Rivista Anarchica Online
Astensione: sì o no?
di AA. VV.
La citazione di John Stuart Mill che potete leggere qui a fianco, scelta dal circolo anarchico «Ponte della
Ghisolfa» per aprire il proprio intervento, va benissimo anche per illustrare lo spirito con il quale apriamo,
con questi primi cinque interventi, il dibattito sull'astensionismo, sul voto, sui referendum, sulle liste locali,
ecc. ecc. La posizione espressa in merito dalla nostra rivista, nel quarto di secolo della sua esistenza, si
è sempre
collocata nel solco dell'astensionismo anarchico - anche per quel che riguarda i referendum. Ne sono
testimonianza anche le numerose copertine che abbiamo dedicato alla questione. Il dibattito che comunque
apriamo con questi primi interventi è aperto più che mai a tutti
Niente scorciatoie Per quanto chi è fermamente convinto di un'opinione ammetta a malincuore
la possibilità che sia falsa, dovrebbe essere stimolato dalla considerazione che, per vera che essa
sia, se non la sidiscute a fondo, spesso e senza timore, finirà per essere creduta un freddo dogma,
non una verità attuale. (John Stuart Mill: «Saggio sulla libertà»)
Ci siamo astenuti anche in occasione di queste elezioni amministrative e abbiamo fatto il possibile per
convincere il più gran numero di persone a fare altrettanto. Le elezioni non sono altro che un rito, ben
orchestrato, per legittimare il dominio di pochi (non importa il loro colore politico) su tutti; chi vota si
annulla, cessa di esistere, viene «rappresentato». Noi anarchici aspiriamo ad una società senza
dominio, dove ognuno sia padrone del proprio destino: rifiutare
le elezioni è il primo, elementare atto di testimonianza di questa tensione ideale. Niente di nuovo,
il solito astensionismo anarchico. E invece no. Il nostro astensionismo non è l'obbedienza ad una
«tradizione», ad un dogma: è il risultato di un
continuo riesame della teoria anarchica, un processo senza soste che rende sempre attuali i principi di
libertà,
uguaglianza, solidarietà. La validità della scelta astensionista non la ricaviamo dai «sacri testi»,
ma la
verifichiamo tutti i giorni. Che cos'è tangentopoli se non l'ennesima, colossale truffa dei governanti (di
ogni
partito) a danno dei governati? E che cos'è la «seconda repubblica» se non l'esaltazione delle spinte
più
autoritarie e liberticide che erano presenti nella prima? Qualcuno, pur condividendo queste analisi, potrebbe
obiettare che tra gli schieramenti che si contendono il
dominio ci sono delle differenze di programma abbastanza importanti e che non possiamo rimanere
insensibili di fronte all'eventualità che vinca chi vuole restringere gli spazi di libertà, realizzare
una politica
antipopolare, ecc. ecc. Bisognerebbe quindi, pur sapendo che sarebbe una contraddizione, votare per chi è
«meno peggio». Non ci siamo, non ci siamo proprio. Basta guardare ai balletti tra Lega e Forza Italia, tra
Lega e PdS, tra PPI e
PdS, tra PPI e Forza Italia, e chi passa dalla Rete ad AN, al segretario del PdS che stringe la mano a quello di
AN, al burocrate Prodi spacciato per un simpatico pacioccone, e potremmo continuare ancora ... L'odiato
nemico di oggi sarà il fedele alleato di domani e viceversa; i politicanti sono sempre disposti a tutto pur
di
accaparrarsi potere. Il trasformismo è la norma, altro che differenze tra gli schieramenti. Nonostante
la riforma del sistema elettorale, il numero delle astensioni è cresciuto e crediamo crescerà
ancora: è possibile dare uno sbocco alla montante sfiducia nelle istituzioni, prima che dalla sfiducia si
passi
all'apatia. Proponiamo, assecondiamo (e tentiamo di costruire) degli spazi decisionali locali da contrapporre
a quelli
ufficiali (di quartiere, di città, di paese, ecc.) all'interno dei quali la gente possa riaccostarsi alla politica,
alla
gestione della «cosa pubblica» direttamente, senza mediazioni dei partiti e delle istituzioni; dove sia possibile
riscoprire il piacere del confronto e della discussione «viso a viso»; togliamo allo stato il potere di organizzare
la nostra vita, non aspettiamo il giorno per giorno. Solo la presenza sul territorio di un movimento anarchico
il più forte e radicato possibile garantirà dai
tentativi di riassorbimento istituzionale delle esperienze autogestionarie; è quindi necessario intensificare
la
propaganda, moltiplicare le iniziative, darsi da fare in poche parole. Ci rendiamo conto che si tratta di un
lavoro lungo e difficile, ma scorciatoie non ne esistono, potete crederci!
