Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 197
febbraio 1993


Rivista Anarchica Online

Vivere da anarchica
di Rosanna Ambrogetti

All'età di 89 anni, è morta a Bologna Maria Zazzi. Per ricordarne la figura umana e militante, ripubblichiamo l'intervista che le fece Rosanna Ambrogetti nel numero 91 di "A" (aprile 1981)

Maria Zazzi, settanta anni, una lunga militanza alle spalle, una militanza attiva anche se poco "famosa". La sua militanza si è svolta soprattutto all'estero: Francia, Belgio, Spagna, sempre in movimento da un posto all'altro. Conosco Maria adesso, che ha dato tutto il possibile alla lotta; ma non si è fermata, è sempre presente ovunque ci sia un'attività, una prospettiva di lavoro che la interessi. Con lei ho voluto parlare del suo passato ed ho ascoltato molto: il racconto è semplice, fatto con una modestia grandissima, la modestia di chi, avendo creduto sinceramente in quello che faceva, pensava di non fare mai abbastanza.
Ma quello che più mi ha colpito nel suo racconto è ciò che traspare fra le righe: l'entusiasmo che l'ha accompagnata; la totale disponibilità ad una lotta che, come lei stessa dice, era la sola ragione, il solo modo per sopportare la misera vita di allora; il "mutuo appoggio", realizzato nella pratica con spontaneità fra i compagni; infine la semplicità con cui ha superato la difficoltà che il suo essere donna, certamente una volta più di ora, poteva comportare, per essere fino in fondo una compagna al fianco ed al pari dei compagni. Certamente esperienze come questa è meglio ascoltarle che leggerle, ma spero che anche dallo scritto, senza dubbio meno efficace del racconto, possa scaturire ciò che ho colto dalla viva voce di Maria.

Maria più che farti domande, preferirei fossi tu a raccontarmi un po' la tua militanza, la tua vita di compagna anarchica. Oppure una prima domanda potrebbe essere: come è cominciata?

Molto semplicemente. Quando avevo circa diciannove anni, nel 1923, partii per la Francia. Dovevo andare a Parigi da mio fratello; sua moglie era morta di parto e lui avevo bisogno di qualcuno vicino, soprattutto per la bambina appena nata. All'epoca non ero ancora coscientemente anarchica, ma già, istintivamente, avevo un spirito libertario. Appena in Francia poi, conobbi Armando Malaguti, che molto tempo dopo diventerà mio marito, anarchico fuggito da Bologna per una lite con un pezzo grosso fascista. Tramite lui cominciai a frequentare compagni ed ambienti anarchici e gradatamente mi ritrovai nelle loro idee, anarchica anch'io. Infatti quello che doveva essere un breve soggiorno a Parigi divenne l'inizio della mia "militanza", della mia vita movimentata assieme ad Armando, sempre costretti a spostarci da un posto all'altro.

Maria qual era la composizione sociale dei gruppi con cui sei stata in contatto e qual era la vostra attività?

A Parigi i gruppi anarchici erano in gran parte composti da operai, anche se non mancavano alcuni studenti. C'era qualche intellettuale, mentre invece erano quasi completamente assenti le donne. Inoltre con l'emigrazione fascista si erano aggiunti anche molti lavoratori italiani. In quel periodo la nostra attività era volta soprattutto all'assistenza ai rifugiati ed alla propaganda, particolarmente nei luoghi di lavoro. A Parigi conobbi la famiglia Berneri a cui fui molto legata e che ricordo sempre con molto affetto. La nostra attività procurò ad Armando vari arresti e la nostra vita fu per questo molto movimentata.
Infatti nel 1927 ci trasferimmo nel Lussemburgo poi in Belgio a causa di un mandato di espulsione che aveva colpito Armando. Prima andammo a Seraing, poi a Liegi, per fermarci infine a Bruxelles. Anche a Bruxelles entrammo subito in contatto con i compagni anarchici. Qui conobbi anche Ida Mett (autrice de "I contadini russi 50 anni dopo" n.d.r.) e suo marito Nicola Zarevic, fuggiti dalla Russia. Più avanti conobbi anche Durruti ed Ascaso. Del gruppo con cui lavoravo io faceva parte anche un professore, Giulio Manon, che fu condannato a 10 anni di carcere per aver messo una bomba carta (tra l'altro rimasta inesplosa) nel pianerottolo di casa di un giudice che aveva condannato ad una pena durissima un giovane compagno anarchico.
Dopo cinque anni gli fu concessa la grazia, ma egli molto coerentemente la rifiutò. Anche qui a Bruxelles la nostra attività continuava fra la propaganda e l'assistenza ai rifugiati. Ricordo che, precedentemente, a Liegi, mi occupavo soprattutto di portare cibi, vestiti e saluti ai compagni in carcere e siccome mi presentavo sempre come zia del compagno di turno che cercavo, i secondini mi affibbiarono il soprannome di "tante Marie" (zia Maria). In Belgio fu molto importante l'agitazione a favore di Sacco e Vanzetti. Questa campagna culminò il giorno dell'esecuzione con uno sciopero generale organizzato da noi. La sera prima, ai capolinea, riempimmo tutti i tram di manifesti inneggianti allo sciopero generale, ricordo che io ero assieme a Bruno Guaraldi e a Sbardellotto. I sindacati ufficiali non promossero nessuna iniziativa, né furono al corrente della nostra. Per cui all'indomani mattina, quando - spinti dalla nostra propaganda - i lavoratori aderirono in massa allo sciopero di protesta, restarono di sasso.

