Rivista Anarchica Online
Sesso in gabbia
di Mario G. Verdini
La prigione, le circostanze cruente dell'emarginazione e dell'esclusione stereotipata, fanno notizia. I
settimanali di mezzo mondo dedicano all'argomento sconvolgenti reportages ed emblematiche
istantanee, mentre i quotidiani italiani sono letteralmente subissati da comunicati di agenzia che
riportano (quasi loro malgrado!) di giornaliere alterne violenze, di omicidi brutali, di pestaggi
feroci, di rinvenimenti agghiaccianti e di ben altre stupefacenti illegalità, di arbitri e di corruzioni
che si verificano all'interno del recinto internante. La situazione è a dir poco esplosiva: circa 37mila presenze contro soli 24mila posti-letto, in un dato
giorno, e circa 100mila ingressi in un solo anno! Attualmente (agosto c.a.) sono detenute 34mila
persone mentre il sistema, come dicevamo, ne può reggere circa 24mila: un surplus cioè di 10mila
detenuti. Lo Stato intende provvedere, manco a dirlo, costruendo nuovi istituti di pena più efficienti,
funzionali, inattaccabili, inviolabili, delle vere e proprie case-matte, costosissimi per giunta.
Nell'arco di questo 1982 saranno istituiti complessivamente 1250 nuovi posti; così, mantenendo lo
stesso ritmo, il posto vuoto dei 10mila sarà colmato nel 1990. «Ma le statistiche», scrive La
Repubblica del 27 agosto, «ci dicono che i detenuti sono in aumento progressivo: 30mila a
dicembre del 1980, 36mila a dicembre dell'81, 34mila a luglio dell'82 ad appena 7 mesi
dall'amnistia. Di questo passo nel 1990 saremo ad oltre 60mila detenuti e a nulla serviranno i
10mila posti nel frattempo costruiti.». Le difficoltà generate da una simile situazione sono continuamente denunciate dai reclusi che
chiedono più umane condizioni di vita e alle volte in modo clamoroso come è accaduto in questi
giorni di fine estate nel carcere di Rovigo, dove tutti i prigionieri hanno tenuta sveglia la cittadina
per una notte intera con le canzoni della resistenza partigiana. Ora un fatto nuovo si affaccia
all'orizzonte. Un fatto inedito in Italia ma non inaudito, anzi, sicuramente destinato ad aumentare la
sua portata di contestazione, la sua importanza sociale e l'urgenza che riveste. Ora i detenuti sono in
agitazione per rivendicare il loro diritto ad esprimere la propria sessualità, diritto che è strettamente
collegato alla lotta più vasta per la dignità individuale e per il rispetto della figura umana sia essa
perseguita o meno. Forse proprio per questo essa rimarrà una rivendicazione inascoltata e
spietatamente elusa dagli organi di Stato preposti: non è ancora nei programmi di uno Stato retrivo
quanto solo può esserlo uno cattolico, riconoscere il diritto del recluso ad una piena sessualità
volontaria. Parlare del carcere è parlare ad un tempo della crudeltà sistematica che caratterizza lo Stato. Di
questo il carcere è l'istituzione totale più appariscente e assestata, la concretizzazione di quella
attenzione d'ufficio che si rivolge più spesso al cosiddetto colpevole che alla vittima, ponendo
questa ultima in un secondo piano. Lo scopo primario dell'istituzione penitenziaria è quello di
operare una serie di trasformazioni sulla personalità del prigioniero che siano funzionali al sistema
interno carcerario nel periodo di detenzione e, in un momento successivo, dopo la scarcerazione,
funzionali grosso modo al sistema civile di produzione e di consumo in cui questi dovrà
reintegrarsi. Tuttavia sarà duro il rientro in società per un uomo che ha l'esperienza carceraria. Le umiliazioni
che ha subito, la metodica spersonalizzazione, la neutralizzazione della volontà che egli ha
conosciuto, la solitudine e l'angoscia, l'intima convinzione della dissipazione della propria vitalità e
il terrore che quell'uomo ha scandagliato per ore e ore interminabili e immutabili hanno lasciato in
lui un segno indelebile, un marchio a fuoco, indizio del vinto e del bandito. E' stato dimostrato che a un maggior grado di adattamento alla vita della prigione corrisponde un
maggior disadattamento alla vita esterna. Il dilemma viene affrontato da T. Morris in questi precisi termini: «Non si può insegnare agli uomini ad accettare delle responsabilità sociali
che, spinte agli estremi, li inducono ad uno stadio di dipendenza pressoché infantile». Come dire
che la socializzazione in questi istituti consiste nell'avviare nel prigioniero un processo involutivo
deabilitante soprattutto per quanto concerne la psiche. In certe galere vige addirittura la proibizione
di fare uso di oggetti e di indumenti personali, oggetti e indumenti che potrebbero rappresentare per
il coatto un fascinoso richiamo, sia pure diluito, alle forme di vita precedenti l'arresto e la cattura,
un richiamo costante alla sua età umana. Fuori egli faceva parte di una famiglia, svolgeva un lavoro più o meno di proprio gradimento,
apparteneva ad una comunità con tutta quella ampia gamma di interessi, di interrelazioni con
persone di ogni tipo. Dentro al carcere, invece, tutti questi normali legami sono recisi di colpo.
