Rivista Anarchica Online
Parla come mangi
di Carlo Oliva
Se una lingua "sparisce" vuol dire che i suoi parlanti non hanno più la necessità di parlarla
Tra le tante prospettive di catastrofe che incombono su questa fine di millennio, ce n'è una cui francamente non
avevo mai
pensato, ma su cui mi sembra valga forse la pena di soffermarsi un momento. L'ho trovato denunciata in un vecchio
articolo del Manifesto (del 7 novembre scorso): è quella dell'estinzione di un congruo numero di lingue attualmente
parlate
sulla superficie del pianeta. L'autrice del pezzo in questione, Giuseppina Ciuffrida, non è forse una delle notiste
più note
del leggendario "quotidiano comunista" e l'articolo non ha certo fatto un gran rumore (si tratta di uno di quegli interventi
di varia cultura ecologica che in quella sede vengono normalmente pubblicati in appendice alle previsioni del tempo), ma
l'argomento che affronta è più importante di quanto non paia. Vi ci si riferisce delle denunce di tale
professor Michael
Krauss, dell'Alaska Native Language Center dell'Università di Fairbanks, che, intervistato dalla sezione esperantista
di
Radio Radicale (un'emittente, a mio avviso, cui nessuno studioso serio dovrebbe concedere un'intervista, ma probabilmente
in Alaska non lo sanno), ha dichiarato che "il novanta per cento delle nostre lingue, forse il novantacinque per cento,
saranno estinte entro i primi cent'anni del Duemila. Ne sopravviverà un cinque per cento, riferito al massimo a
venti
famiglie genetiche". La denuncia non è nuova, ma merita di esser presa in considerazione, se non altro
perché è formulata
al di fuori dei vari contesti nazionalisti o regionalisti in cui normalmente alligna: di fatto, il processo è messo
esplicitamente
in connessione con quello, ben noto, e ideologicamente assai più interessante, della progressiva sparizione di specie
animali
e vegetali: "La nostra vita dipende da un ecosistema, da un tessuto vitale del quale piante e animali sono parte importante.
Ma siamo davvero certi che le nostre seimila lingue non siano parte essenziale del sistema intellettuale e sociale da cui
dipende la nostra umanità?". Formulata in questi termini, la domanda ammette una sola risposta, soprattutto
perché corroborata, subito dopo, con
l'argomento per cui "tipi diversi di esperienze umane, differenti capacità di comprendere, di avere idee, vengono
e
preservati nella lingua." Ovvero che "le lingue hanno in sè una conoscenza del mondo." Invece dell'esempio che
si fa
normalmente in questi casi, quello dei non so più quanti modi per definire la neve e i suoi diversi stati presenti nella
lingua
eskimese (come ben sanno le centinaia di migliaia di lettori del Senso di Smilla per la neve), il professor Krauss cita certe
lingue indigene del Sudamerica che "contengono la conoscenza delle piante medicinali", ma il senso è sempre
quello: "ogni
volta che perdiamo una lingua, perdiamo anche dei modi diversi di guardare il mondo." Chi si diletta di linguistica
riconoscerà l'eco di una teoria celebre qualche anno fa, la cosiddetta ipotesi Whorf-Shapir, una
teoria la cui validità scientifica è forse un po' meno ovvia di quanto suoni a prima vista, ma che fa ormai
parte del
patrimonio standard delle conoscenze correnti in materia. Ma non starò a tediarvi su questo, anche se l'articolo
del
Manifesto ha suscitato in me qualche nostalgia di quando mi occupavo della materia con maggior fervore di oggi. Il fatto
è che il professor Krauss tira in ballo, senza parere, una bella quantità di problemi. Il primo dei quali
è forse quello che a
lui (e non solo a lui) potrebbe sembrare una pura ovvietà, perché dire che il numero delle lingue diminuisce
è
un'affermazione, nonostante tutto, abbastanza azzardata. Per dire che oggi esistono meno lingue di ieri, bisognerebbe
poterle contare ieri e oggi, ma come facciamo a contare le lingue? La lingua è un oggetto difficile: ti sfugge
dalle mani e rilutta alle definizioni, soprattutto a quelle di tipo esclusivamente
linguistico. In Italia parliamo tutti l'italiano, naturalmente, salvi gli allofoni, ma niente e nessuno ci impedirebbe, se lo
volessimo, di distinguere questo italiano in almeno due lingue: l'italiano del nord e quello del centro-sud, e non tanto per
fare piacere ai nostri nuovi amici e alleati della Lega, quanto perché nell'uso moderno i parlanti delle due aree
impiegano
due sistemi fonetici nettamente diversi (infatti chiunque li può agevolmente distinguere a primo udito, per quanto
scarsa
sia la sua cultura linguistica), per non dire di peculiarità sintattiche e lessicali di un certo peso (che so: a nord
è
praticamente scomparso il passato remoto mentre nel centro-sud nessuno si sognerebbe di usare il passato prossimo per
gli eventi preteriti, e così via). E l'italiano è una lingua codificata, che si insegnasi, più o meno,
nelle scuole e si appoggia
a una letteratura riconosciuta. Ma come la mettiamo con i dialetti, che in nulla differiscono strutturalmente dalle lingue
comunemente dette? Si può parlare di dialetto lombardo o di dialetto milanese, anche se il secondo è
contenuto ovviamente
nel primo e corre voce che certi vecchi ambrosiani siano perfettamente in grado distinguere il milanese di Porta Monforte
da quello di Porta Magenta. E a Mantova, si sa, si parla un lombardo ostensibilmente diverso di quello di Sondrio. Di
