Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 224
febbraio 1996


Rivista Anarchica Online

Alla ricerca della libertà
di Francesco Codello

Anche nell'educazione dei bambini è centrale il rapporto mezzi-fini

Uno dei più gravi limiti che si impone al nostro atteggiamento e al nostro comportamento di relazione con gli altri, deriva da un modo di intendere il rapporto che intercorre tra l'identificazione di un determinato problema e l'individuazione della soluzione per risolverlo.
Tra il problema (P) e la soluzione (S) intercorre sempre una certa dose di ansia. L'operazione che spesso facciamo è quella di trovare una soluzione all'ansia invece che risolvere il problema.
E' la scorciatoia dell'intervento immediato ma superficiale e molto spesso allontana la vera soluzione al problema dato.
Quando, di fronte ad un atteggiamento di un bambino che non trova la nostra approvazione, la reazione che mettiamo in atto è di reprimere questa manifestazione noi ci comportiamo esattamente così.
Troviamo cioè una soluzione ad un' ansia (quasi sempre a forte contenuto sociale e culturale) ma non rispondiamo in modo positivo ad un segnale o ad una richiesta precisa.
Diventa dunque fondamentale, nell'educazione, capire e comunicare in modo corretto.
Il problema vero dunque è «essere» non certamente «fare» i bravi genitori.
La dimensione esistenziale deve prendere il sopravvento su quella produttiva (cioè sul produrre comportamenti) in una prima fase. Di fronte ad un problema che si manifesta abbiamo il dovere di capire e conoscere, non certamente in un senso teorico ma di condivisione delle emozioni e dei sentimenti che ci sono, che «esistono» dentro i nostri figli.
Occorre cioè rivivere dentro di noi determinate esperienze per capire come un figlio soffra in determinate situazioni. Fare uno sforzo per «ricordare» che cosa abbiamo «sentito» noi in quella determinata circostanza.
Prendere coscienza che un certo atteggiamento di nostro figlio ci procura fastidio o rabbia perché l'abbiamo e lo produciamo anche noi, ci può aiutare a capire profondamente che il fastidio o la rabbia che proviamo riguarda noi più che nostro figlio; e cioè che il problema sta prima di tutto in noi e solo secondariamente in lui.
L'assunzione di questo stile, di questa prospettiva esistenziale e metodologica, farà sì che i bambini si sentano più sicuri e accettino più facilmente di essere «guidati» dai genitori perché avvertono che questi agiscono con naturalezza e autenticità e in base alla loro esperienza.
L'interpretazione che ogni bambino si fa del mondo (la sua conoscenza) deve molto a come il genitore vive nel profondo un determinato evento.
L'educazione, in sostanza, è soprattutto esempio e condivisione di esperienze.
Dobbiamo in verità essere in grado di abbandonare (temporaneamente e per poter sviluppare una analisi e una ricerca autentiche), di fronte ad un determinato problema causato dal figlio, il nostro schema di riferimento per entrare nel suo.
Il comportamento è lo strumento con cui influenzo gli altri. È necessario che la parte aperta di ognuno di noi (ciò che è noto a me e noto agli altri di me stesso) sia sempre più allargata e estesa sia verso la parte cieca (ciò che è ignoto a me ma noto agli altri) che verso la parte nascosta (ciò che è noto a me ma ignoto agli altri) e al contempo lavorare su se stessi su ciò che è ignoto a me e anche agli altri (inconscio).
Il timore che abbiamo di fare ciò deriva dalla non conoscenza delle reazioni dell'altro, di come cioè egli userà il suo potere nei nostri confronti.
Occorre sfidare queste paure e sconfiggerle restando noi stessi e immergendosi nel mondo degli altri, condividendo le loro realtà, i loro sogni, le loro paure e le loro ansie.
I bambini crescono a immagine e somiglianza dei comportamenti degli adulti. La società nella quale viviamo produce modelli di riferimento fortemente autoritari o fortemente permissivi, in sostanza modelli di illibertà.
Come si può pretendere che un bambino socializzi, sia aperto al mondo esterno, sorrida alla vita se la sua famiglia è rigidamente chiusa e guarda in cagnesco il mondo intero. Occorre capovolgere i nostri atteggiamenti, scoprire in ogni altro un viso, un corpo, delle emozioni, dei comportamenti.
Come è possibile pensare che un bambino impari, si autoeduchi, se dalla scuola scompare tutta la condizione della scoperta, della ricerca, della curiosità; se nella scuola si mortifica il suo naturale desiderio di muoversi e di esprimersi.
Si impara in realtà solo ciò che si desidera imparare. Oppure ci si addestra, che è comunque tutta un'altra cosa, che niente ha a che vedere con la vera istruzione e la vera educazione.
Gli adulti devono quindi aiutare il bambino ad imparare non insegnargli nulla. Devono favorire il suo essere, aiutarlo a far sì che acquisisca le necessarie abilità più che trasmettergli contenuti. Devono consentirgli di fare esperienze nella convinzione che ognuno deve farsi la sua esperienza perché non esiste al mondo un modo proficuo per trasmettere esperienze ma tanti modi per fare nuove esperienze.
Certamente è assolutamente dannosa per una vera educazione l'intenzione, più o meno esplicitata, di manifestare se stessi o, peggio, realizzare se stessi attraverso i bambini.
Questo fenomeno, non certamente nuovo nel palcoscenico della storia, è oggi ancor più presente.
