Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 12 nr. 106
dicembre 1982 - gennaio 1983


Rivista Anarchica Online

Sesso in gabbia
di Mario G. Verdini

La prigione, le circostanze cruente dell'emarginazione e dell'esclusione stereotipata, fanno notizia. I settimanali di mezzo mondo dedicano all'argomento sconvolgenti reportages ed emblematiche istantanee, mentre i quotidiani italiani sono letteralmente subissati da comunicati di agenzia che riportano (quasi loro malgrado!) di giornaliere alterne violenze, di omicidi brutali, di pestaggi feroci, di rinvenimenti agghiaccianti e di ben altre stupefacenti illegalità, di arbitri e di corruzioni che si verificano all'interno del recinto internante.
La situazione è a dir poco esplosiva: circa 37mila presenze contro soli 24mila posti-letto, in un dato giorno, e circa 100mila ingressi in un solo anno! Attualmente (agosto c.a.) sono detenute 34mila persone mentre il sistema, come dicevamo, ne può reggere circa 24mila: un surplus cioè di 10mila detenuti.
Lo Stato intende provvedere, manco a dirlo, costruendo nuovi istituti di pena più efficienti, funzionali, inattaccabili, inviolabili, delle vere e proprie case-matte, costosissimi per giunta. Nell'arco di questo 1982 saranno istituiti complessivamente 1250 nuovi posti; così, mantenendo lo stesso ritmo, il posto vuoto dei 10mila sarà colmato nel 1990. «Ma le statistiche», scrive La Repubblica del 27 agosto, «ci dicono che i detenuti sono in aumento progressivo: 30mila a dicembre del 1980, 36mila a dicembre dell'81, 34mila a luglio dell'82 ad appena 7 mesi dall'amnistia. Di questo passo nel 1990 saremo ad oltre 60mila detenuti e a nulla serviranno i 10mila posti nel frattempo costruiti.».
Le difficoltà generate da una simile situazione sono continuamente denunciate dai reclusi che chiedono più umane condizioni di vita e alle volte in modo clamoroso come è accaduto in questi giorni di fine estate nel carcere di Rovigo, dove tutti i prigionieri hanno tenuta sveglia la cittadina per una notte intera con le canzoni della resistenza partigiana. Ora un fatto nuovo si affaccia all'orizzonte. Un fatto inedito in Italia ma non inaudito, anzi, sicuramente destinato ad aumentare la sua portata di contestazione, la sua importanza sociale e l'urgenza che riveste. Ora i detenuti sono in agitazione per rivendicare il loro diritto ad esprimere la propria sessualità, diritto che è strettamente collegato alla lotta più vasta per la dignità individuale e per il rispetto della figura umana sia essa perseguita o meno. Forse proprio per questo essa rimarrà una rivendicazione inascoltata e spietatamente elusa dagli organi di Stato preposti: non è ancora nei programmi di uno Stato retrivo quanto solo può esserlo uno cattolico, riconoscere il diritto del recluso ad una piena sessualità volontaria.
Parlare del carcere è parlare ad un tempo della crudeltà sistematica che caratterizza lo Stato. Di questo il carcere è l'istituzione totale più appariscente e assestata, la concretizzazione di quella attenzione d'ufficio che si rivolge più spesso al cosiddetto colpevole che alla vittima, ponendo questa ultima in un secondo piano. Lo scopo primario dell'istituzione penitenziaria è quello di operare una serie di trasformazioni sulla personalità del prigioniero che siano funzionali al sistema interno carcerario nel periodo di detenzione e, in un momento successivo, dopo la scarcerazione, funzionali grosso modo al sistema civile di produzione e di consumo in cui questi dovrà reintegrarsi.
Tuttavia sarà duro il rientro in società per un uomo che ha l'esperienza carceraria. Le umiliazioni che ha subito, la metodica spersonalizzazione, la neutralizzazione della volontà che egli ha conosciuto, la solitudine e l'angoscia, l'intima convinzione della dissipazione della propria vitalità e il terrore che quell'uomo ha scandagliato per ore e ore interminabili e immutabili hanno lasciato in lui un segno indelebile, un marchio a fuoco, indizio del vinto e del bandito.