Fuori la maggior parte degli esseri intrattiene delle relazioni socio-sessuali scelte
indipendentemente da ordini espliciti esterni: relazioni e contatti più o meno duraturi, soddisfacenti
e solitamente con partner dell'altro sesso. In carcere, invece, le relazioni sociali e le relazioni
sessuali che si stabiliscono sono esclusivamente temporali - a seconda della durata della detenzione
- e sono o indotte in modo subdolo o chiaramente obbligatorio, cioè in base alla cella assegnata, al
raggio, all'ora di aria, dalle operazioni manuali che dovrà svolgere, dai permessi di cui godrà, o alle
punizioni che gli saranno inflitte. In carcere - immagine opaca, ritratto senza fondo delle contraddizioni, luogo geometrico e assurdo
della sopraffazione, dell'odio e della paura - le relazioni socio-sessuali, inoltre, possono essere
soltanto di natura omosessuale. Oscar Wilde nel saggio «L'anima dell'uomo sotto il Socialismo» scriveva: «Leggendo la storia, non
sui testi di scuola ma consultando le fonti originali di ogni epoca, si resta veramente disgustati, non
per i crimini commessi dai cattivi, ma per le punizioni inflitte dai buoni. Una comunità è molto più
violenta per l'impiego abituale delle punizioni che per i crimini sporadici che vi si verificano». E i
«buoni» - fuori come in carcere - sono quelli «docili come animali domestici»: non è forse l'etica
generale del reclusorio quella di rendere inermi i reclusi? Solo chi si adatta a questo letto di
Procuste che è la consuetudine più silenziosa sarà salvo. In carcere, insomma, il prigioniero buono,
quello ravveduto, è quello che si rimbocca la maniche e collabora con il poliziotto che cerca di
trasformalo; il detenuto modello è quello che di fronte al sistema reclusorio si adatta e si rinnega in
toto, quello che si uniforma alle norme e assume un comportamento d'ora in poi per sempre
prevedibile, un metodo comportamentale che non riserbi spiacevoli sorprese. Il sistema carcerario,
quindi, opera tecnicamente affinché il prigioniero si identifichi con l'atmosfera e interiorizzi le
regole della prigione e perché, alla fine, smarrisca ogni impulso d'attrazione verso la società per
come è stata concepita all'esterno di quelle mura grige. A questo scopo il coatto viene
continuamente sottoposto a controlli dall'alto, a regolamentazioni dettagliate e pedanti e a
improvvisi loro mutamenti. Egli viene privato completamente di ogni sua antica certezza, della sua
reale individualità, di ogni sua personale facoltà di decisione, espropriato della sua autonomia,
pressoché lobotomizzato, sottoposto al lavaggio del cervello e ridotto allo stato di bambino
indifeso, incapace di provvedere a se stesso e, come prescrive la morale sessuofoba corrente, gli
viene negata anche una realtà sessuale che non sia quella di ripiego, cioè promiscua, immaginifica,
sotterranea ed oscura. Non si può che prendere atto di quanto in proposito scrive G. Salierno,
studioso dell'argomento del carcere in Italia. Dice: «Per ciò che attiene, poi, specificamente alla
omosessualità carceraria, è da considerare che l'adesione a essa, da parte del recluso, non avviene
per una scelta, ma per coartamento istituzionale. Non si può, quindi, parlare di orientamento, bensì
di schiavitù sessuale.». M. Grünhut ha dimostrato che la maggior parte dei prigionieri esaminati, così come buona parte dei
reclusi in istituzioni totali, sia manicomi che caserme, sia collegi che monasteri, soffriva di «vuoti
mentali», di «deterioramenti psico-fisici», di una «diminuzione di memoria», di «incapacità di
concentrazione», della tendenza alla fusione tra reale e irreale, all'illusione e all'autoinganno, alla
sublimazione e al mistico schizoide e demenziale. Un impulso naturale e necessario al corpo umano ed alla sua psiche come quello sessuale, fatto
uscire dalla porta rientra per forza di cose dalla finestra, ma trova una situazione alterata, la meno
propizia alla sua estrinsecazione e gli istituti di pena non sono certo i luoghi di incubazione di