Circolo anarchico «Ponte della Ghisolfa» (Milano)
Adattare i principi
Penso che oggi un dibattito sull'astensionismo abbia
interesse esclusivamente se svolto in funzione di sgombrare
il campo da ogni posizione dogmatica o preconcetta. Sarebbe altrimenti la noiosa riproposizione di un dibattito
fine a sé stesso che a intervalli più o meno regolari ha visto contrapporsi sulle pagine dei giornali
e delle riviste
del movimento anarchico favorevoli e contrari. Si continuerebbe da una parte e dall'altra ad opporre il fideismo
malatestiano al realismo merliniano e in proposito basterebbe leggersi le belle pagine del libro di Berti su Merlino.
Del resto come gli astensionisti convinti potrebbero citare a loro favore i «sacri testi» gli altri potrebbero a loro
volta citare altre autorevoli fonti. Per esempio chi il 27 marzo dello scorso anno si è recato alle urne
per cercare di arginare una destra che
considerava pericolosa ed eversiva (la storia recente ci ha insegnato che le società democratiche possono
evolvere in regimi che negano e sopprimono quelle libertà sembrate fino ad un giorno prima intangibili
proibendo ogni propaganda e ogni organizzazione non conformista) potrebbe citare a suo favore persino
Bakunin che in un momento storico particolare in cui le libertà civili e politiche sembravano minacciate
non
solo rinunciò all'astensionismo ma incoraggiò gli stessi anarchici a partecipare alla lotta elettorale.
Si veda ad
esempio il manifesto elettorale pubblicato nel 1867 dalla società Libertà e giustizia
di Napoli da lui fondata o
la lettera indirizzata a Edoardo Gambuzzi del 16 novembre 1870 in cui il rivoluzionario russo scriveva: «Sono
lieto che tu sia tornato a Napoli per farti eleggere deputato, se possibile. Forse ti meraviglierai di vedere che
io, astensionista deciso e appassionato, spinga ora i miei amici a farsi eleggere deputati. Gli è che le
circostanze e i tempi sono mutati: sono diventati talmente seri, il pericolo che minaccia la libertà di tutti
i
paesi talmente formidabile che bisogna che dovunque gli uomini di buona volontà siano sulla breccia e
che i
nostri amici soprattutto siano in una posizione che la loro influenza diventi quanto più efficace possibile».
