Rivista Anarchica Online
L'anima leninista
di Luciano Lanza
«Sono convinto che il Partito esce da questo congresso fondamentalmente unito negli obiettivi
principali, e potrà così moltiplicare l'iniziativa politica e il lavoro di massa verso l'alternaiva
democratica. Al lavoro e alla lotta, compagni e compagne, al dibattito e allo studio di Marx e di
tutto il pensiero moderno, verso più ampi successi, nell'interesse di questa nostra Italia così
tormentata e così ricca di energie, e nell'interesse della pace nel mondo». Questa esortazione di
Enrico Berlinguer, sommersa da un'ovazione, ha chiuso il XVI congresso del Pci. Un congresso
maturato in un vero e proprio clima di suspence. Il congresso della svolta, dello strappo, della
democrazia interna. I mass-media hanno per mesi alimentato le aspettative, poi, una volta
conclusosi, in molti commentatori è sorto il legittimo dubbio che forse questo congresso non sia
stato così clamoroso come ci si aspettava. Il dubbio è legittimo, ma forse non completamente
fondato. Le novità ci sono state, anche se diluite, quasi sommerse, nella ritualità, nell'oleografia
tipica dei congressi di partito. Non grandissime novità, certo, ma comunque segni rivelatori di un processo in atto nel partito
comunista. Un processo a cui il congresso ha solo alluso. La cronaca, dunque, ci racconta un
aspetto parziale, ma da quella si può procedere per investigare la trasformazione, la mutazione dei
comunisti italiani. Innanzitutto è stata sancita e confermata la posizione critica nei confronti dell'Urss e una decisa
posizione equidistante tra i due blocchi. Berlinguer, nella relazione d'apertura ha infatti dichiarato:
«L'intervento militare in Afghanistan - e ci limitiamo a ricordare il fatto più grave - ha dimostrato
che anche l'Unione sovietica ha avuto e può avere comportamenti propri di una politica di potenza
e compiere atti contrari alla distensione e al rispetto della sovranità e dell'indipendenza dei popoli».
Per arrivare ad affermare che: «Ecco le ragioni, sia di principio che di fatto, che ci inducono a
rifiutare l'identificazione della lotta per la pace con lo schierarsi pro o contro uno dei due campi
politico-ideologici o blocchi militari». Con queste chiare parole il Pci ribadisce definitivamente la sua autonomia dal partito-guida
sovietico e si presenta sulla scena politica italiana come forza legittimata al governo. I suoi
avversari non potranno più invocare la dipendenza dall'Urss, ma dovranno confrontarsi con le sue proposte politiche, economiche e sociali. E le proposte fatte da Berlinguer sono improntate a un
pragmatismo di tipo socialdemocratico: dall'analisi della crisi economica internazionale alla ricerca
di soluzioni europeiste; dall'analisi del deficit pubblico alla proposta di un'imposta straordinaria sui
patrimoni come primo passo per frenarlo; dal fallimento della governabilità fondata sull'asse Dc-Psi
all'alternativa democratica. L'elencazione potrebbe continuare, ma non ci direbbe molto di più di
quanto potrebbe proporre un qualsiasi partito socialdemocratico dell'Europa del nord, con in più
una variante: la tanto famosa «diversità comunista». Anche questa però un po' più annacquata. A onor del vero una voce, anche se praticamente isolata, si è levata per riaffermare l'autentica
«diversità comunista», il richiamo al leninismo e all'alleanza con l'Urss: Armando Cossutta. Con un
intervento calibrato e un po' dimesso, Cossutta ha ribadito il succo di tutta la sua «campagna
filosovietica» dei mesi precedenti: «Ritengo che da una più compiuta definizione - ha dichiarato
Cossutta dal palco del Palasport - in positivo, lungo la via maestra tracciata da Gramsci e da
Togliatti, della nostra originale identità di forza rivoluzionaria, non potrebbe derivare che un
allentamento del contrasto che vi è stato nel giudizio stesso sulle esperienze e sul ruolo degli attuali
paesi socialisti. Allentamento che riprodurrebbe, ritengo, quando i compagni non si trovassero più
nella condizione di dover definire la propria identità comunista essenzialmente in negativo».
