Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 208
aprile 1994


Rivista Anarchica Online

Carcere, teatro
di Cristina Valenti

Quando gli attori sono dei detenuti: l'esperienza della Compagnia della Fortezza di Volterra

Febbraio 1994: a rappresentare il Marat-Sade di Peter Weiss al Teatro di Porta Romana di Milano è la Compagnia della Fortezza di Volterra, sono cioè i detenuti di quel carcere, diretti da Armando Punzo e Annet Henneman. Lo spettacolo, che è già stato a Pisa in novembre (e sarà a Torino in giugno) (1) è salutato come un evento. Sembra che il teatro abbia realizzato un miracolo. In realtà si è trattato di un lungo lavoro, paziente e pressoché oscuro, che dura ormai da sei anni e che ha prodotto cinque spettacoli. I primi quattro sono stati rappresentati esclusivamente dentro il carcere per un pubblico ristretto di invitati (oltre che per la popolazione carceraria) in occasione di Volterra Teatro, e solo Marat-Sade è stato portato anche fuori dalle mura, per due rappresentazioni nella piazza dei Priori in occasione del Festival di luglio, e quindi per questa eccezionale, anche se breve tournée, grazie ad una macchinosa organizzazione di permessi premio individuali concessi agli attori detenuti (ma non a tutti).