E' stato dimostrato che a un maggior grado di adattamento alla vita della prigione corrisponde un maggior disadattamento alla vita esterna. Il dilemma viene affrontato da T. Morris in questi precisi termini: «Non si può insegnare agli uomini ad accettare delle responsabilità sociali che, spinte agli estremi, li inducono ad uno stadio di dipendenza pressoché infantile». Come dire che la socializzazione in questi istituti consiste nell'avviare nel prigioniero un processo involutivo deabilitante soprattutto per quanto concerne la psiche. In certe galere vige addirittura la proibizione di fare uso di oggetti e di indumenti personali, oggetti e indumenti che potrebbero rappresentare per il coatto un fascinoso richiamo, sia pure diluito, alle forme di vita precedenti l'arresto e la cattura, un richiamo costante alla sua età umana.
Fuori egli faceva parte di una famiglia, svolgeva un lavoro più o meno di proprio gradimento, apparteneva ad una comunità con tutta quella ampia gamma di interessi, di interrelazioni con persone di ogni tipo. Dentro al carcere, invece, tutti questi normali legami sono recisi di colpo. Fuori la maggior parte degli esseri intrattiene delle relazioni socio-sessuali scelte indipendentemente da ordini espliciti esterni: relazioni e contatti più o meno duraturi, soddisfacenti e solitamente con partner dell'altro sesso. In carcere, invece, le relazioni sociali e le relazioni sessuali che si stabiliscono sono esclusivamente temporali - a seconda della durata della detenzione - e sono o indotte in modo subdolo o chiaramente obbligatorio, cioè in base alla cella assegnata, al raggio, all'ora di aria, dalle operazioni manuali che dovrà svolgere, dai permessi di cui godrà, o alle punizioni che gli saranno inflitte.
In carcere - immagine opaca, ritratto senza fondo delle contraddizioni, luogo geometrico e assurdo della sopraffazione, dell'odio e della paura - le relazioni socio-sessuali, inoltre, possono essere soltanto di natura omosessuale.
Oscar Wilde nel saggio «L'anima dell'uomo sotto il Socialismo» scriveva: «Leggendo la storia, non sui testi di scuola ma consultando le fonti originali di ogni epoca, si resta veramente disgustati, non per i crimini commessi dai cattivi, ma per le punizioni inflitte dai buoni. Una comunità è molto più violenta per l'impiego abituale delle punizioni che per i crimini sporadici che vi si verificano». E i «buoni» - fuori come in carcere - sono quelli «docili come animali domestici»: non è forse l'etica generale del reclusorio quella di rendere inermi i reclusi? Solo chi si adatta a questo letto di Procuste che è la consuetudine più silenziosa sarà salvo. In carcere, insomma, il prigioniero buono, quello ravveduto, è quello che si rimbocca la maniche e collabora con il poliziotto che cerca di trasformalo; il detenuto modello è quello che di fronte al sistema reclusorio si adatta e si rinnega in toto, quello che si uniforma alle norme e assume un comportamento d'ora in poi per sempre prevedibile, un metodo comportamentale che non riserbi spiacevoli sorprese. Il sistema carcerario, quindi, opera tecnicamente affinché il prigioniero si identifichi con l'atmosfera e interiorizzi le regole della prigione e perché, alla fine, smarrisca ogni impulso d'attrazione verso la società per come è stata concepita all'esterno di quelle mura grige. A questo scopo il coatto viene continuamente sottoposto a controlli dall'alto, a regolamentazioni dettagliate e pedanti e a improvvisi loro mutamenti. Egli viene privato completamente di ogni sua antica certezza, della sua reale individualità, di ogni sua personale facoltà di decisione, espropriato della sua autonomia, pressoché lobotomizzato, sottoposto al lavaggio del cervello e ridotto allo stato di bambino indifeso, incapace di provvedere a se stesso e, come prescrive la morale sessuofoba corrente, gli viene negata anche una realtà sessuale che non sia quella di ripiego, cioè promiscua, immaginifica, sotterranea ed oscura. Non si può che prendere atto di quanto in proposito scrive G. Salierno, studioso dell'argomento del carcere in Italia. Dice: «Per ciò che attiene, poi, specificamente alla omosessualità carceraria, è da considerare che l'adesione a essa, da parte del recluso, non avviene per una scelta, ma per coartamento istituzionale. Non si può, quindi, parlare di orientamento, bensì di schiavitù sessuale.».
M. Grünhut ha dimostrato che la maggior parte dei prigionieri esaminati, così come buona parte dei reclusi in istituzioni totali, sia manicomi che caserme, sia collegi che monasteri, soffriva di «vuoti mentali», di «deterioramenti psico-fisici», di una «diminuzione di memoria», di «incapacità di concentrazione», della tendenza alla fusione tra reale e irreale, all'illusione e all'autoinganno, alla sublimazione e al mistico schizoide e demenziale.