L'intervento di Cossutta aveva i toni del comunismo ortodosso: la fedeltà al partito anche quando
questo sbaglia. Le sue critiche al nuovo corso socialdemocratico scaturiscono da una posizione
leninista. La sua fedeltà all'Unione è la fedeltà a «una prospettiva rivoluzionaria». I commentatori politici hanno fatto a gara nel definire superato e isolato il leader comunista. Ma
Cossutta, pur relegato in posizione minoritaria, rappresenta qualcosa di molto importante in questo
partito che sta cambiando. Non rispetto alle scelte contingenti, certo, ma nella veste più complessa
di «analizzatore politico» del Pci degli anni ottanta, come ho recentemente tratteggiato in un
articolo scritto prima del congresso (cfr. Pci: è venuto giù l'Armando, Volontà, n. 1/1983). Lo
svolgimento del dibattito congressuale ha in buona misura rafforzato quella mia convinzione: Cossutta ha il pregio di rivelarci il ritmo totalitario a cui batte il cuore del Pci. La relazione di
Berlinguer è infatti un esempio di «leninismo socialdemocratico», ibrido connubio che però ha la
facoltà di adattarsi molto bene alla situazione socio-politica di questo momento storico. A questo
proposito è rivelatrice la frase con cui Ugo Pecchioli, il ministro-ombra degli interni, ha iniziato il
suo intervento: «Se oggi ci possiamo muovere in avanti sulla strada dell'alternativa democratica è
perché sono state salvaguardate, attraverso le difficili battaglie di questi anni, le condizioni, i
presupposti, per poterci dislocare sui nuovi terreni di oggi. Dove sarebbe l'Italia, di quale
alternativa democratica sarebbe possibile parlare, se grandi mobilitazioni di popolo (ed un ruolo
certo non esclusivo, ma fondamentale esercitato dai comunisti) non avessero bloccato l'attacco
terroristico e non fossero stati neutralizzati i tentativi di utilizzare il disegno eversivo e i suoi effetti
disgreganti, per operazioni reazionarie?». Parole, queste, che lette attentamente ci dicono che, secondo Pecchioli, oggi il Pci può portare
avanti un programma socialdemocratico perché ha finalmente eliminato quel piccolo, ma fastidioso
e rumoroso concorrente leninista: Br e affini. L'essere il solo depositario del leninismo (il Pdup è
ormai nulla di più che un fiancheggiatore del Pci) permette a questo partito di dare del leninismo la
versione che più gli è congeniale. La tesi non è peregrina come potrebbe sembrare a prima vista, perché il leninismo è veramente un
elemento fondamentale, un elemento costitutivo del partito comunista italiano. Senza di esso il Pci
non sarebbe più se stesso, la sua «diversità» si dissolverebbe come neve al sole. Da qui, da questa
constatazione bisogna partire per comprendere il senso della trasformazione in atto enunciata nel
recente congresso. E da questa angolazione il ruolo di Cossutta assume un risalto che un
superficiale esame dei rapporti di forza non ci direbbe. Infatti anche se solo una decina di delegati
sui 1.109 presenti al Palasport erano dei cossuttiani, questo non deve trarci in inganno. Intanto va
ricordato che la selezione dei delegati ha fortemente penalizzato quell'area composta da cossuttiani,
rodaniani e militanti che gravitano attorno alla rivista Interstampa. Nella base del partito questa
minoranza è più consistente, la possiamo valutare intorno al 15-20% con punte più elevate nei
centri maggiormente industrializzati. La stessa composizione dei delegati non rispecchia la
composizione sociale del partito che con un 40% di operai ha visto questa categoria rappresentata
solo per il 29% al Palasport. Ma come dicevo prima, non è questione di cifre, perché questa
minoranza ha il pregio di rendere palese, chiara, manifesta l'anima totalitaria del partito comunista.
Mentre la maggioranza riformista occulta dietro linguaggi e proposte in assonanza con la nuova
composizione sociale e la nuova collocazione occidentalizzante l'insopprimibile leninismo del
partito. Questo, però, non vuole assolutamente dire che Berlinguer e soci facciano del puro
tatticismo, della volgare copertura del loro leninismo, più semplicemente sta a significare che il Pci
sta imboccando una versione tutta italiana e occidentale del leninismo classico, cioè di quel
leninismo che Cossutta ripropone nella sua formulazione storica. Ecco il nodo gordiano che i dirigenti comunisti stanno cercando di sciogliere: come rendere
compatibile con le regole della democrazia occidentale le regole leniniste della conquista del
potere. Compito davvero difficile, perché nel frattempo alcuni esponenti comunisti hanno
imboccato senza eccessive riserve la nuova strada riformista, mentre Berlinguer, da saggio
mediatore, cerca di non spostare troppo bruscamente l'asse politico del partito. Da partito
confessionale il Pci vuole divenire laico, e infatti, forzando i tempi, Pietro Ingrao ha affermato:
«Abbiamo recuperato le radici laiche delle nostre fonti. Il dissenso non è più un pericolo: è parte
normale della nostra ricerca». Facendo dunque eco ed enfatizzando quanto Berlinguer aveva
dichiarato nel discorso di apertura: «Partito nuovo, oggi, ma anche partito aperto e moderno.
Aperto al suo interno al dibattito democratico più libero e più schietto; aperto alle critiche e alle
sollecitazioni che una società ricca e vivace, che abbiamo contribuito a creare, esercita verso noi
stessi. Moderno per il suo stile di lavoro, per la sua efficienza, per la sua capacità di tener conto
delle trasformazioni ... ». Partito nuovo, dunque, ma di quale tipo? Qui la risposta si fa difficile. Il congresso non l'ha
chiaramente indicato. Le proposte innovative, la nuova strategia, indicata anche da Napolitano - il
più liberaldemocratico -, non sono ancora compiutamente definite. L'analisi si fa più complessa
perché, molto probabilmente, stanno divenendo obsoleti gli schemi interpretativi fin qui utilizzati
per comprendere l'azione politica del Pci. E' solo grazie all'intuizione che è possibile indicare la
nascita di una nuova forma-partito, scaturente dalla non meccanica sovrapposizione tra leninismo e
democrazia occidentale, tra totalitarismo e «trasparenza del dibattito», tra oppressione sociale ed
emancipazione economica, tra unità decisionale e possibilità del dissenso. Tutti termini apparentemente e logicamente antitetici, ma che il nuovo corso del Pci pensa di poter
coniugare congiuntamente. Sta nascendo il «totalitarismo democratico»?
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