Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 229
estate 1996


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Piccola apocalisse
di Elena Petrassi

Era l'alba del secondo millennio, la prima alba. Un uomo vestito di nero aprì un portone e scese per strada. Faceva freddo ma lui sembrava non curarsene. Camminò a lungo rasente ai muri, guardandosi intorno di rado, era assorto non in pensieri, ma nella loro mancanza. Non sapeva neppure perché fosse uscito, non ce ne era bisogno, sapeva soltanto di doverlo fare.
Quando arrivò nella grande piazza cinta da alberi malconci e rinsecchiti si fermò. Alzò la testa a guardare il cielo sempre più chiaro a est e le ultime stelle che la luce del giorno divorava. Sorrise a quello scenario di falsa quiete, poi si chinò ad aprire la custodia rigida ed estrasse il suo vecchio sax.
Lo pesò e lisciò con la mano sinistra come faceva sempre. Inspirò a fondo e portò lo strumento alle labbra. Ne uscì un suono dolente e lungo. Francesco chiuse gli occhi, continuò a suonare. Non era successo proprio nulla - si disse - siamo nel secondo millennio e non è successo nulla, la notte è passata come la notte qualsiasi che in effetti era. Le note del sax sembravano seguire il ritmo dei suoi pensieri, non c'era gioia in quella musica.
Non era successo nulla quella notte, non sarebbe accaduto nulla quel giorno. Quel che doveva accadere, la balcanizzazione dell'Europa, la crisi energetica, le ondate migratorie inarrestabili, tutto quello era già storia. Tutto accadde alla fine del 1996, Milano una città perduta, conquistata dopo un breve assedio, gli amici morti o finiti chissà dove, lei solo un nome e un fascio di lettere ingiallite.
Quanto gli mancava la sua voce, un giorno l'aveva registrata di nascosto mentre parlavano di cose qualsiasi e poi mentre lei cantava una vecchia canzone della loro infanzia. Negli anni a venire quel nastro sarebbe stato ascoltato fino allo stremo, ma con gli occhi chiusi poteva almeno fingere di averla vicina.
Mentre lui continuava a suonare, da un palazzo poco lontano un cecchino stava prendendo la mira.
Ma non sparò subito, decise di aspettare che la musica finisse, perché l'uomo col sassofono non poteva sfuggirgli, era al centro della piazza, solo. O forse poteva non sparargli, la sua musica era così bella, così bella. Gli arrivava dritta in certi luoghi dell'anima che credeva disabitati da sempre. E quella musica malinconica gli parlava di cose perdute, di visi dimenticati, di quella vita così diversa che aveva ormai lo spessore di un sogno.
Decise di lasciare che l'uomo suonasse ancora per un poco, poggiò il fucile sul pavimento, si sdraiò a pancia in su.
Da quella posizione vedeva un ritaglio di finestra e un lembo di cielo.
La musica si interruppe quando i primi raggi di sole arrivarono a colpirgli il petto.
Si alzò di scatto e imbracciò l'arma. L'uomo nella piazza era immobile il sassofono stretto tra le mani, immerso nella luce dorata del primo giorno di un millennio nuovo.
Come se lui l'avesse chiamato il sassofonista alzò lo sguardo verso la finestra; anche nella distanza ognuno sapeva che i propri occhi erano fissi in quelli dell'altro. Non si mossero, l'intera città respirava nella sua silenziosa rovina, era un giorno come un altro, buono per vivere, buono per morire.