Ma
come ho già detto non mi interessa trovare giustificazioni teoriche ad una posizione contraria
all'astensionismo. Mi preme invece rilevare che il considerare l'astensionismo ovunque e comunque come
principio fondamentale immutabile, al di là del fatto che è una posizione del tutto soggettiva,
nasconde molto
spesso una intransigenza ideologica e un settarismo che non dovrebbero appartenere al movimento anarchico
(purtroppo però queste posizioni dogmatiche sono spesso solo il frutto del suo isolamento). Alle soluzioni
libertarie dei problemi politici e sociali si deve giungere partendo dal concreto, dai problemi reali, non si
può
partire dai principi per risolvere le situazioni che abbiamo di fronte. Bisogna inoltre prendere atto che non
esistono più, o almeno si sono modificate, le classi sociali che identificavano le loro aspettative con
l'anarchismo o il socialismo. Di conseguenza pensare oggi come cento anni fa all'astensionismo come
rivoluzione è semplicemente ridicolo - per inciso, a chi considera invece l'astensionismo come una
posizione
di principio contro ogni delega di potere faccio notare che astenersi non è riprendersi la propria
sovranità
individuale. Gli elementi sociali sono oggi tutti in divenire e per costruire orientamenti politici e culturali
libertari è necessario che anche l'anarchismo si liberi dai modi di pensare ereditati dalla rivoluzione
industriale e dalle analisi del socialismo ottocentesco. Il movimento anarchico non è più in grado
di sostenere
le sfide generate dalle trasformazioni sociali e culturali di fine secolo. Si pensi ad esempio all'importanza che i
media, in particolare quello specifico televisivo, hanno assunto nel determinare il consenso di massa e dai
quali non si può più prescindere per una azione politica e sociale. Naturalmente sono sempre
importanti i
messaggi, i valori e i programmi di azione. Da questo punto di vista il pensiero libertario ha penetrato di
sé la vita moderna, e agisce con vigore mai
diminuito nella storia ma è necessario adattare i principi a cui gli anarchici e i libertari si ispirano alla
nuova
situazione mondiale e alla evoluzione della nostra società. Di fronte a questi problemi l'anarchismo
attende un riesame critico e una diversa e più articolata impostazione
globale. Per finire l'anarchismo prima che una filosofia o una politica è soprattutto un atteggiamento dello
spirito e varie sono le concezioni economiche, politiche e sociali libertarie. L'anarchismo proclama la fede
nella libertà, reclama l'autonomia della coscienza, il rispetto della indipendenza dell'individuo. Non
riconoscere questa libertà a chi sceglie in determinati casi di comportarsi differentemente da quello che
noi
abbiamo assunto come valore è intolleranza e settarismo.
Furio Biagini (Pistoia)
Votare? No, ma forse
Credo. Credo che gli anarchici, in linea di massima, non
debbano partecipare alle elezioni. Conforme a questa
fede non ho mai votato. Mai. Il che vuol dire per trentaquattro anni, da che cioè sono diventato anarchico
(prima)
e adulto (poi). E anche per il prossimo futuro non prevedo pentimenti rispetto a questa simpatica consuetudine
che, oltretutto, non mi costa nulla. Invece per andare all'estero uso il passaporto, pur negando anarchicamente le
frontiere statali, perché sarebbe troppo complicato passarle clandestinamente ogni volta, rischiando la
galera ... Dopo un mio recente articolo su «Volontà» (Al di là della democrazia),
è corsa voce che sono diventato
votaiolo. Da ciò la preliminare dichiarazione di fede. Sarcastica, ovviamente, ma verace. Il sarcasmo me
lo
posso ben permettere, dopo trentaquattro anni. Ciò detto, torniamo a quella precisazione del «credo»:
in linea di massima. In linea di massima significa che
anch'io, come il vecchio Malatesta, ritengo che l'astensionismo sia essenzialmente una questione di tattica ma
con implicazioni di principio (quale principio? diciamo in prima approssimazione quello
dell'estraneità/alterità alla politica statuale, cioè alla politica del dominio). Ma ogni
principio, è ovvio per tutti
tranne che per i fondamentalisti, non si può applicare tal quale. Necessita di specificazioni che lo
riconducano
ad un determinato contesto. Prendiamo uno dei meno controversi tra i dieci comandamenti ebraico-cristiani
(che però ha un'indubbia valenza ben più universale): non uccidere. Bisogna quanto meno
specificare che si
esclude il-regno vegetale, se no non si può neppure estirpare un cespo di lattuga né assumere
antibiotici. E nel
regno animale ci sono anche le amebe e le zanzare e le tenie ... E se anche riduciamo il «non uccidere»
all'ambito dell'umano, che dire della legittima difesa e dell'aborto e che dire di Bresci che uccise Umberto
Savoia e di Lucetti che cercò di uccidere Mussolini? Dunque, non uccidere in linea di massima. E,
più in generale, rifiutare la violenza come mezzo, in linea di
massima, perché contraddittoria con il fine anarchico, non meno contraddittoria del voto, mi pare
... Ed eccoci
tornati all'astensionismo. L'astensionismo anarchico non è mai stato un principio in sé
, se non in una tarda vulgata che gli affidava e gli
affida una semplificata ed un po' autocompiaciuta identità «rivoluzionaria». Per l'anarchismo classico
l'astensionismo è stata scelta un po' tattica e un po' strategica. Per lo più, direi, strategica.