Al di là del lavoro strettamente politico, che impressioni, che ricordi hai di questo periodo?

Di tutto questo periodo ricordo sempre con piacere la grande solidarietà che esisteva fra i compagni. Ci si aiutava reciprocamente, si divideva quel poco che c'era, ci si sosteneva moralmente, in modo spontaneo, pronti ad affrontare assieme, serenamente, sia le piccole cose di ogni giorno sia la continua persecuzione poliziesca. Proprio a proposito della solidarietà che si manifestava tutti i giorni, ricordo che poiché io col mio lavoro (facevo la sarta per uomo) aiutavo anche alcuni compagni che stavano da noi, questi molto naturalmente e spontaneamente mandavano avanti la casa.

Andando avanti nei ricordi, rimaniamo in Belgio o siamo di nuovo in movimento?

I ricordi sono tanti e parlandone ne riaffiorano sempre alla mente, in modo non sempre ordinato. Ma almeno cercherò di parlarti delle tappe più importanti. A Liegi Armando, per un litigio con un prete fascista (faceva parte di una delle tante "opere di assistenza per gli emigranti" che il fascismo in accordo con la Chiesa aveva seminato all'estero ovunque ci fossero emigranti da "controllare") fu colpito da espulsione. Cercammo però di rimanere in Belgio ed Armando continuò a stare a casa clandestinamente.
Però un giorno arrivarono a casa dei poliziotti per cercare Armando, che fortunatamente era assente; perquisirono la casa e mi interrogarono, chiedendo spiegazioni per gli abiti maschili trovati. Io non mi feci intimorire, ma dopo questa perquisizione decidemmo di tornare a Bruxelles. Io però alla stazione fui fermata e portata al commissariato a causa di un mandato di espulsione spiccato contro di me a Liegi. Quando fui portata davanti al commissario però mi accorsi che nel mandato di cattura il mio cognome era sbagliato (Faggi anziché Zazzi) ed anche la foto non molto chiara non poteva assicurare con precisione la mia identità.
Giocando su queste cose tentai il tutto per tutto ed insistei sul fatto che non ero la persona che cercavano. Effettivamente non poterono fare altro che rilasciarmi, chiedendomi però di tenermi a disposizione. Naturalmente li presi alla lettera e raggiunsi immediatamente Parigi (era il 1932) dove mi ritrovai con Armando e dove riprendemmo subito i contatti con i compagni. Durante questo secondo periodo a Parigi conobbi anche Machno e Volin.

Maria , fra i compagni che hai conosciuto hai già citato parecchi nomi poi passati alla storia (i Berneri, Ascaso, Durruti, Ida Mett, ed ora Machno e Volin). Di tutti loro che impressioni hai avuto?

Erano compagni eccezionali. Di tutti loro ho un ottimo ricordo; erano di una modestia e di un cameratismo eccezionali, non si comportavano affatto da "superiori" nonostante la stampa borghese spesso li presentasse come dei capi. In genere la stampa li presentava come uomini d'azione, mentre invece erano anche uomini di pensiero, in grado di affrontare qualunque argomento o contraddittorio.

E del periodo "Spagna": cosa puoi dirmi?