Al centro il teatro
Annet Henneman era entrata nel Maschio di Volterra la prima volta nel 1988 per rappresentare il suo spettacolo, Etty, la storia di un'ebrea olandese vittima dell'olocausto. Lei e il regista, Armando Punzo, avevano fondato da un anno il gruppo teatrale Carte Bianche dopo aver partecipato all'esperienza chiusa e persino iniziatica del Gruppo Internazionale L'Avventura, erede del parateatro di Grotowsky, col quale Annet aveva lavorato a più riprese fra il '78 e 1'84. Ma lei aveva avuto una formazione di drammaterapista e animatrice teatrale in Olanda, e lui, artista figurativo prima che attore e regista, veniva dal ricco ambiente del teatro napoletano, dove aveva lavorato in particolare a spettacoli di strada.
Etty dentro il carcere era diventato un «materiale esplosivo». Veri corridoi e porte inchiavardate accompagnavano la vicenda teatrale di una donna che fra corridoi e porte inchiavardate aveva percorso gli ultimi passi prima di morire. Dopo lo spettacolo, i detenuti avevano lungamente applaudito, poi si erano messi a fare gli spiritosi: prendevano il cappotto e la valigia di Etty e salutavano le guardie: «Arrivederci, parto, vado via». Una capacità di far convivere l'autenticità del dramma personale con l'ironia di una teatralità innata che è tipica della gente del Sud (i detenuti di Volterra sono quasi tutti napoletani) e che sarebbe diventata un tratto distintivo della Compagnia della Fortezza.
Un'esperienza che fin dal primo momento è stata diversa da come si sarebbe portati a raccontarla: ripensandoci, Armando Punzo parlerà di sentimento di vendetta piuttosto che di motivazioni vagamente umanitarie, pietistiche o filantropiche. Ricordando la sua vergogna di bambino, quando la maestra gli diceva «se non riesci a spiegarlo in italiano, dillo in napoletano», aveva ritrovato anche il proponimento rabbioso di allora, di trovarsi un giorno «faccia a faccia con chi ha permesso che un bambino si debba vergognare» (2). E lo strumento del riscatto sarebbe diventato il teatro: inadeguato a compiere azioni umanitarie, deprimente quando si fa «servizio», ma capace di assumersi responsabilità elevate, costruendo spettacoli che aiutano a vedere con ricchezza e complessità al di là della dimensione fenomenica. E inoltre Etty aveva dimostrato che dentro un carcere gli spettacoli possono diventare «materiale esplosivo».
Questa è stata fin dall'inizio la «stranezza» del lavoro di Carte Bianche coi detenuti di Volterra: il teatro non era un mezzo (di socializzazione, di ricreazione, di animazione) ma era piuttosto un obiettivo assai serio, al quale lavorare tutti i giorni per molti mesi, con dedizione e serietà. Mettere al centro il teatro, la formazione di una competenza e di un linguaggio personali da parte degli attori detenuti, ha significato infrangere alcuni dei principi sui quali si basa il processo di spersonalizzazione e standardizzazione dell'individuo all'interno di una istituzione totale, e che consiste nella spoliazione dei ruoli passati, nella mortificazione del precedente concetto di sé, nella perdita di potere sul proprio mondo, nell'incapacità di autodeterminare le proprie azioni. Il teatro imponeva comportamenti normalmente negati ai detenuti, dai quali questi tendevano inizialmente a difendersi, per difendere la loro avvenuta integrazione. «Il teatro da loro pretendeva cose difficilissime - ha scritto Annet Henneman. - Hanno dovuto "imparare" di nuovo a gridare, a parlare forte, a mostrare di aver paura in presenza degli altri. Un certo comportamento dentro il carcere non è accettato: non ci si può mai far sorprendere dalle guardie o dagli altri carcerati deboli o disperati. E loro avevano timore di farlo anche nella finzione delle prove. La stessa cosa accadeva per l'aggressività. Essere arrabbiati, lottare: all'inizio era possibile esprimere tutto questo soltanto passando attraverso azioni del corpo molto forti ... » (3).