L'unione tra due individui e la procreazione sono oggi indubbiamente il frutto di una scelta culturale, un aspetto (anche se non l'unico) della realizzazione del sè e ciò produce un carico di aspettative nei confronti dei bambini. Tutto questo può produrre alcuni effetti negativi: l'aumento della sensazione di proprietà del bambino; il desiderio che sia felice, bravo, stimato come proiezione dell'io come bravo genitore; l'aumento della sensazione di essere indispensabili; l'aumento della insicurezza affettiva, il bisogno di conferme e la culturalizzazione del «mestiere genitoriale»; l'aumento del processo di «adultizzazione» del bambino e la «bambinizzazione» dell'adulto e ciò produce la diminuzione dello specifico dell'adulto e quello del bambino, quindi la possibilità di trasgredire.
Viviamo con una generazione di bambini scarsa di numero e di relazioni tra loro. Il tempo della vita di ogni bambino è segnato dal tempo degli adulti. Non ci sono più (tranne pochi casi) momenti nei quali i bambini stanno tra loro senza la presenza della figura adulta sia essa rappresentata dal genitore, dalla televisione, da tutte le attività strutturate e fortemente adultizzate.
I genitori infine sono portati a vivere con grandi aspettative le «performance» dei figli mettendosi nella condizione di vivere il rapporto con i figli con crescente attese, ansie, maggiore fatica ad accettare l'errore, l'incertezza e l'insicurezza.
Questa adultizzazione del bambino produce certamente più aspettative, più richieste di prestazioni ma sicuramente meno scoperte autonome e libere e l'aumento dell'offerta di stimoli culturali, affettivi, relazionali rischia di soffocare l'individualità e di produrre un rapporto mai così strutturalmente autoritario.
Occorre invece lasciare più spazio ai bambini e alla loro naturale curiosità: anche la fatica, l'impegno, lo sforzo, la conquista e l'errore sono elementi positivi per la crescita che deve prevedere anche la possibilità di ribellarsi.
Nessuna disciplina può essere imposta con la forza. Non vi è dubbio alcuno che il modo migliore per diventare persone disciplinate è emulare l'esempio di qualcuno che si ammira, e non certo quello di sottoporsi ad una istruzione verbale, ne tanto meno quello di essere indotti ad un determinato comportamento con le minacce, con la logica dei premi e delle punizioni.
L'unica cosa che le punizioni insegnano ai bambini è che forza e diritto coincidono e quando saranno abbastanza grandi per poterlo fare e abbastanza forti per imporsi, cercheranno di rifarsi: ecco perché molto spesso tanti bambini «puniscono» i loro genitori assumendo comportamenti che addolorano i genitori.
Vi è quindi anche nell'educazione la centralità del rapporto mezzi-fini. Questione essenziale per l'anarchismo ed anche per la pedagogia libertaria. In questo contesto va ribadita l'importanza fondamentale dell'esempio. Ciò non ci esime dal disapprovare un determinato fatto, ma mai estendere la disapprovazione alla persona («quello che hai fatto non mi piace, non tu non mi piaci!).
Lasciare una porta aperta al dialogo spiegando ad un bambino che, pur disapprovando quello che ha fatto, ci rendiamo conto che secondo il suo punto di vista era giustificato, è molto più produttivo e giusto che non risolvere tutto con lo schema tradizionale della colpa e del peccato.
Questo perché questo modo di comportarsi da parte dei genitori non intacca il rispetto di sè e l'amore che ha per noi.
Solo l'esempio che possiamo dare del nostro modo di essere e di agire indurrà i nostri figli a integrare nella loro personalità anche lo stesso tipo di comportamento: solo il nostro esempio conta, a condizione però di essere autentici, e di non imporre loro i nostri valori, né di pretendere che seguano il nostro esempio prima che siano pronti a farlo, nel rispetto della loro naturale evoluzione.
Dobbiamo infatti mantenere intatta, sempre, in ogni momento la convinzione della loro bontà, riconoscendo che occorre tanto tempo perché crescano insieme a noi.
È necessario infine che non ci venga mai meno la disponibilità e la capacità di soppesare dentro di noi le possibili motivazioni dei bambini che vivono con noi, se vogliamo cogliere le ragioni del loro comportamento, le cause che lo determinano, gli scopi che si prefiggono.
E' l'empatia l'essenza del rapporto educativo. È importante che l'adulto possa comprendere un bambino. Per farlo bisogna considerare l'altro come pari e diverso al tempo stesso. Non uguali per il sapere, l'intelligenza o l'esperienza e men che meno per l'insieme delle risposte date ai problemi della vita. Simili invece rispetto ai sentimenti e alle emozioni che ci muovono tutti, adulti e bambini. Questo comporta che si abbia familiarità con tutta la gamma dei nostri sentimenti, anche con quelli che non ci sono abituali o con quelli che si mettono in atto al momento. Instaurare un rapporto di empatia significa mettersi nei panni dell'altro, intuire non solo le sue emozioni ma anche le sue motivazioni. Significa capire e comprendere l'altro dall'interno non certo capire i motivi dell'altro con l'intelletto.

Alcuni suggerimenti bibliografici

  • Bruno BETTELHEIM - Un genitore quasi perfetto - Feltrinelli
  • Alexander S. NEILL - Il genitore consapevole - Forum Editoriale
  • Marcello BERNARDI - Gli imperfetti genitori - Rizzoli
  • Roberto DENTI - Conversazioni con Marcello Bernardi - Eléuthera
  • Michel GHAZA - Mangia la minestra e...taci! - Ed. Gruppo Abele
  • H. BESSEL, T.P. KELLY jr - Puoi contare su di me - Red Edizioni