Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 109
aprile 1983


Rivista Anarchica Online

Yol, un film sulla libertà
di Giulio Manieri

In Italia si sa poco o niente della Turchia, non solo degli avvenimenti politici contemporanei ma anche della lunga storia di quel paese. L'ignoranza diviene assoluta quando si passa alle espressioni culturali, alla letteratura e alle arti della gente anatolica. Se a qualcuno, bene intenzionato, venisse la voglia di leggersi qualcosa sull'argomento, ed andasse perciò a consultare lo schedario di una qualunque biblioteca italiana, egli troverebbe ben poco, qualche libro sulla battaglia di Lepanto, qualche altra cosa sui pirati ottomani e sull'assedio di Vienna. E sarebbe tutto. Non esiste in lingua italiana una dignitosa storia della Turchia, non esiste uno studio serio sulla rivoluzione kemalista, e tantomeno su quanto ne è seguito dagli anni Venti fino ai giorni nostri. Lo stesso mondo
accademico, così ghiotto di esotici orticelli da coltivare gelosamente, ha disdegnato la terra che fu degli Osman. Non potrebbe, allora, che essere il benvenuto un film, come Yol di Yilmaz Güney, che ci dà un'immagine fedele, finalmente non di maniera, della realtà sociale turca.
Il pregio di Yol, tuttavia, non è solo quello di offrirci uno spaccato della realtà turca. Il film, che Güney ha diretto da un carcere e realizzato grazie al suo collaboratore Serif Goren, descrive criticamente quella realtà, su di essa pensa, e si sforza di indicare ai suoi connazionali una condotta d'azione, una via (yol, appunto, in turco). L'opera di Güney, inoltre, ha lo spessore dell'opera d'arte, sia dal punto di vista formale della buona cinematografia, sia da quello sostanziale del contenuto che si innalza progressivamente dalla descrizione alla meditazione al lirismo.
Questo film è intriso di dolore e di pietà, di dolore per la violenza che si subisce e di pietà per le vittime della violenza che non si riesce a far meno di infliggere. Veniamo alla trama. Un gruppo di cinque detenuti nell'isola egea di Imrali ottiene un permesso di sei giorni per tornare a vedere le rispettive famiglie. Di questi cinque, due sono in un certo senso personaggi minori. Di un primo la vicenda si interrompe brutalmente perché durante uno degli innumerevoli controlli di polizia viene colto senza documenti e perciò fermato in attesa di accertamenti: trascorrerà tutta la sua licenza in una caserma della «Gendarmeria» (una specie di carabinieri turchi). Un secondo, arrivato a destinazione, si intrattiene con la fidanzata e con i parenti di questa, ma frustrato dal puritanesimo dei parenti che gli contestano una eccessiva intimità con la fidanzata, scompare nella squallida stanza di un bordello. Le storie importanti per la dinamica del film sono, dunque, tre.
Mehmet è in carcere per una rapina, conclusasi con la morte del suo complice, il cognato, che avrebbe forse potuto salvarsi se Mehmet vinto dalla paura non lo avesse lasciato a terra e non fosse fuggito via con l'auto. Di ciò la famiglia della moglie, e la moglie stessa, gli fanno una colpa capitale. La donna, nelle lettere che gli invia, gli manifesta il suo trovarsi in mezzo tra l'amore verso di lui e la fedeltà alla famiglia paterna: Mehmet ama la moglie, ha carezzato per tanto tempo l'idea di riabbracciare lei ed il figlio: la sua destinazione è perciò il villaggio del suocero. Qui viene accolto così come si addice a un traditore secondo il costume patriarcale e scacciato dalla casa in cui vive, sottomessa al padre e ai fratelli, la moglie tanto desiderata. Mehmet confessa la sua paura, e la sua colpa, ma rivendica l'affetto dei suoi. Inutilmente sembrerebbe, se l'indomani la famiglia del suocero non fosse scossa dalla notizia che la figlia ed il nipote sono fuggiti col traditore mille volte maledetto. Qui giungiamo all'epilogo della vicenda, e ad uno dei momenti più drammatici del film. Mehmet con i suoi è su uno di quei treni turchi, sempre così affollati di umanità dolente, che ricorda i nostri che dal Sud o verso il Sud trascinano il loro carico di carne da fatica. Sono anni che l'uomo e la donna non si vedono, la tenerezza si trasforma in desiderio insopportabile. Si chiudono così nella toilette per un amplesso che è come lo sfogo di un bisogno. Ma la morale puritana della gente del popolo non lo permette. I vicini capiscono, tutti capiscono. E' lo scandalo, vissuto come un insulto alla dignità di ciascuno dei viaggiatori. E' quasi un linciaggio. E sarebbero linciati i due, se non fosse per l'intervento degli impiegati delle ferrovie che li trattengono minacciandoli di gravi sanzioni, mentre il loro bambino singhiozza e la donna china il capo per l'enorme vergogna piombata su di lei da tutti gli angoli del treno. La morale dell'impiegato statale è più aperta alla pietà, più laica diremmo, di quella ottusa dei contadini vocianti contro la coppia. Fatto che dovrebbe far riflettere sulla fede assoluta nelle forme della socialità popolare contrapposta all'inumanità del meccanismo giuridico. Non è sempre vero che i costumi di un popolo siano più liberali delle sue leggi. La fine, per gli sposi, arriva quando il giovanissimo fratello della donna fredda a colpi di pistola i due, compiendo la legge del clan ben più feroce e intransingente, in materia di rapporti interpersonali, di quella dello Stato.