Nel primo spettacolo, La gatta Cenerentola, del 1989, l'uscita dai ruoli era suggerita dal travestimento in abiti femminili per rappresentare e cantare in falsetto, con parrucche, gonne e trucco pesante, le sei sorelle che «son tutte belle», con la matrigna e il coro delle lavandaie; e la riappropriazione di una cultura personale avveniva attraverso la napoletanità della lingua, l'energia della gestualità naturale e la forza pura del canto, che si trasformavano nella vitalità disperata di un gioco scenico primigenio.
Nel Masaniello, del 1990, la sconfitta della rivolta contro la tirannia, conculcata dalla furbizia dei sovrani di turno, ma anche minata da inganni e tradimenti di parte popolare, denunciava la sconfitta di un intero paese, che condanna i suoi figli diseredati alla violenza, affidandoli fin dalla nascita alle strutture di potere della criminalità organizzata.
In 'O jurno 'e San Michele, del 1991, la libertà era l'orizzonte negato verso il quale gli attori detenuti salpavano su un grande veliero dipinto di bianco, fatto di cose vecchie e oggetti di recupero: una carriola, una lambretta, una vasca da bagno, un banco di scuola, un esercito di ombrelli; e loro erano i contadini del Sud (non tutti «briganti» in senso stretto) che si ribellavano contro i soldati piemontesi.
Il Corrente, del 1992, prendeva il nome da un'altra nave, il cui equipaggio fu processato per ammutinamento durante la rivoluzione napoletana del 1799; e la doppia verità, raccontata e vissuta dai detenuti, e però anche allusiva di una specularità fra la storia evocata dal testo e le vicende dell'Italia contemporanea, esplodeva agghiacciante nel grido «Siete voi i ladri», rivolto dal marinaio Basilio alla corte giudicante, i cui membri erano invischiati nei traffici di merci degli ufficiali della nave, che si erano venduti fino all'ultima palla di cannone. Sono spettacoli che non ho potuto vedere personalmente. Quando ho cercato di farlo sono stata esclusa dal mancato permesso della questura, nonostante l'interessamento della direzione del Festival. I racconti che ne ho raccolto negli anni si assomigliavano tutti. Parlavano di un'emozione quasi insostenibile e di una commozione profonda, nate dall'aver toccato con mano che in certi luoghi possono nascere dei fiori, come nella canzone di De André. Ora esiste un grosso fascicolo di rassegna stampa, che si legge come un avvincente romanzo a lieto fine, dove si rintracciano le stesse considerazioni, le stesse emozioni. Ma dove il bisogno di spiegazione finisce per forzare, di necessità, quella specie di soglia di fronte alla quale sembravano arrestarsi tutti i racconti: la sensazione dell'indicibile. Cosa c'era stato di così fuori dal comune nell'esperienza degli spettatori dentro il carcere? Certamente l'agghiacciante rituale di accesso (di cui si legge del resto anche in molte recensioni): le perquisizioni delle guardie e il passaggio attraverso una sequenza di cancelli che si aprono e si richiudono per essere ammessi in un mondo di cui si crede esista abbondante informazione e che invece è del tutto sconosciuto. Ma l'indicibile risiedeva per forza altrove, e nasceva da una frizione, da una contraddizione non immediatamente formulabile fra l'esperienza dello spettatore in carcere e il modo normale, quasi «obbligatorio» di raccontarla. Quando ho potuto vedere il Marat-Sade, il mese scorso a Milano, me ne sono resa conto, anche se solo parzialmente, immagino, perché la dimensione concentrazionaria della fortezza era assente, seppure ricreata scenograficamente. Proverò a raccontarlo a partire dalla descrizione dello spettacolo.

