Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
La forma trasgressiva della coppia
Il prototipo cinematografico del rapporto fra il bambino e l'adulto estraneo - non genitore, non parente, non
delegato delle istituzioni adibite al controllo sociale - è Il monello (1921) di Chaplin. Al
bambino di sette anni
che fu Jackie Coogan e al personaggio di Charlot toccò di consacrare la vicenda eversiva
dell'innocente che,
anziché trovare riparo e decoro negli agi della borghesia, li trova nello stravagante emarginato, nello
straccione
poco di buono. Così l'ordine costituito è stravolto nei suoi principi: chi è destinato al
manganello della polizia sa
esprimere (e ricevere) più amore di chi, da quella stessa polizia, viene blandito e protetto. Il cinema ha
poi
bazzicato il tema periodicamente. Nel tentativo di svelenirlo e ridurlo a cioccolatino perugina made in USA ci
sono stati gli anni di Shirley Temple - soprattutto la seconda metà degli anni Trenta - e tutta una
produzione la
cui unica creatività doveva consistere nel modificare di poco l'età del protagonista «debole»,
lasciando, a volte,
l'infanzia, per ghermire fanciullezze ed adolescenze in fiore. Fra i tanti, con intenti meno reazionari di quelli che
animarono la mercificazione della Temple, val la pena ricordare Paper moon (1973) di Bogdanovic
- giocato sul
duetto di famiglia fra Ryan O'Neal e sua figlia Tatum - e financo Un mondo perfetto, recente e non
disprezzabile
fatica di Eastwood. Un sostanzioso giro di vite alla questione lo dà, ora, con Lèon,
Luc Besson, che tempo fa segnalai per Atlantis
(cfr. «A» 190, 1992) e reduce dal discutibilissimo Nikita, dove le ombre di una narrazione
di comodo
prevalevano sulle luci delle buone intenzioni e di qualche soluzione formale. Lèon (Jean Reno, una
fisionomia inedita nel ruolo di un protagonista) è un sicario espertissimo, analfabeta
solitario, lavora a New York per la mafia italiana, beve due litri di latte al giorno, dorme poco e male, accudisce
amorevolmente una pianta priva di radici, si lava e si stira la poca roba che ha, ama i film di Gene Kelly e si cuce
da sé i rari incerti del suo pericoloso mestiere. Non sopprime né donne né bambini.
Affidandoglisi, si e in buone
mani. Il suo cuore di pietra, tuttavia, s'incrina per Matilda (Nicole Portman), una ragazzina che si chiede con
ottime ragioni se tutte le porcate della vita siano riservate alla sua tenera eta e se, dopo - eventualmente - le cose
cambino. Penultima nata in una famiglia d'infima virtù - padre maiale e spacciatore di droga, madre tutta
aerobica
e tv, sorella incestuosa e dedita al commercio di sé -, impreca pesante, fuma di nascosto, bidona la scuola,
si tinge
e si agghinda, ma vuole un bene dell'anima al fratellino più piccolo. Che glielo ammazzano - come tutti
gli altri di casa, per i quali, invero, avrebbe pagato di tasca propria. Rischia di brutto anche lei, povera ninina,
se non
fosse che, qualche rara volta, disperati e negletti dalla buona società, Dio li fa e poi li accoppia - almeno
fino a
quando la nemesi sa pazientare. Al riparo di Lèon, in uno spiraglio di purezza garantito, c'è il
tempo di tornare
a giocare ed a sorridere; c'è perfino il modo di assaporare la prima inquietudine d'amore. L'incontro fra
Matilda e Lèon diventa, allora l'itinerario della mente degli oppressi alla propria liberazione. La coppia
si
regge sul mutuo scambio, ma al posto di tirar sassi sui vetri per il sostentamento del vetraio - come avveniva
fra il monello e Charlot - qui, Matilda insegna a Lèon a leggere ed a scrivere, mentre Lèon accetta
di
insegnare a Matilda ad uccidere. Che la cultura faccia male e Lèon lo imparerà a sue spese, ma
che, nel
frattempo, si fortifichi nella città corrotta una formidabile coppia di opposizione è anche indubbio.
Il sesso e
l'età da prima adolescenza di lei fan sì che proprio nella valenza di coppia venga trasgredito il
primo tabù:
Matilde ha un padre-amante scelto da se stessa e, in sua compagnia, si accinge a «fare le pulizie» in un mondo
che ne ha particolarmente bisogno. Besson non è reticente e, nella dichiarazione d'accusa, non si nega
nulla: il marcio è nei poteri costituiti e gli
zelanti difensori della legge non si distinguono, nel disporre la loro mercanzia di morte, dalle tradizionali agenzie
del Male. Quando si sentono le sirene della polizia non arrivano i nostri, ma continuano a incrudelire i loro.
Scappi chi può, ma trovare un angolino dove ancora sia possibile piantare radici sembra proprio un'utopia.
A conti
fatti, Lèon si merita un paragrafo in quel vasto capitolo della storia del cinema dedicato ai
«riparatori di torti»,
e il suo regista, concessioni ai «generi» e spettacolarità compiaciuta a parte, va inscritto in quella scarna
lista di
amici di cui si attende notizia.
P.S. - A dimostrazione di furbizia e di prontezza di sceneggiatura, in Lèon, c'è
un caso curioso di
«consecutività cinematografica». Ovvero, quando ciò che si dice in un film, ha un senso solo se
se ne è visto
un altro. Il corrottissimo cattivo poliziotto che sgranocchia amfetamine come noccioline celestiali è Gary
Oldman: mentre ammazza una famiglia intera dice di sentire Beethoven e, alla stravolta vittima di turno,
chiede una conferma. Quello, ovviamente, non sa cosa dire, non capisce ed ha altro per la poca testa che gli
rimane. Il poliziotto, allora, si dà una risposta da solo e dice: «ah, ho capito. A te piace Mozart». Bene,
c'è da
sapere che Gary Oldman è anche l'interprete principale di Amata immortale, film appena
sfornato, a carattere
biografico, dedicato, per l'appunto, a Ludwig van Beethoven. Un caso estremo, ed estroso, di carpe
diem.
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