Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 208
aprile 1994


Rivista Anarchica Online

La scrittura che non viene
di Elena Petrassi

Cosa accade quando molteplici fattori di diversità si intrecciano nella stessa persona? La protagonista di questa storia è una donna famosa, Kate Millet, femminista storica americana, libertaria, lesbica, scrittrice e folle. Quella di Kate Millet è una storia esemplare su come il pregiudizio e il controllo sociale operino nel tentativo di estromettere i matti dalla vita sociale e di come sia difficile liberarsi dall'etichetta di malato mentale. La sua volontà di raccontare il suo viaggio nel mondo della follia (Il trip della follia - Cronaca di una sofferenza, Kaos Edizioni 1994 - L. 35.000) nasce dalla consapevolezza che il raccontare ad altri quanto le è successo è una forma di «esorcismo, un recupero e una rivendicazione di sé». Un racconto che ha come scopo «di aiutare tutti coloro che sono stati o stanno per finire nella stessa barca, quanti vengono fatti prigionieri e scossi da questo grottesco sistema di credenze: la comune superstizione della «malattia mentale», la realtà fisica dell'incarcerazione e l'imposizione dei farmaci, infine la minaccia di essere rinchiusi in manicomio per sempre, o, se rilasciati, segnati a dito per il resto della vita».
La storia inizia con il racconto della prima trasgressione, cioè una storia d'amore omosessuale, non la prima della sua vita, vissuta in piena libertà e felicità. L'atmosfera della fattoria, che Kate sta cercando di trasformare in una comunità per artiste, è avvolta nella luce dorata dell'estate. La perfezione di questi istanti colpisce con la stessa intensità di un quadro impressionista e la consapevolezza della felicità che Kate sta vivendo è però già carica di neri presagi per il futuro; infatti lei ha smesso di prendere, all'insaputa anche della sua compagna, il litio, il miglior rimedio contro la sindrome maniaco-depressiva, riconosciuto dalla psichiatria ufficiale. Sono sette anni che lei è in cura con il litio, sette anni di effetti collaterali che rendono la vita ancor più difficile, tremore alle mani, diarrea. Fino a quando l'intera comunità della fattoria resta all'oscuro della decisione di Kate di interrompere la terapia, tutto continua a filare liscio, ma non appena Sophie e le altre ne vengono a conoscenza, i rapporti personali, l'atmosfera idilliaca pian piano si frantumano. Una telefonata alla sorella, fautrice del primo ricovero di Kate in clinica psichiatrica, diventa motivo di lite, di senso di colpa e di timore di un nuovo ricovero. Una gabbia va stringendosi attorno a Kate, la riprovazione delle amiche e della famiglia, lo stigma della follia, come liberarsene? Anche la sua autorevolezza con le giovani apprendiste, che lavorano alla fattoria quell'estate, vacilla, come se tutte le sue capacità artistiche e intellettuali potessero essere interamente sommerse dall'ondata nera della follia.
A nulla valgono i suoi pacati tentativi di ragionare sulle sue condizioni di salute, né la consapevolezza che l'abuso della prescrizione del litio è diventata una forma di controllo sociale; le amiche sono spaventate, hanno paura e la Millet nota come sia «strano e disorientante per loro avere a che fare con la magia insita nella follia, il suo potere di confondere e trasformare», Anche il sapere che dopo il primo ricovero l'abbandono di Fumio, il marito, (trasgressione nella trasgressione Kate Millet è bisessuale), la perdita del suo studio a New York, la disperazione a causa di queste perdite e il timore di un nuovo ricovero, la giustificano in qualche modo, così come non viene capito il suo terrore di non essere più in grado di scrivere. L'unico modo per non schiantarsi sotto il peso di questo dolore è, a questo punto, accettare il verdetto di pazzia e la deresponsabilizzazione da tutto ciò che ne consegue.
Quindi i sette anni di cura con il litio e di nuovo, dopo l'interruzione, quegli stessi momenti di abbandono causati non dalla decisione di chiudere quello stato di passività, di rifiutare «la collusione che il litio rappresenta», ma dal rifiuto e dal timore di chi la circonda.
L'estate finisce, il ritorno a New York è problematico, di nuovo l'incapacità di scrivere, la diffidenza, il problema dei soldi per mandare avanti la fattoria, e un tentativo di ricovero che questa volta fallisce inducono Kate a intraprendere un viaggio in Irlanda desiderato da tempo. Ma lì giunta, una serie di coincidenze sfavorevoli (la perdita di una macchina fotografica, un'auto a noleggio che non arriva, la curiosità di un poliziotto all'aeroporto) la conducono senza possibilità di fuga al manicomio della contea di Galway.
E la storia del suo internamento che somiglia a tutte le storie di internamento - cambiano i tempi, i luoghi e i protagonisti, ma non l'essenza della vicenda. La paura, il senso di estraniamento, le tecniche di sopravvivenza, il tentativo di non prendere le medicine, i pochi oggetti personali raccolti in un sacchetto di plastica, l'accondiscendenza nei confronti del personale para-medico quando nessun altro atteggiamento è più possibile. Le compagne di prigionia, la maggior parte delle quali dimenticate dal mondo, alcune persino incapaci di parlare. E la cancellazione insopportabile di ogni individualità, l'impossibilità di scrivere e quella di leggere, la domanda incessante sulla propria esistenza: chi sono? Chi sono? E sempre il dubbio lacerante: e se avessero ragione? E se davvero io fossi incapace, pazza?
Alla fine la liberazione, grazie all'intervento di alcune amiche irlandesi e il ritorno a New York, la certezza che per lei «la scrittura è l'unica via d'uscita ... la scrittura che non viene». Di nuovo la resa, il ritorno dal primo psichiatra che l'ha avuta in cura, l'impossibilità di fare altro che leggere e tormentarsi quando leggere non le riesce, il desiderio della morte che come la scrittura non viene. La possibilità di salvezza viene da un lavoro materiale: ristrutturerà case insieme a un'amica, Marcy, che gestisce una piccola impresa. Il lavoro aiuta la lenta rinascita, la riconquista della stima di sé, della voglia di vivere, poi un viaggio a Parigi e questo libro che prende forma, l'urgenza di raccontare la «follia» da dentro. Tutte le storie hanno una fine, Kate Millet entra in contatto con un'associazione per la difesa delle persone affette da «malattie mentali» e la decisione di cessare per la seconda volta l'assunzione del litio, senza dirlo a nessuno se non a quelli dell'associazione, e la certezza che anche senza litio poteva stare bene.
La storia di Kate Millet ha un lieto fine; di certo il fatto di essere una scrittrice l'ha aiutata a superare la paura e il dolore. Penso ai tanti che hanno perso sé stessi e che sono invisibili ai nostri occhi, penso alle loro storie «perse nel tempo come lacrime nella pioggia», e so che un libro come questo può aiutare la riflessione sul senso della salute e della malattia, sulla libertà e sul potere, e sulla necessità di un profondo lavoro di introspezione e auto-analisi, le uniche armi utili e necessarie per impedire che altri dicano chi siamo e come dobbiamo comportarci.