sentimenti e di gesti elevati. A volte sembra che il sesso nella vita del detenuto non abbia più importanza. Dichiara uno di essi:
«Il sesso? No. Non ci pensavo proprio in un primo momento. Pensavo solo: cosa mi faranno? Ero
attanagliato da un'ansia continua e non sapevo di cosa. Sessualmente ero di colpo diventato
asessuato». A questo iniziale stadio psicologico di angoscia e di disperazione generalmente farà
seguito una forma affettiva compensativa, per esempio verso il carcere in sé che verrà ad assumere
la veste della famiglia protettiva: ora paterna, ora materna e in ambedue i casi con quei connotati
tipici di una sindrome morbosa fondamentalmente infantilistica. Dall'inibizione sessuale, dunque, all'adattamento completo al sistema internante; da una
estrinsecazione traumatica delle componenti libidiche all'assuefazione di movimenti erotico-affettivi che percorrono circuiti coartati e fino allora desueti che riconfermano l'accettazione
negletta dello status quo da parte del malcapitato che, in posizione supina, impara a conoscerlo. Le statistiche parlano chiaro e abbiamo dati attendibili dalla inchiesta di Bolino e De Deo (vedi: Il sesso nelle carceri italiane): la pratica omosessuale è dell'81% tra i soggetti ventenni e del quasi
40% tra i soggetti di 40 anni! Cifre sbalorditive che lo sono ancora di più se si tiene in
considerazione il fatto che l'età media degli internati oggi è sui 35 anni (dieci anni fa era sui 50),
cioè proprio quella fascia di età sulla quale purtroppo non ho recuperato dati specifici, ma che
comunque non lascia dubbi sulle tendenze ad una sessualità di ripiego. Già attorno al 1900 il dottor
H.D. Wey, medico all'Elmira Riformatory di New York, scriveva al famoso Havelock Ellis: «La
sessualità è uno degli elementi più preoccupanti con cui abbiamo a che fare. Non so con esattezza
quanti prigionieri dediti a pratiche omosessuali abbiamo quì. Nei momenti di pessimismo sarei
disposto a pensare che tutti siano invertiti; ammettendo che siano solo 1'80%, sarei molto vicino
alla verità». Cosi sull'argomento si è venuto a produrre un vastissimo filone cinematografico e letterario non
esclusivamente pornografico. Film come «Diario segreto da un carcere femminile» di R. Di
Silvestro; «Prigione di donne» di B. Rondi; opere teatrali come «Alta sorveglianza» di J. Genet -
dramma recentemente messo in scena e con un certo successo dai detenuti del carcere di Spoleto. E
ancora Balzac ne fa argomento del suo romanzo «L'ultima incarnazione di Vautrin»; Dostoievsky
in un racconto ambientato nelle galere siberiane che ha come personaggio chiave l'ambiguo
Sirotkin, e il francese Bouchard che in «Confessions», descrive i costumi sessuali irregolari nel
carcere di Marsiglia nel 1630. Intanto una compiacente bambola di gomma gonfiabile, con tutti i buchi al posto giusto, si aggira
nel carcere di Hamburg; Willy Geiss e Manfred Kock vivono come marito e moglie nella stessa
cella di un carcere tedesco e le riviste porno - ma non solo quelle! - circolano e vanno a ruba nelle
carceri italiane. Dice un ex detenuto: «Quando sono uscito ero un altro. Non avevo più erezioni con mia moglie.
Non riuscivo più a scopare. Ero retrocesso!». E a volte è cosi drastico tale disadatta mento alla vita
civile e così problematico riscoprire le vie ad una sessualità volontaria che l'ex detenuto finisce
spesso per attuare (forse a livello incoscio) un nuovo atto criminale che gli permetta un veloce
ritorno dietro le sbarre ed alla latenza socio-sessuale ombrosa indotta da quella istituzione
terrificante che è il penitenziario, il sepolcro dei vivi. Nel 1887 Nietzsche scriveva in «Genealogia della morale»: «Quello che la pena, nel complesso,
può aver fatto acquisire all'uomo è l'incremento della paura, l'acuirsi della scaltrezza, una diversa
gestione dei desideri: in questo modo la punizione «addomestica» l'uomo, ma non lo rende
«migliore» - anzi, con più diritto, si potrebbe affermare il contrario». Ma gli uomini del nostro tempo sono capaci di ragionare?
|