Motivazione tipica
(pur se non unica): la via elettorale allontana le masse dalla via rivoluzionaria. Il contesto di questa scelta
strategica: il suffragio era tutt'altro che universale. C'erano, il secolo scorso e
ancora ben dentro il nostro, vincoli di censo e di sesso e di alfabetizzazione e vi era dunque un diffusa
estraneità al processo democratico rappresentativo, che si coniugava con una massiccia estraneità
di larghi
strati popolari alla «politica». Un altro forte motivo dell'astensionismo strategico degli anarchici
era la
credibilità e la plausibilità, l'assoluta plausibilità di uno sbocco rivoluzionario a breve
o medio termine ad un
drammatico scontro sociale, ad una vera e propria crisi di civiltà, ad un antagonistico conflitto di classe
fra
una maggioranza visibile di sfruttati ed una minoranza visibile di sfruttatori. In
Italia, e non da oggi, quel contesto non esiste più. Dunque, più che frutto di calcolo strategico,
l'astensionismo può ragionevolmente porsi come forma residuale di identità anarchica. Gli
anarchici sono
quelli che non votano. Non è un gran che. Però devo ammettere che in tempi di quasi inesistente
immagine
esterna e di fragile identità interna, l'astensionismo possa essere un discreto segno di identificazione ed
anche
una forma di difesa contro l'assimilazione nel sistema liberal-democratico, contro l'omologazione, come si
dice oggi. lo stesso, per un paio di decenni, ho sostenuto attivamente l'astensionismo come barriera identitaria.
Ancora alla fine degli anni '70 sostenevo su «A» la razionalità dell'astensionismo anarchico di fronte ai
referendum (il più difficile da motivare), argomentando in modo tutt'altro che retorico-convenzionale,
anzi
piuttosto disincantato. Buone argomentazioni. Ma ... Ma sono oggi più consapevole di quanto non
fossi una decina di anni fa, che non si può fare politica senza
compromessi con l'esistente. Certo, si può rinunciare a fare politica (ed è un'ipotesi che mi attira
molto e da
molti anni), aspettando ad esempio la grande rivoluzione salvifica. Oppure creando, qui e ora, alternative
libertarie nel «sociale». Oppure facendo «cultura», non solo con libri e riviste, ma anche con comportamenti
palesemente diversi e (più o meno) coerentemente libertari. Il che non è fare politica. Come non
è di per sé
politica stampare volantini, attaccare manifesti, sbandierare e sloganare in cortei: è, nella migliore delle
ipotesi, propaganda. Se, invece, si vuole fare politica davvero e cioè partecipare in qualche misura (nella
misura delle nostre forze) ai processi decisionali politici ai vari livelli, bisogna seriamente pensare
con quali
mezzi e forme ciò sia possibile. Dopo esserci altrettanto seriamente chiesto se ciò
sia possibile a costi
libertariamente accettabili. In particolare rilevo che l'unica proposta interessante avanzata negli ultimi
anni per una politica libertaria in
società liberal-democratiche e di discreto benessere economico è quella del municipalismo
libertario.
proposta che, lo confesso, non trovo straordinariamente avvincente e neppure del tutto convincente, ma
abbastanza interessante da non schiacciarla con ideologico dogmatico furore. Lasciamo che i compagni
anarchici (o, più blandamente, libertari, sia detto senza alcuna diminutio) che credono a
questa ipotesi
sperimentino. Sperimentino liste locali non anarchiche (ché la contraddizion non consente)
ma libertarie, cioè
nella fattispecie portatrici, nella teoria e nella pratica, di istanze di democrazia diretta e di federalismo forte.
