Rivista Anarchica Online
Lupo metropolitano
di Mauro Macario
L'11 marzo è morto Charles Bukowski, tripudio degli accademici, lutto
per tutti i «maledetti». Nato ad
Andernach, in Germania, nel 1920, andò con la famiglia in America che era ancora bambino.
Disancorato da
qualsiasi regola di vita sociale, fino all'età di cinquant'anni, passò da un lavoro all'altro, tutti
umilissimi, che
regolarmente lasciava dopo una settimana. Fece solo il postino per dodici anni. Viveva in quartieri poveri, a Los
Angeles, perennemente ubriaco, odiosamente simpatico, teneramente duro. Scriveva poesie e brevi racconti per
riviste underground, fino a quando il successo inatteso, più in Europa che in America, non gli
aprì un po' di sole
in quella sua vita trascinata che sembrava irrimediabilmente destinata alla disperazione totale. La critica italiana,
quella «ufficiale», non lo ama e continua a disistimarlo perché Bukowski rifiuta la ricerca formale
raffinata e
si getta in una scrittura colloquiale, popolare, aspra. In realtà è un grande scrittore di sentimento
«anarcoide»,
compagno di strada di tutti gli emarginati e i solitari che difendono a caro prezzo il proprio individualismo in
sfregio al perbenismo interessato delle istituzioni e loro derivati.
Lattine di birra Bukowski bambino che dalla cinghia del padre impara il
suono secco della vita: una promessa violenta, una
promessa mantenuta. Bukowski che a scuola si picchia a sangue. Bukowski divorato da foruncoli enormi,
sottoposto a trapanazioni, guardato con scherno dalle ragazze che scelgono i ricchi con la macchina e la pelle
liscia. Il padre che vergognandosi davanti al quartiere di essere disoccupato finge di avere un lavoro ed esce al
mattino e torna alla sera. Il giovane Charles che invece un lavoro lo trova davvero ma non ci va o viene
licenziato. Bukowski magazziniere per una settimana, fattorino per un mese, postino per dodici anni. Solo in
una stanza, in una bottiglieria, per le strade del paese felice ... La solitudine è un concime pericoloso,
si cresce
avvelenati, si osserva la vita dalla finestra e di notte nelle fogne abitate della città ci si unisce al popolo
del buio:
pazzi delinquenti, sbandati, puttane, vagabondi, alcolisti. Nei suoi libri senza orizzonte, senza alcuna speranza,
senza un porto fermo, non c'è nemmeno la consolazione di affermare che il male viene da una parte,
frutto di
una zona sociale precisa. La condanna, spesso indiretta, è globale e investe non solo le strutture sociali
ma la
natura umana che agli occhi di Bukowski appare crudele, malsana, avara, insidiosa e traditrice. Ma questo lupo
urbano selvaggio e sfuggente sa più di quanto dice, più di quanto finge di ignorare, più
di quanto estingue in
fondo alla rassegnazione. Una rassegnazione indolente e pigra che lo assopisce fra due guanciali di lattine di
birra dove, annebbiato e sconvolto, parte per il Sogno Americano sul carro merci dell'ora zero.
Senza retroterra senza tradizioni Sogno che si tramuta in incubo e poi in
delirio perché lui sa che questo sogno quotato nella Borsa Internazionale
è nato a Wounded Knee e dintorni dalla premiata ditta Bibbia & Sciabola. Lo sa e ci beve sopra
perché la
lucidità è dolore e il dolore è solitudine. La solitudine della megalopoli che scoppia
adagiandosi in lui come una
gemella dell'abbandono, i cui vagiti sono strappi di collera individuale da vecchio vandalo di quartiere che non
smette di essere rissoso. La solitudine che induce all'eccesso per sentirsi in compagnia della propria
identità,
che ha bisogno di affermarsi in un marasma oceanico di pullulanti entità numeriche, meno di uomini
e quasi
ectoplasmi. Dietro l'apparenza di un ordine sociale organizzato e produttivo si cela la provvisorietà dei
rapporti
umani, del lavoro umile, della merce a credito. Avventurismo da «vecchia frontiera» con lo strascico inevitabile
dei miti a uso e consumo dell'uomo medio. Bukowski si sveglia pensando che il migliore saluto a quella
«umanità che mi sta sul cazzo da sempre» («Donne») è vomitare la notte alcolica e riattaccare
la prossima
lattina, quasi il gesto di strapparla fosse come disinnescare una bomba a mano nella cui esplosione gastrica e
mentale perire più volte al giorno per rinascere stordito, coraggioso, provocatore. Bukowski, nato ad
Andernach,
in Germania, nel 1920, e trasferitosi con la famiglia in America, non appartiene più all'America
nè all'Europa.
Non ha più radici. E' un apolide. Uno zingaro degli agglomerati urbani, senza retroterra, senza
tradizioni, senza
un paesaggio da ricordare. Coltiva il suo sradicamento come una leggenda anonima. L'anonimità
è la sua
denuncia ma anche il suo rifugio. Egli glorifica ed elogia poeti sconosciuti, non venuti alla luce e per contro
disprezza personaggi acclamati
dall'establishment culturale. Non aderisce, si stacca e torna solo nelle strade, negli ippodromi, nei bar. Pensa
a Celine e a John Fante. Il bar per lui è un territorio neutrale, da armistizio sociale. Una sorta di limbo
dove la
società concede una tregua ai suoi fuoriusciti, ai suoi indiani di fatto, non di origine. Il bar allora
è una riserva
in cui Bukowski si autorelega diventando un «barfly», una mosca da bar.