Contro le sbarre
La scena è quasi spoglia. Ai lati, su due balconate praticabili, passeggiano delle suore in atto di preghiera. Ci sono delle panchine sparse qua e là. Un tamburo sulla destra. E' il manicomio criminale di Charenton, dove un internato d'eccezione, il Marchese de Sade, dirige gli altri malati nell'allestimento di uno spettacolo sull'assassinio di Marat per un pubblico di invitati. Una pedana inclinata, in fondo, conduce alla porta dalla quale scenderanno correndo, a ondate, gli attori. All'inizio c'è solo un vecchio detenuto arabo che sgrana il suo rosario. Si presenta il banditore (Marco Luoni): addobbato di padelle e pentolini sbatacchianti, sciorina cantilene in falsetto, rimate come filastrocche infantili, un modo per addomesticare contenuti inquietanti, che l'alterazione della voce rende comunque sinistri. «Illustre pubblico, in questa compagnia è rappresentato ogni condizione e ogni stato». Nel corso di tutta la rappresentazione, i suoi interventi cercheranno di ricondurre il dilagare delle azioni nei solchi della vicenda da mettere in scena. Nella tunica nera di de Sade è lo stesso regista, Armando Punzo, che dal fondo sorveglia i movimenti e regola le entrate e le uscite. Una ad una vengono introdotte delle pesanti grate, che sono trascinate con forza verso il proscenio ed innalzate a formare una parte che trasforma la scena in una grande gabbia. E' subito un'esplosione di energia compressa: al ritmo ossessivo delle percussioni, gli ammalati girano in tondo forsennatamente, ognuno con un suo modo sghembo e alienato. Hanno camici bianchi dalle lunghe maniche svolazzanti, evidentemente pronti a serrarsi come camicie di forza, e portano berretti grigi in testa. I polpacci nudi lasciano intravedere i molti tatuaggi. La corsa si conclude contro le sbarre, sulle quali gli attori cercano di arrampicarsi, appendendosi per le mani e salendo rapidamente, con una forza e una velocità impressionanti: un'azione che sarà replicata più volte, al grido reiterato e lacerante di «libertà», una scalata impossibile che sembrerà ogni volta più violenta e indomabile. Gli inservienti, con stivali di gomma e grembiuli da macellaio, come li voleva Weiss, intervengono a reprimere le insubordinazioni. Al centro c'è la rudimentale bagnarola di Marat (Costantino Petito), che si alza a lanciare le sue invocazioni e i suoi proclami: «Sol'io saccio che significa star chiuso qui dentro! Io non so' pazzi!»; «lo sono la Rivoluzione»; «Noi esigiamo un immediato sforzo per porre fine a questa guerra ... Noi esigiamo che coloro che hanno scatenato la guerra ne sopportino tutte le conseguenze». Alle dichiarazioni politiche alterna nostalgiche canzoni popolane. I reclusi sbattono violentemente le pentole contro le sbarre. La loro rivolta sembra sempre più incontenibile. Lo spettacolo procede ciclicamente schematizzato. Gli annunci del banditore, l'avvitarsi delle corse forsennate e strillanti, i disperati tentativi di scalata delle sbarre al grido di «libertà» e le relative misure di repressione fanno da cornice quasi rituale agli episodi: le visite della Corday a Marat malato, Jacques Roux (Massimo Ariostini), un ricoverato ex-prete, che arringa alla folla brandendo una croce e una stampella, Marat chiuso in gabbia e fustigato, le esecuzioni alla ghigliottina, e le molte esplosioni di violenza, fino all'incontenibile parossismo finale, al quale pone fine il direttore del manicomio, facendo calare dei teli neri sulle sbarre.
Sul mondo sconosciuto della reclusione è di nuovo sceso il velo. Ci ha mostrato le sue ferite e la sua forza, ci ha lanciato appelli di libertà e domande affilate come accuse («Quando capirete finalmente?»), a poco a poco abbiamo cominciato a distinguere volti che inizialmente ci sembravano tutti uguali, i diversi gradi di partecipazione, le differenti qualità di energia. Là, dietro quel velo nero, adesso sappiamo che ci sono degli uomini, che la reclusione e la sofferenza non sono dimensioni astratte, come non lo è il desiderio di libertà, che questo desiderio è capace di sostenere un corpo appeso alle sbarre con la sola forza delle braccia.
Gli applausi sono scroscianti, gli attori non si stancano a loro volta di applaudire il pubblico. Continuano a correre verso il proscenio e ad assalire le sbarre. Uno salta fuori, e con un balzo è in platea. Due escono a raccogliere gli applausi con i loro figli in braccio, che hanno potuto raggiungerli in questa strana tournée. Molti spettatori non trattengono le lacrime.
Ecco la cosa che non si riesce a dire. Che solitamente si nega, anzi, affermando il contrario: compiacendosi del fatto che lo spettacolo fa dimenticare di non avere davanti dei veri attori, parlando del miracolo del teatro. Questo spettacolo, in realtà non ci fa mai dimenticare che gli attori sono dei detenuti. Sono i loro volti ad essere inequivocabili, i tatuaggi, il tipo di energia sprigionata dai loro corpi, prima ancora della grata eretta sul proscenio. E questo è l'attrito, la contraddizione insostenibile. Il teatro non li ha trasformati, le persone che vediamo sulla scena e che ci appaiono impegnate in uno sforzo commovente sono quelle stesse da cui la società ci difende, e che si sono effettivamente macchiate di delitti anche orrendi (nessuno di loro protesta innocenza, ha scritto Punzo, e, d'altro canto, l'argomento delle loro condanne non è mai entrato nei loro discorsi).
Parlare di miracolo del teatro mette in pace la nostra coscienza di spettatori turbati. Perché quello che abbiamo visto non è stato solo uno spettacolo straordinariamente forte ed autentico, è stato anche l'immagine di una società solidale, dove attori e regista si aiutano e sostengono, dove è data la possibilità ad ognuno di esprimere il proprio talento, di scoprire possibilità espressive personali e di tradurle in risultato artistico oggettivo, dove è possibile trasformare la propria condizione senza via d'uscita in una rappresentazione in grado di suggerire vie d'uscita alla collettività, e questo senza rinunciare a gridarla fino in fondo la rabbia per quella condizione. E se il teatro non ha fatto miracoli, né li hanno fatti Armando e Annet (il cui lavoro è stato ben più difficile, evidentemente), allora ... Allora dobbiamo accettare che le responsabilità della collettività sono enormi, che le vicende degli uomini sono in molti casi prefigurate dal destino sociale che tocca loro, che invocare vizi della natura o peccati originali non ha alcun senso. Cosa che crediamo di sapere già molto bene, dai tempi di Rousseau almeno. Ma quando è uno spettacolo a farcelo sperimentare sulla pelle, è una verità che rischia di essere insostenibile.

1) Nei prossimi mesi toccherà probabilmente altre città. Fra le più probabili sono Palermo, Roma, Città di Castello. A tournée organizzata, coi necessari permessi già accordati e tutto il resto, è saltata invece la possibilità di portare lo spettacolo al Fabbricone di Prato, in questo mese di marzo, a causa di diversi orientamenti insorti nel frattempo nella direzione di quel teatro. Un comportamento che non può non suscitare rammarico e che riesce difficile giustificare.
2) Dalle note di regia a 'O juorno 'e San Michele, in La scena rinchiusa. Quattro anni di attività teatrale dentro il carcere di Volterra, a cura di Maria Teresa Giannoni, Piombino, TraccEdizioni, 1992, p. 80.
3) Annet Henneman, Momenti di libertà, in La scena rinchiusa, cit., p. 36.