Assistiamo, noi che ci crediamo meno, criticamente come sempre ma non malevolmente all'esperimento. E
assieme a loro sin d'ora cerchiamo di valutare costi e benefici libertari di questo esperimento.
Intanto continuerò a non votare e a sostenere che gli anarchici, in linea di massima, non devono
votare. Anche
perché - argomento pragmatico non da poco - la loro partecipazione avrebbe, nella stragrande
maggioranza
dei casi, un'influenza risibile sui risultati delle consultazioni. Ma se in tal uni casi - ed in particolare in piccoli
municipi - potesse essere determinante il contributo degli anarchici diretto o indiretto, attivo o passivo, se
cioè
essi potessero influenzare il comportamento elettorale di un segmento non insignificante della popolazione
(avete in mente la CNT e le elezioni del '36?) ... Che fare? Che fare non tanto come scelta individuale, ma
come scelta collettiva di «movimento». Già, il movimento ... Il movimento come «partito» politico o il
movimento come «comunità» degli anarchici? Da oltre dieci anni ho espresso la mia netta preferenza per
la
seconda opzione. Ma pur se l'argomento è tutt'altro che estraneo alla questione dell'astensionismo,
rischiamo
di allargare troppo il discorso. Fermiamoci qui.
Amedeo Bertolo (Milano)
Decidere di volta in volta
In un'intervista di molti anni fa Papini (chi era costui)
affermò: « ... non voto perché non trovo giusto che il mio
voto conti come quello di un cafone». Affermazione sicuramente non condivisibile anche da persone come
gli anarchici che preferiscono altre forme
di partecipazione e di intervento nella vita politica, ma resta il dubbio, soprattutto in questo particolare
momento della nostra storia politica, che una simile affermazione (al di là della sua snobistica
spregiosità nei
confronti dei cafoni) possa in ogni caso far riflettere per la sua logica estrema. Se personaggi ambigui e
discutibili possono trovare ampi consensi politici tra la popolazione attraverso
meccanismi di condizionamento in tempo reale della psiche collettiva e quindi falsificare pesantemente i
risultati di quella che vien definita «la partecipazione democratica alla vita politica», possiamo pur dire che
questa partecipazione può avere il sapore di una colossale truffa. Detto questo che da ragione a
coloro che preferiscono farsi una girata lontano dalle cabine nei giorni delle
elezioni mi chiedo: in situazioni particolari e in mancanza di valide alternative di partecipazione è corretta
una posizione dogmaticamente antielettoralistica? Parlo di dogma perché l'antielettoralismo che ha
profonde
radici nella cultura anarchica, può assumere nel tempo e nella coscienza degli interessati la forma del
«tabù».