Un impulso naturale e necessario al corpo umano ed alla sua psiche come quello sessuale, fatto uscire dalla porta rientra per forza di cose dalla finestra, ma trova una situazione alterata, la meno propizia alla sua estrinsecazione e gli istituti di pena non sono certo i luoghi di incubazione di sentimenti e di gesti elevati.
A volte sembra che il sesso nella vita del detenuto non abbia più importanza. Dichiara uno di essi: «Il sesso? No. Non ci pensavo proprio in un primo momento. Pensavo solo: cosa mi faranno? Ero attanagliato da un'ansia continua e non sapevo di cosa. Sessualmente ero di colpo diventato asessuato». A questo iniziale stadio psicologico di angoscia e di disperazione generalmente farà seguito una forma affettiva compensativa, per esempio verso il carcere in sé che verrà ad assumere la veste della famiglia protettiva: ora paterna, ora materna e in ambedue i casi con quei connotati tipici di una sindrome morbosa fondamentalmente infantilistica.
Dall'inibizione sessuale, dunque, all'adattamento completo al sistema internante; da una estrinsecazione traumatica delle componenti libidiche all'assuefazione di movimenti erotico-affettivi che percorrono circuiti coartati e fino allora desueti che riconfermano l'accettazione negletta dello status quo da parte del malcapitato che, in posizione supina, impara a conoscerlo.
Le statistiche parlano chiaro e abbiamo dati attendibili dalla inchiesta di Bolino e De Deo (vedi: Il sesso nelle carceri italiane): la pratica omosessuale è dell'81% tra i soggetti ventenni e del quasi 40% tra i soggetti di 40 anni! Cifre sbalorditive che lo sono ancora di più se si tiene in considerazione il fatto che l'età media degli internati oggi è sui 35 anni (dieci anni fa era sui 50), cioè proprio quella fascia di età sulla quale purtroppo non ho recuperato dati specifici, ma che comunque non lascia dubbi sulle tendenze ad una sessualità di ripiego. Già attorno al 1900 il dottor H.D. Wey, medico all'Elmira Riformatory di New York, scriveva al famoso Havelock Ellis: «La sessualità è uno degli elementi più preoccupanti con cui abbiamo a che fare. Non so con esattezza quanti prigionieri dediti a pratiche omosessuali abbiamo quì. Nei momenti di pessimismo sarei disposto a pensare che tutti siano invertiti; ammettendo che siano solo 1'80%, sarei molto vicino alla verità».
Cosi sull'argomento si è venuto a produrre un vastissimo filone cinematografico e letterario non esclusivamente pornografico. Film come «Diario segreto da un carcere femminile» di R. Di Silvestro; «Prigione di donne» di B. Rondi; opere teatrali come «Alta sorveglianza» di J. Genet - dramma recentemente messo in scena e con un certo successo dai detenuti del carcere di Spoleto. E ancora Balzac ne fa argomento del suo romanzo «L'ultima incarnazione di Vautrin»; Dostoievsky in un racconto ambientato nelle galere siberiane che ha come personaggio chiave l'ambiguo Sirotkin, e il francese Bouchard che in «Confessions», descrive i costumi sessuali irregolari nel carcere di Marsiglia nel 1630.
Intanto una compiacente bambola di gomma gonfiabile, con tutti i buchi al posto giusto, si aggira nel carcere di Hamburg; Willy Geiss e Manfred Kock vivono come marito e moglie nella stessa cella di un carcere tedesco e le riviste porno - ma non solo quelle! - circolano e vanno a ruba nelle carceri italiane.
Dice un ex detenuto: «Quando sono uscito ero un altro. Non avevo più erezioni con mia moglie. Non riuscivo più a scopare. Ero retrocesso!». E a volte è cosi drastico tale disadatta mento alla vita civile e così problematico riscoprire le vie ad una sessualità volontaria che l'ex detenuto finisce spesso per attuare (forse a livello incoscio) un nuovo atto criminale che gli permetta un veloce ritorno dietro le sbarre ed alla latenza socio-sessuale ombrosa indotta da quella istituzione terrificante che è il penitenziario, il sepolcro dei vivi.
Nel 1887 Nietzsche scriveva in «Genealogia della morale»: «Quello che la pena, nel complesso, può aver fatto acquisire all'uomo è l'incremento della paura, l'acuirsi della scaltrezza, una diversa gestione dei desideri: in questo modo la punizione «addomestica» l'uomo, ma non lo rende «migliore» - anzi, con più diritto, si potrebbe affermare il contrario».
Ma gli uomini del nostro tempo sono capaci di ragionare?