Quando scoppiò la guerra di Spagna, Armando andò subito a Barcellona e di lì andò con la colonna Ascaso, a combattere a Monte Pelato, sul fronte d'Aragona. Poco dopo andai anch'io a Barcellona.

Maria, ciò che noi leggiamo su Barcellona è più vicino al mito o alla realtà?

Barcellona era una cosa fantastica. Arrivando là si entrava in un altro mondo. Si vedeva veramente da ogni cosa, dalla più grande alla più piccola, che era avvenuto un grande cambiamento. Si viveva in piena solidarietà e fraternità con la coscienza di lottare non solo per abbattere il fascismo, ma per costruire un mondo migliore basato sull'uguaglianza e sulla libertà.

Oltre agli anarchici, quali erano le altre forze politiche che lavoravano in questo senso?

Per quel che vidi io, oltre agli anarchici ed al piccolissimo POUM, non c'erano altri che si impegnassero sinceramente per far trionfare questi principi rivoluzionari. I comunisti, contrariamente a quanto si legge nei loro libri, erano del tutto assenti e solo dopo i fatti del maggio '37 riuscirono ad avere posto nella vita di Barcellona. Io comunque non mi fermai molto in Spagna e poco dopo tornai a Parigi. Armando tornò dalla Spagna in licenza nel '37 ma fu subito arrestato. A Parigi mi occupavo soprattutto di sistemare i compagni che tornavano dalla Spagna. Trovavo loro documenti e alloggio e vi assicuro che non c'era molto tempo per fermarsi.

Nel 1939, quando ci fu l'invasione tedesca, dove ti trovavi?

Quando ci fu l'invasione tedesca io mi trovavo ancora a Parigi, nonostante l'invito delle autorità francesi ad evacuare la città. In dicembre fui arrestata dalla Gestapo e portata al quartier generale. Fui subito interrogata: volevano informazioni su Armando Malaguti ed io per non tradirmi decisi di rispondere sempre "non lo so". Mi interrogarono per tutta la giornata, ma non mi fecero nulla. Verso sera mi portarono in cella dove rimasi sola per tutta la notte. Dalla cella sentivo le urla, che non cessavano mai, di quelli che venivano torturati. Il giorno dopo ripresero lo stesso interrogatorio. Ad un certo punto mi chiesero l'indirizzo ed il mio nome: io ormai non li ascoltavo più e risposi col solito "non lo so". A questa mia risposta uno di loro mi dette un pesante ceffone, poi fui riportata in cella.
Non subii altri maltrattamenti e dopo tre giorni e tre notti fui rilasciata. Appena fuori mi recai in un bar, che sapevo frequentato da compagni, sperando di avere notizie di Armando: anche lui era stato arrestato. Il giorno dopo il mio rilascio subii una perquisizione, volevano di nuovo strapparmi notizie di Armando e, alle mie risposte negative, mi schiaffeggiarono di nuovo. Cominciai a cercare Armando in tutte le prigioni di Parigi. In una trovai Giovanna Berneri anche lei in arresto. Alla fine trovai anche Armando: chiesi un permesso di visita che mi fu negato, ma con decisione mi rivolsi direttamente ai francesi, che non vedevano di buon occhio i tedeschi occupanti, e con qualche stratagemma riuscii a vederlo. Dopo un mese Armando fu portato in Germania ed in seguito mandato al confino a Ventotene. Questo lo venni a sapere solo tre mesi più tardi da mia sorella e nel '42 cercai di tornare in Italia. Alla frontiera fui fermata per tre giorni: nel visto che mi avevano rilasciato al consolato c'era un segno particolare che mi aveva segnalata alla polizia di frontiera. Tornai comunque a Bologna e qualche tempo dopo andai a Ventotene per vedere Armando. Per vederci occorreva però un ottimo motivo e così decidemmo di sposarci. A Ventotene c'era, come capo della polizia, il "famoso", per noi anarchici, questore Guida. Al confino fui aiutata da Pertini e da Terracini, che se ne intendevano più di noi, per ottenere i documenti necessari al matrimonio.
Questi documenti però tardavano ad arrivare e Pertini mi consigliò di tornare a Bologna - nonostante l'opposizione di Guida che voleva aggregarmi alle confinate - per poter sfruttare una seconda volta il diritto alla visita matrimoniale. Successivamente Armando fu trasferito ad Ustica e poi a Renicci d'Anghiari da dove scappò dopo l'8 settembre 1943. In seguito continuammo la nostra militanza a Bologna. Armando, da certi documenti trovati da dei compagni a Firenze, risultava fucilato per cui fummo lasciati abbastanza tranquilli.
Lavoravamo con i partigiani nell'attività antifascista, aiutavamo i compagni vivendo alla giornata e rischiando più volte di essere scoperti; in questi casi la fucilazione era assicurata. Fui però delusa dall'ambiente dei compagni italiani. Mi mancava il clima fraterno che avevo sempre trovato tra i compagni con cui avevo lavorato all'estero. Non c'era la stessa forte solidarietà che ci aveva sempre sostenuto, che ci aveva fatto proseguire nella lotta con sempre maggior energia, perché sì, i rischi erano tanti, ma quella era la sola ragione, il solo modo di poter sopportare la misera vita di allora