solito ce la si cava parlando di "aree di intercomprensione reciproca" (zone in cui, all'ingrosso, i nativi si capiscono tra
di loro senza interprete o vocabolario) ma non è detto che, nell'area italiana, un goriziano si intercomprenda
reciprocamente
con un cittadino di Agrigento, mentre un indigeno delle valli occitaniche del Cuneese (in Italia) ha pochissime
difficoltà
a capire cosa dice un provenzale, per quanto in Francia. E così via. Il fatto è che le lingue, strano ma
vero, non esistono. Sono semplicemente degli insiemi di operazioni (mentali e fisiche)
compiute con certi scopi precisi da certi gruppi di persone e sono individuate a partire dai criteri (che, più che
linguistici,
di solito sono politico-aministrativi) con cui vengono normalmente individuati i gruppi relativi. Anzi, visto che all'interno
dei gruppi così definiti convivono infiniti usi linguistici diversi, un guazzabuglio di gerghi, dialetti, abitudini e
affezioni
di gruppo o individuali, la loro "lingua" è sempre definita, stringi stringi, con un atto d'imperio, di solito assumendo
a
norma l'uso del sottogruppo che dispone di maggiore potere o prestigio. E ogni sistema così definito ha un'inesausta
capacità di suddividersi in sottosistemi o aggregarsi in soprasistemi, ciascuno dei quali, con diverso, ma parimenti
legittimo,
atto d'imperio potrà essere a sua volta assunto come una "lingua", e così via all'infinito. Il tutto è
un po' complicato, ma
a esistere, per fortuna, sono i soggetti parlanti, non le cose parlate. E mentre finora nessuno è riuscito a dimostrare
che in
questo campo a operazioni fisiche diverse (come parlare in "italiano" o in "turco") corrrispondano diverse procedure
mentali, il fatto che i testi italiani e turchi siano in buona misura traducibili tra loro fa pensare che, almeno in altrettanta
misura, le operazioni mentali siano le stesse, e comunque è poco ma sicuro che le comunità umane
modificano
continuamente la propria lingua in base alle esperienze e alle necessità, per cui un gruppo di indios sudamericani
trasferiti
in Alaska continueranno a parlare la loro lingua, ma lasceranno presto o tardi cadere la terminologia relativa alle piante
medicinali della giungla natia e svilupperanno, come i loro confratelli eskimesi, una ricca semantica della neve. Per
cui, arriviamo al punto, se una lingua "sparisce" vuol dire che i suoi parlanti non hanno più necessità di
parlarla, magari
perché si sono integrati in una comunità linguistica più vasta, perché vivono esperienze
diverse e hanno diverse necessità,
perché frequentano le scuole, guardano la televisione, leggono i giornali e interagiscono con gruppi umani diversi
da loro,
tutte cose, in sè, tutt'altro che negative. Non è detto, naturalmente, che, come succede di solito, debbano
essere assorbiti
da gruppi più potenti: potrebbero evolvere la loro stessa lingua nel senso desiderato, ma dal punto di vista teorico
la cosa
avrebbe ben poca importanza: la lingua evoluta sarebbe comunque diversa, "altra", da quella tradizionale. La lingua
tradizionale non esisterebbe più. E allora, vedete che le preoccupazioni del professor Krauss ci hanno portato
in un campo più vasto e controverso, perché
la "ricchezza" delle lingue corisponde fatalmente alla separatezza (se posso usare questo orribile neologismo) delle
comunitÀ che le parlano, e la separatezza spesso corrisponde a una gerachicizzazione, alla subordinazione degli
uni sugli
altri, a differenze anche cospicue di livelli di vita. Il problema si ripresenta pari pari ogni volta che si afferma la
necessità
di conservare qualcosa: non è detto che una "ricchezza" (con le virgolette) di categorie astratte corrisponda senza
residui
a una ricchezza (senza le virgolette) dei soggetti concreti. C'è molto da dire (e molto, di solito, si dice) a favore
di chi lotta
per conservare differenze, peculiarità e caratteristiche linguistiche, comportamentali. culturali, religiose e che altro,
ma
qualche parola forse varrebbe la pena di spendere a pro di quei processi di integrazione che sviluppano, o cercano di
sviluppare, o forse, se ci stiamo attenti, svilupperanno qualcosa di nuovo che ci coinvolga tutti. Per non dire che se
è vero che tutto ciò che vive, secondo la nota massima di Engels, "merita" di morire, non si vede
perché
si dovrebbe fare eccezione per le lingue, che d'altronde, in certi casi, potrebbero sopravvivere solo come "fossili viventi",
a patto di tenere le comunità che le parlano in condizioni artificiose di isolamento, in una specie di zoo glottologico
che
non mi sembra bello augurare a nessuno. C'è poi un'ipotesi ottimale-ottimistica, per occuparsi della quale qui
manca lo spazio, ma sulla quale cercherò di tornare
quanto prima: è quella per cui tutti conservano la loro ricchezza nativa, ma si comprendono perfettamente lo stesso
l'uno
con altro, perché parlano anche l'esperanto o una seconda lingua comune o qualcosa del genere. Siamo, all'ingrosso,
dalle
parti della famosa categoria della botte piena e della moglie ubriaca, ma, in fondo, perché no? Il guaio è
che di solito i
tentativi di "superare" contraddizioni di questo genere, invece di affrontarle nel loro significato, si limitano a generarne
di altre, come la stessa esperienza esperantista credo possa dimostrare. Uno zoo è uno zoo, anche se ci si chiude
dentro di
propria volontà.
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