole potrei suonare il rag della foglia di fico alla chitarra, ce ne fosse una". Si alzò per poi scomparire all'interno della taverna: "te la procuro".
Una mano si posò sulla mia spalla. Sussultai come una preda.
"Custode Virgilio Teofilo Pornoscopo" tuonò amichevolmente una voce alle mie spalle. Mi voltai e vidi Paciciak con immenso piacere. Ero seduto al solito posto sulla spiaggia, il lago era di platino e il latte della luna ondeggiava verso di me. Mi alzai. Abbracciati ci incamminammo sul prato, e "chi è il più duro del mondo?" mi chiese con complicità Paciciak, e poi, poi c'è: Sigmund Freud e Stan Laurel e Oliver Hardy, e Anarchik, oh quello si prende tutti i finanziamenti di paciciak per il movimento anarchico e se li beve in pochi giorni per poi andare al mare a disintossicarsi con la sua radiolina fracassona e il costumone a righe e si fa spudoratamente ritrarre per la rivista ... Gli diedi un bacio, consapevole in modo assoluto di quanto sia lastricata di sogni la strada che porta al domani.