Maria, e adesso?

Beh, il movimento anarchico è sempre il mio punto di riferimento, l'idea è sempre la stessa e sono contenta quando vedo compagni giovani lavorare con impegno. A modo mio sono con loro; se posso cerco ancora di aiutarli.

Maria per "chiudere", diciamo così, il tuo racconto di compagna militante vorrei farti una domanda che è una mia curiosità personale. Anch'io sono una compagna e sto vivendo la mia militanza circa 40 anni dopo la tua, sono tentata ai paragoni: che cosa ha significato per te essere "donna" nella lotta? Cosa pensi di questo problema in generale?

Certamente non posso che essere d'accordo col desiderio di emancipazione della donna, con la volontà di superare questa discriminazione, anche se ormai per me non ha molta importanza. Devo dire però che io non ho avuto grosse difficoltà; innanzitutto ho vissuto e lavorato quasi sempre con compagni, donne ce n'erano poche e quando c'erano non eravamo molto affini. Poi nel lavoro politico ed anche nella vita, dal mio compagno e da tutti i compagni con cui ho lavorato non sono mai stata discriminata e non mi sono mai comportata come tale.

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Così ricordo Maria: una figura limpida

Mercoledi 5 gennaio, nell'ospedale bolognese in cui era da tempo ricoverata, è morta Maria Zazzi. Era nata nel 1904 a Perino (Piacenza). Con lei scompare una limpida figura di militante anarchica, una donna semplice e buona, per oltre un sessantennio sulla breccia dell'impegno sociale.
La conobbi all'inizio degli anni '70, nella casa bolognese al Roncrio in cui viveva con Libero Fantazzini, il compagno anarchico con cui - dopo la morte di Armando - ha condiviso l'ultima parte della propria vita. La loro casa è stata sempre un punto di riferimento e di ospitalità per gli anarchici bolognesi, per i tanti compagni immigrati a Bologna dal Sud per ragioni di studio o di lavoro, per chiunque bussasse alla loro porta.
Presenti, finché hanno potuto, a tutte le iniziative di propaganda e di lotta in giro per l'Italia, Maria e Libero hanno rappresentato davvero un felice tramite tra la loro generazione temprata dalla lotta antifascista e noi avvicinatici alle idee anarchiche a cavallo tra gli anni '60 e '70. Con loro queste idee comuni trovavano il confortante riscontro di due vite vissute e, ancor più, di due mentalità aperte.
Maria era ricca di umanità e buonsenso, infondeva serenità. Lei che non aveva avuto figli, è stata anche un po' "mamma" per tanti giovani: pronta a cogliere gli aspetti positivi della ribellione giovanile contro le ingiustizie sociali, ad indirizzarli verso un impegno militante, ma anche a temperarne gli eccessi, a ricondurre il tutto in un quadro di profonda umanità e di equilibrio.
Dietro quel suo aspetto minuto e dimesso, batteva un gran cuore e si celava una volontà di lotta e di trasformazione sociale che né l'età né le avversità della vita hanno mai potuto scalfire.
Dispiace che all'obitorio dell'ospedale, presso cui ci siamo ritrovati per darle l'estremo saluto, non le sia stato risparmiato l'insulto di una cerimonia religiosa che Maria mai avrebbe voluto e che offende sia noi atei e liberi pensatori sia chi ha una fede religiosa ma non per questo pretende di imporla agli altri.

Paolo Finzi