Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 208
aprile 1994


Rivista Anarchica Online

Lo sguardo del nomade metropolitano
di Filippo Trasatti

Le città hanno fin dall'antichità esercitato il loro potere di attrazione verso il centro, come luogo delle intersezioni, degli scambi e degli incontri, delle accelerazioni e della libertà. Nello spazio urbano si crea una nuova sedentarizzazione: mobile, fluida, sempre provvisoria, in contrasto con i ritmi ripetitivi, eterni, naturali della campagna. Dal primitivo nucleo attraverso un gesto necessario eppur altamente simbolico, la distruzione delle mura di cinta, le città hanno progressivamente inglobato le aree circostanti, infrangendo continuamente il limite precedente e creando un nuovo senso del confine, invisibile, instabile e provvisorio.
Ciò che distingue una moderna metropoli dalle città antiche, dai comuni medievali non è soltanto l'enorme incremento del numero di abitanti, ma la perdita del senso del limite, la non riconoscibilità del suo confine, la moltiplicazione delle identità della città. Metropoli come Parigi o New York sono una città, o non piuttosto una pluralità di città che solo nominalmente e amministrativamente hanno un nome comune?
Eppure lo choc della città sta nella folla: l'incontro con un fiume di persone irriconoscibili, estranee, che accentuano il senso della solitudine. Le metropoli moderne sono veri e propri deserti in cui la necessità di proteggersi dall'invasione di una vicinanza insostenibile ha accentuato il distacco dal presente, dal passante, dal vicino, cosicché chi sta a una spanna dal nostro naso, stipato insieme a noi in metropolitana, non potrebbe essere più distante da noi. Solo chi è in grado di cogliere questa paradossale situazione di compresenza nella distanza, di sostenere la solitudine nella folla e il moltiplicarsi dei punti di vista che rifrangono le identità stabili e abituali, può riuscire a resistere alla tentazione di fuggire dalla città.
Novello nomade metropolitano Lorenzo Fantini, giornalista collaboratore di «Milano, Italia», autore del libro Milano 1994, (Feltrinelli, Milano 1994), sceglie di fuggire attraverso la città restando dentro ai suoi confini sempre sfumati, percorrendola non a caso lungo le grandi direttrici che dal centro portano verso l'esterno o lungo le grandi circonvallazioni che sembrano ruotare inutilmente intorno a un centro divenuto ormai soltanto luogo di intensificazione degli scambi economici ad alta intensità di capitale.
La scelta dell'autore, di un attraversamento veloce della città, mi sembra felice e permette di leggere le metropoli moderne (delle quali Milano può essere considerata un modellino in scala molto ridotta) come un intreccio di tempi, luoghi e storie alla ricerca di un'impossibile unità. Chiunque viva in città, o la frequenti spesso, può rendersi conto di come sia necessario, per sopravvivere, ritagliarsi non solo delle immagini di città (il meno possibile contraddittorie), ma ben di più, disegnare vere e proprie mappe di attraversamento, centri di senso (luoghi affettivi, di interesse, di cultura), segnali di riferimento che sono assolutamente individuali. Spesso parlando con gli amici della propria città si scopre di vivere in città differenti, che hanno pochi punti di contatto. La sensazione netta per chi legge il libro conoscendo Milano è quella di una profonda estraneità, non solo perché l'autore descrive molti luoghi che hanno solo l'onore della cronaca nera, ma perché intreccia insieme - intorno a nodi provvisori come una bancarella, un chiosco delle bibite o un'edicola - volti, storie, vite assolutamente differenti e incompatibili.
«Intorno al banco si è raccolta una piccola folla. Sono donne anziane con la pensione sociale, una tiene per mano il figlio spastico, ragazze-madri, ragazze maggiorenni col diploma di terza media, mogli di dipendenti comunali, ex-impiegati di settimo livello oggi in prepensionamento, cassintegrati che fumano Ms in tuta da ginnastica, giovani capoverdiani con la musica al massimo che esce dallo stereo appoggiato sulle spalle» (pag. 48). Queste ed altre situazioni analoghe, così tipiche delle metropoli moderne, creano un effetto di spiazzamento, di sorpresa che fa pensare al motto dei surrealisti (ripreso dal poeta Lautréamont) che della bellezza dicevano: «bello come il fortuito incontro, su un tavolo anatomico, di una macchina da cucire e di un ombrello»; salvo che qui la bellezza si dissolve per lasciare il posto a una sorpresa non sempre gioiosa.