Nessuno è perfetto ed ognuno dei suoi «tabù» ne farà ciò che preferisce, ma
ciò detto e ripeto nell'attuale
contingenza, vorrei appellarmi, anche se ciò potrà apparire inusitato, ad un istinto primario, quello
della
difesa. Se un nemico mi attacca non mi è forse lecito utilizzare qualunque mezzo per potermi
difendere? Quantunque
questo mezzo sia inadeguato fino al punto di apparire ridicolo è forse giusto chiedermi di non utilizzarlo
o
dimostrarmi che sto sbagliando senza per altro offrirmi una valida alternativa? Con questo non voglio
assumere una posizione pro elettoralistica, ma rifiuto al con tempo la posizione antielettoralistica e mi lascio e
lascio a chiunque senza preconcetti o pregiudizi la libertà di decidere di volta in volta sul da farsi. A
coloro che non hanno ceduto alle lusinghe ipnotiche dell'ultimo «unto del signore», dai Cavalieri della
«Divina Provvidenza», e dai rumini discreti del fascismo postmoderno, possiamo, come anarchici,
onestamente, offrire l'anacronistica polemica sulla partecipazione elettorale? Tempo perso, o forse
semplicemente tempo che non riusciamo ad utilizzare per lavoro e riflessioni di diverso e più proficuo
significato, ed è anche un tempo assai distante dalla sensibilità della gente e che ci rende a volte
propositivamente un po' sfuocati e indistinti, come in una vecchia fotografia. Certo il rigore può
servire in situazioni di crisi di identità a mantenerci saldi nei nostri convincimenti, a
fornirci un supporto per passare «indenni» attraverso anni e ancora anni difficili nei quali mancano la perizia,
la forza o i mezzi per essere presenti in modo adeguato nell'«agone politico» e in significativa sintonia con il
corpo sociale, ma se la rigidità dopo anni e anni diventa fine a se stessa rischia di condurci ad uno
psichico
«rigor mortis». Ed allora come in altre situazioni, in altri tempi e per altre cose forse più nobili ci
si chiede retoricamente che
cosa avessimo da perdere, altrettanto retoricamente non è forse lecito porci ora altre domande? Della
serie: Ma quale madornale errore faremmo recandoci in determinate situazioni all'urna? Quale parte
della nostra coscienza ne verrebbe così irrimediabilmente compromessa? E non sembrano forse certi
nostri precetti isolarci su di una torre d'avorio, così solitari, così puri, così
immacolati, sopra una massa di poveri peccatori? Che antipatia!
Paolo Arduino (Pistoia)
La pecora nera si è stancata?
Cosa contraddistingue l'anarchico? Il non andare a votare
o la lotta intransigente al dominio, soprattutto nella sua
forma concreta di governo? Se l'elemento caratterizzante diventa la partecipazione o meno al (mis)fatto elettorale
vuoi dire che la lotta intransigente è passata in secondo piano; mentre la logica vorrebbe che la diserzione
dalle
urne sia in conseguenza della diffusione della pratica libertaria. Gli anarchici rifiutano e combattono
l'organizzazione centralista e gerarchica della società; proprio per questo rifiutano la «politica» intesa
come pratica
di governo della città e del territorio, cioè dell'intera comunità umana. La «politica»
si prefigge il compito di stabilire l'ordine sociale tramite una delega di potere a ceti
appositamente selezionati. In realtà essa codifica il disordine e la prevaricazione nel momento stesso in
cui
definisce una gerarchia sociale tramite la quale esercitare il governo. E la gerarchia è nemica di qualsiasi
forma di libertà perché, con la sua stessa articolazione, impone doveri e privilegi grazie al suo
diritto di
governo. Questo ragionamento, nel suo complesso, non cambia, qualsiasi siano i criteri di selezione dei ceti
destinati
alla funzione di governo. In particolare nel sistema democratico-rappresentativo, siamo in presenza di un
sistema che si basa sulla
delega di diritti, individuali e collettivi, ad una esigua minoranza. Minoranza che esercita il suo potere in
nome della maggioranza, dopo averne carpito la delega in nome di programmi, princìpi, regalie e
promesse,
dopo averne manipolato emozioni ed immaginario fino a prospettare soluzioni democratico-plebiscitarie
basate sull'illusione del rapporto diretto tra leader e «popolo», teso a soddisfare un inesistente «interesse
generale». Gli anarchici sono stati sempre astensionisti elettorali in quanto ogni delega manifesta di potere
rappresenta la rinuncia ad una parte fondamentale del loro programma d'azione: quello imperniato sulla