Profughi del nulla Il barfly è l'uomo che rinuncia in partenza
all'integrazione, è il metropolitano terrorizzato dalla famelicità dei
quadri dirigenti, è un imputato che scappa dal Processo di Kafka, che vuole sottrarsi alla
condanna immotivata,
è l'orfano che cerca una famiglia negli estranei di un locale, certo di avere con loro dei comuni
denominatori
che formano una catena salvagente invisibile ma solidale, tacita come un atto di sangue fra gitani. Nei bar
incontra gente senza volto, immobile e sbiadita, una popolazione meccanica inattivata. Altre volte quei luoghi
da profughi del nulla si animano di figure stremate, frustrate, vinte ma ancora e sempre fantasiose ai limiti
dell'illegalità con i loro progetti ladreschi che esaltano Bukowski-Caronte. Lui, spronato da quella
ciurma a
vivere l'odissea notturna, imbarca sul suo vascello fantasma i superstiti folli di un Novecento che se ne va. Un
canto di sirene sfatte e scosciate blocca il timoniere della palude. Certo che, voltandosi, il vecchio Charles
incoccia odalische dei vicoli, non proprio sacre icone dell'eterno femminino. Ma chi può accompagnare
uno
sfaccendato trasgressore se non qualcuno nato dalla stessa costola dell'emarginazione? E' la donna che scatena
i sensi come liberazione, una brutale drammaturgia da letto con finale al mattino perché il sipario si
chiude sulla
luce che si leva, quando gli altri sanno dove andare in quella luce, dritti e disponibili. La sua donna beve quanto
lui e al pari di lui le si può leggere nelle occhiaie e nelle guance scavate un diario di vita sconclusionata,
errabonda, smarrita. La sua donna viaggia di corpo in corpo come una staffetta triste e febbricitante che non
passa niente di mano in mano, se non la fiaccola sempre più debole della propria sconfitta. E in questo
rapporto
che è un lampo, un flash illusorio ogni insulto si spoglia della sua volgarità, ogni gesto rozzo
diventa carezza
pietosa, ogni nuova viaggiatrice colta dal sonno nel letto del lupo viene guardata da quest'ultimo con dolorosa
solidarietà: quella dei reietti verso i propri simili. Perché dietro l'apparente brutalità,
Bukowski nasconde, anche
a se stesso, l'innocenza dei «maledetti», la fragilità dei Grandi Solitari, la tenerezza pudica dei randellati
dalla
vita. Il suo habitat è una casa lurida, disseminata di sporcizia e arredata col disordine, in quartieri di
desolazione
e povertà. Il suo sguardo fa la ronda nei cortili maleodoranti o su e giù in pianerottoli scrostati
dalla voracità
della miseria nei rientri albeggianti alla sua tana. La sua finestra che dà su Los Angeles è un
occhio che si
arrovescia all'interno del suo deserto dove Bukowski stesso si trasforma in cactus, spinoso e pungente, quando
i poliziotti bussano alla sua porta per sedare gli schiamazzi notturni o improvvisi, furenti litigi. Quando una
donna lo esaspera, quando un capoufficio esercita la sua autorità in chiave di stillicidio crudele, quando
l'ultima
birra lo espropria della lucidità. Ma è anche, la sua casa, il rifugio in cui il Balordo Simpatico
ascolta con
abbandono nirvanico il suo Mahler fra lenzuola scomposte, ceneriere colme di tensioni bruciate e accanto corpi
addormentati e sempre, in fondo, così estranei.
Scrittura scarna E tutto questo inferno quotidiano
Bukowski lo riversa per liberarsene, per esorcizzarlo, nei suoi libri così
scomodi e additati dalla cultura ufficiale e tardivamente giunti al successo. Come, ad esempio, in «Post Office»,
racconta la sua vita di impiegato alle poste e può farlo perché, ormai sulla soglia della
cinquantina, il fannullone
alcolista acquista una certa notorietà letteraria dopo aver trascorso dieci anni senza scrivere
perché - come
afferma lui stesso - «ero troppo occupato a bere ... l'alcol migliora la vita» («Quello che voglio è
grattarmi le
ascelle» intervista di F. Pivano, Ediz. Sugarco). Certo, libri di successo sono «Donne», «Compagno di
sbronze»,
«Taccuino di un vecchio porco», «Storie di ordinaria follia». Ma vi sono dei testi meno noti ma forse
più
rivelatori e stimolanti come «A Sud di nessun Nord» dove Bukowski tramite brevissimi racconti riesce
misteriosamente in appena due o tre paginette a condensare l'inferno personale e a configurarlo in acquerelli
di tesa drammaticità mai priva di risvolti crudeli e deliranti. Il tutto redatto con una scrittura scarna,
essenziale
come una cronaca della disperazione. Una scrittura così poco letteraria in senso tradizionale da attirarsi
addosso
l'ottusa ironia di polverosi professori in odore di anatemi. Ma non c'è dubbio che Bukowski, lontano
dalle
dispute dei compiti in classe, se si avvicinasse a quella sua finestra verso il crepuscolo e già irrigato
dalla sua
liquida misantropia, non esiterebbe a mormorare tra sé e sé ... «S'i' fosse foco arderei 'l mondo,
s'i' fosse vento
lo tempesterei, s'i' fosse acqua i' l'annegherei ... ». Anche adesso che è tutti questi elementi e ci
rovescia addosso una acquasantiera di birra.
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