La dimensione più tangibile è quella del conflitto latente, continuamente rimandato, con l'impressione forte che se la città dovesse fermarsi, o anche solo rallentare la sua velocità, esploderebbe in pochi istanti. Eppure i conflitti ci sono, ovunque se ci si ferma a guardare. Tra ebrei e skin: si scopre così che a Milano un'associazione di ebrei tiene sotto controllo uno per uno i movimenti del manipolo di teste rapate. Tra venditori ambulanti extracomunitari e italiani, tra terùn e milanès, tra ebrei e arabi, tra nomadi (zingari) e sedentari. Infine come è ovvio tra le luci della città e le ombre cupe della notte e della periferia, tra i ricchi che abitano le strade che sprizzano moda dal selciato e i poveri che vivono in luoghi senza strade. Ogni tanto a spezzare il ritmo del viaggio, qualche freddo dato statistico: «la povertà conosciuta a Milano nel 1986 ammontava a 66.000 unità tra anziani, disagiati, tossicodipendenti, emarginati gravi, minori, pari al 4,4% della popolazione residente, con una stima che, confermata anche da un recente lavoro di Franz Foti, sale a più del doppio, pari a circa il 12% della popolazione residente» (pag. 54). Abbiamo spesso bisogno di cercare altrove cose che sono sotto i nostri occhi; gridiamo allo scandalo per i tagli della Thatcher che hanno ridotto a pezzi l'Inghilterra e non riusciamo a vedere ciò che orbita intorno alle città in cui da anni viviamo. Ghetti, isole, luoghi informi osservati con uno sguardo fisso e lucido, non annebbiato dalla pietà: è un esercizio salutare per uscire dall'ipnosi mediatica. La corsa frenetica, il viaggio, come lo chiama l'autore, in taxi per tutta la città, ci fa vivere con il ritmo di un film, toglie spazio al sentimento, ci disloca continuamente con una tecnica simile al Blob televisivo. Dislocazione spaziale e temporale: altri tempi, altri luoghi, altre storie che si intrecciano a costruire tridimensionalmente quella città
multipla che quotidianamente ci sfugge. Affascina anche la ricostruzione storica, breve e puntuale, che dà un nuovo senso ai luoghi: una piazza famosa di Milano, piazza Vetra, un tempo luogo di spaccio la notte e di giorno parco per i bambini, era un tempo la piazza delle esecuzioni; oppure i navigli di un tempo, o un frammento delle mura spagnole rivivono senza nostalgia una vita diversa, distaccandosi per un istante dalla piatta quotidianità.
Il libro insomma insegna un metodo diverso per guardare la città, che non è una ma tante, per tenere insieme ben visibili sotto il proprio sguardo i molteplici conflitti etnici, economici, culturali e politici delle metropoli.
Dopo aver seguito l'autore per questa strada non si può far a meno di chiedersi se e come tutto questo caos di differenze potranno mai convivere insieme, con un tono lievemente pessimistico. Inaspettatamente invece l'autore conclude il viaggio con una nota di speranza, decisamente dissonante, come è nel suo metodo, con quanto ha appena mostrato. Dal rapporto sullo stato del mondo, redatto da un gruppo di scienziati del Mit (Oltre i limiti dello sviluppo), si conclude con questa sorprendente citazione: «La cultura moderna non consente di parlare apertamente di amore, se non nel senso più banale e romantico della parola: chi facesse appello alla capacità di praticare un amore fraterno sarebbe più probabilmente sbeffeggiato che preso sul serio. La differenza più profonda tra ottimisti e pessimisti si può riconoscere dalla posizione che essi assumono riguardo alla possibilità che gli esseri umani possano operare collettivamente, su una base di amore. In una società che promuove in modo sistematico l'individualismo, la competitività e il cinismo, i pessimisti costituiscono l'ampia maggioranza. Questo è, a nostro giudizio, il più grande problema dell'attuale sistema sociale e la più profonda causa di insostenibilità» .
Strane parole in bocca a tecnici e tecnocrati del Mit. Che i tecnici abbiano rinunciato a gestire le nostre vite, davanti alla sconfortante complessità dei problemi moderni, amplificati e resi visibili dalle moderne metropoli? Quanto a noi, abbiamo sotto gli occhi un campionario tale di problemi con cui confrontarci quotidianamente che a prenderlo sul serio dovrebbe toglierci il sonno. Essendo la metropoli luogo del moderno per eccellenza, essa sembra il luogo più adatto per mettere alla prova l'efficacia e la «modernità» di una teoria e di una pratica politica alternativa.