Seyit Alì ha saputo che la moglie, dopo la sua condanna, è andata in un bordello, abbandonando il figlio e il genitore. Eppure gli aveva promesso che lo avrebbe aspettato. I fratelli della donna l'hanno ora ripresa e riportata alla casa del padre. Qui Seyit la ritrova, dopo un lungo viaggio tra la neve, legata per i piedi nel porcile e cibata a pane ed acqua. Il destino della donna è segnato, non vi è punizione per lei che possa colmare l'abisso di disonore che si è aperto sotto la sua famiglia. Il problema è uno solo: chi deve eseguire la sentenza? I fratelli si dichiarano pronti, ma il marito come tale ha rispetto a loro un diritto di precedenza. E Seyit è deciso, lui, a colpire la svergognata. La fa liberare dai ceppi che la stringono, la fa nutrire e lavare, la veste degli abiti di festa. La donna si illude, ricomincia a sperare nell'amore dell'uomo. All'alba la famiglia riparte da quella casa arroccata nella montagna, deve attraversare un lungo percorso tra la neve. La donna è messa a camminare con i suoi soli abiti e senz'altro addosso, e priva di racchette. Così, mentre il figlio e il marito avanzano sicuri nella neve e nel gelo, lei fa fatica, vi affonda, il freddo la vince. La donna ha capito, è la sua condanna a morte quella che si sta compiendo. Le sue grida, le sue lacrime, muovono alla pietà Seyit quando lei è ormai caduta sulla neve. Lui tenta di farla riavere, e la frusta come un cavallo. E' tutto assolutamente inutile. Seyit ha contravvenuto alla raccomandazione del suocero di non avere pietà, ma troppo tardi.
Omer è kurdo. I Kurdi in Turchia sono la minoranza più numerosa e più oppressa. E sono anche come popolo, al contrario degli armeni abbastanza turchificati, la minoranza più battagliera (è nell'Est, nel Kurdistan, che il generale Evren ha ottenuto la minor percentuale di consensi al suo referendum). Ai Kurdi, dai tempi di Kemal Atatürk, è fatto divieto di parlare la loro lingua, è proibito perfino dirsi Kurdi: essi sono, nella lingua ufficiale della Repubblica, «turchi di montagna». Il Kurdistan turco è quindi la parte più militarizzata del paese. Solo a pochi in Occidente è noto che la legge marziale vigeva in quella regione anche prima del colpo di stato del 12 settembre 1980. Omer torna dopo il colpo di stato e vede i villaggi kurdi divenuti terra di occupazione. Quando cala la notte scattano i rastrellamenti: villaggio per villaggio, catapecchia per catapecchia, alla ricerca di sovversivi e di contrabbandieri. Il contrabbando è una delle attività economiche principali del Kurdistan che, trovandosi al crocevia di più stati, offre per quel lavoro una posizione logistica ideale. Il fratello di Omer è contrabbandiere, così a sentire le raffiche di mitra che risuonano tutta la notte, la famiglia veglia e trema per la sua sorte. Una di quelle notti insonni un gruppo non si arrende ai soldati. Tra di loro, esposti come bestie macellate perché siano riconosciuti, Omer vede il fratello. Dinanzi ai militari che li mostrano ai contadinii nessuno tradirà un segno di dolore: sono dei forestieri, mai visti. L'epilogo per Omer è stretto anch'esso nella contrapposizione tra una socialità ferocemente oppressa e il nucleo patriarcale e autoritario di essa. Omer se decide di non tornare in carcere e di darsi alla macchia, deve per la legge patriarcale sposare la vedova del fratello e con ciò rinunciare al proprio amore, una ragazza tutta occhi del villaggio. Al momento stesso in cui monta a cavallo e decide per la libertà, egli deve sottostare all'implacabile autorità della legge clanica. Quello che è un atto di rivolta è anche, così, un gesto di sottomissione.
Come si vede, le vicende che ci narra Güney sono storie di libertà. Di libertà, per quanto provvisoria, dall'universo carcerario, innanzi tutto. Di libertà, poi e soprattutto, dalla ferrea regolamentazione patriarcale dei rapporti tra uomini e in particolare tra uomini e donne. Mehmet contravviene alla legge familiare e rivendica la propria paura, e la sua donna infrange la regola mettendo l'amore al primo posto rispetto all'onore del clan. Il prostituirsi della donna di Seyit è anch'esso a suo modo un gesto di liberazione, e la libertà arriva a Seyit per il tramite della pietà: ancora una volta l'amore, la stima dell'essere umano in quanto tale, ha la meglio sulla considerazione dello status, del ruolo, fissato una volta per tutte nella gerarchia dei rapporti sociali. Di libertà, infine, contro il regime militare che fa di tutta la .. Turchia un'immensa prigione. Omer non ritorna in carcere allo scadere del permesso, la sua è una scelta esplicita di rivolta contro il potere politico che opprime e uccide i suoi fratelli.
Il film, tuttavia, non si intrattiene tropo a descriverci l'azione della giunta del generale Evren, la sua «politicità» è più profonda. Essa, infatti, tocca la natura non tanto del regime politico quanto della società turca. Güney ci dice che non è questione, o non è solo e soprattutto questione, di una società che debba liberarsi semplicemente dal fardello di un regime politico crudele e oppressivo. E' questione di riformulare lo stesso modo di essere della società, di liberare i rapporti umani che in essa sono tuttora stretti entro i ruoli della comunità patriarcale, di emancipare la donna vittima delle vittime. Così facendo, scacciando dalla propria sfera il contenuto di violenza che vi si esprime, risulterà agli individui ancora più ingiusta e intollerabile quell'altra più grande violenza che il potere militare esercita sul disgraziato popolo turco.