proposta di un'organizzazione sociale che si basa sul principio della gestione diretta della produzione e della
distribuzione egualitaria del prodotto sociale, individuati come i metodi più consoni a garantire
l'affermazione
delle libertà individuali e collettive. In questa ottica l'astensionismo anarchico è una chiara
dichiarazione d'intenti nei confronti del sistema
elettorale e si distingue nettamente dalle proposte di astensionismo tattico avanzate, a fasi alterne, da settori
della sinistra più o meno marxista che continuano a mantenere un atteggiamento opportunistico nei
confronti
del parlamento, proprio perché «politici», proprio perché sostanzialmente statalisti. Come lo
è nei confronti
dei delusi, degli orfani di partito, di quanti, pur insoddisfatti, non hanno alcuna intenzione di mettere in
discussione il sistema di oppressione e di sfruttamento, di coloro che utilizzano l'astensionismo come valvola
di sfogo alla loro disaffezione elettoralistica per sfuggire ad una verifica di fondo delle risultanze attuali,
frutto di un processo di deriva inarrestabile della pratica, se non dell'idea, democratica. Un altro elemento
è però importante aggiungere. L'azione del movimento (soprattutto nei suoi momenti
più vitali) non è mai consistita in una riproposizione
canonica di una propaganda e di una tattica indifferenti ai tempi e ai modi della lotta politica e dello scontro
sociale, bensì in una loro ricollocazione all'interno della lotta antiparlamentare ed antigovernativa per
conferire loro un'efficacia sempre maggiore. In questo senso più che definire l'astensionismo in termini
di
princìpi assoluti ed immodificabili è meglio definirlo come condizione fondamentale, necessaria,
ma non
sufficiente per la diffusione della proposta anarchica. Una scelta strategica profondamente intrecciata con i
contenuti del programma, ma che ha bisogno di una pratica sociale, costante nel tempo, se vuole contribuire
realmente ad una rottura netta e radicale con il meccanismo della falsa partecipazione, che è poi reale
condivisione della propria oppressione. Ed è proprio la sua occasionale insufficienza a spiegare
l'atteggiamento tenuto in poche eccezionali contingenze dagli anarchici che hanno pensato di utilizzare
strumentalmente il fatto elettorale per rilanciare il movimento. E mi riferisco a Friscia in Sicilia, agli inviti di
Bakunin nel 1870, alle riflessioni di Berneri, all'atteggiamento della CNT spagnola nel 1936. Atteggiamenti
che confermano da un lato il carattere sperimentale e mai dogmatico dell'anarchismo, e dall'altro l'assoluta
priorità dell'azione rivoluzionaria anarchica cui l'astensionismo fa sempre da supporto. Il richiamarsi
oggi acriticamente e astoricamente a tali esempi per rilanciare il movimento odierno mi pare
inopportuno. La crisi del sistema democratico rappresentativo, nelle sue varianti, mi pare talmente
irreversibile, soprattutto in Italia, da aver bisogno di forme raffinate di manipolazione delle coscienze per
mantenere qualche forma di consenso sociale. Come ben dice Chomsky: «In un regime totalitario la
volontà
del popolo non conta: ci sono i manganelli per sistemare tutto. Ma se lo stato non può fare più
uso del bastone
il popolo può alzare la voce, allora bisogna controllarne il pensiero con la propaganda, fabbricando il
consenso con delle semplificazioni allettanti per ridurlo all'apatia. La comunicazione sta alle democrazie
come la violenza sta alle dittature». La crisi del sistema non si approfondisce facendo le ruote di scorta, né
pensando di utilizzare gli spazi che il meccanismo intelligentemente lascia per triturarci meglio. Ed è
paradossale che proprio nel momento in cui le istituzioni, a qualsiasi livello le si voglia considerare - dal
parlamento al consiglio comunale - dimostrano tutta la loro funzione di copertura dei veri poteri forti di
questo paese, ci sia chi possa pensare di mettere una zeppa alla reazione avanzante infilando un pezzo di carta
nell:urna. La strada da percorrere è un'altra. E la strada della critica intransigente, dell'azione tra gli
sfruttati e gli
oppressi, gli emarginati e i dominati; è la strada di un'azione e di un pensiero che abbiano come punto
di
riferimento stabile quello dell'autorganizzazione e dell'autogestione antigerarchica. La strada di chi non vuole
essere governato, né vuole rendersi corresponsabile del sistema di dominio vigente.
Massimo Varengo (Milano)
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