Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 197
febbraio 1993


Rivista Anarchica Online

Oltre l'individualismo
di Filippo Trasatti

Bencivenga è un filosofo che attualmente lavora negli Usa e che inizialmente si è occupato di filosofia del linguaggio. Ha scritto recentemente due libri introduttivi alla filosofia, Giochiamo con la filosofia (Mondadori, 1990) e La filosofia in trentadue favole (Mondadori, 1991) in cui presenta le tematiche filosofiche in modo insolito, piano, antiaccademico. Il suo libro più recente, Oltre la tolleranza (Feltrinelli, 1992) è un libro ambizioso, come il sottotitolo tende a sottolineare: per una proposta politica esigente. Un libro per alcuni versi in sintonia con un altro uscito recentemente di Claudio Pozzoli, L'utopia possibile (Rusconi, 1992), per la critica della politica attuale, entrambi segnali forse che qualcosa nel mondo degli intellettuali si sta muovendo per riconsiderare la politica, al di là degli scandali quotidiani, delle parrocchie politiche, delle ridicole quanto inconsistenti proposte di cambiamento dei partiti.
Un modo di considerare la politica impietoso che mette in luce in primo luogo come oggi la politica sia il luogo non del progetto ma della sua assenza; una follia politica che si ammanta degli abiti della Realpolitik, che vorrebbe gestire la complessità, quella degli intrighi partitici più che la complessità del reale.
Il cosiddetto realismo politico proclamato dai nostri governanti, in coro con gli intellettuali della morte dell'utopia, consiste nello spostare i problemi, nell'affrontarli con miopia, relativamente al proprio campo visivo limitato e particolare, senza minimamente considerare le conseguenze globali delle proprie azioni. Di questa arte il capitalismo mondiale pienamente sviluppato è maestro: la questione ambientale e i devastanti problemi del Terzo Mondo, ponendo con radicalità la questione dei limiti e delle conseguenze dello sviluppo, ne hanno rivelato in modo abbacinante il risvolto irrazionale. Il capitalismo ha saputo sfruttare il mito popolare e rivoluzionario del paese di Cuccagna, e non può arrendersi all'evidenza che la festa è finita. Eppure tutto continua quasi come se niente al mondo succedesse davvero, forse in ossequio a quegli intellettuali che, come Baudrillard, hanno teorizzato la vittoria mondiale della logica della simulazione. Si dice, e forse a ragione, che il catastrofismo non conduce a nulla di buono e anzi serve a giustificare indirettamente un certo immobilismo.
Ma questo è vero quando si tratta di un catastrofismo semplicistico, che non indaga le ragioni e le responsabilità, gli errori e le strade possibili, i desideri e le possibilità. Si dimenticano rapidamente gli orrori che questo secolo ormai al tramonto ha portato con sé e non sono certo graditi coloro che continuamente puntano il dito e volgono lo sguardo verso un passato di macerie e sangue, stilando un memorandum all'incontrario, buono per la meditazione e indispensabile nel momento delle decisioni importanti.
Bencivenga ha l'indubbio merito di schierarsi apertamente per gli oppressi, "quelli sottoterra" come li chiama lui, i dannati della terra. "Io sto dalla parte di quelli sottoterra. Che cosa vuol dire? Che considero le comodità e gli agi di cui è piena la mia vita privilegi ingiustificati, non il meritato frutto del mio duro lavoro (...) Che, il giorno in cui quelli sottoterra verranno a reclamare la loro parte e a togliermi di mezzo insieme a tutti i miei complici, avranno ragione. (...) Che la più dolorosa e ingiusta violenza fatta a quelli sottoterra consiste nel farli passare dalla parte del torto: dettare le regole di un gioco in cui non possono che risultare perdenti e poi accusarli di non stare alle regole" (pp.14-15). Parole dure: che ci sentiamo o no direttamente responsabili dello stato del mondo, sicuramente siamo colpevoli di omissione di soccorso quotidianamente. E la risposta non sta evidentemente nella carità (più o meno pelosa) che è un atto individuale che ognuno giudica secondo i propri valori, ma in un cambiamento radicale della politica, del modo di vivere, del modo di pensare, in una proposta alternativa.
Ma prima di arrivare alla proposta politica, che costituisce l'ultimo capitolo del libro, Bencivenga da filosofo si addentra su un problema importante che sta alla base di un certo modo di concepire la politica: la dottrina dell'individualismo, che ha implicazioni economiche, politiche e psicologiche di notevole portata. La tesi è interessante: la politica miope di cui si parlava all'inizio sarebbe il frutto maturo di una concezione dell'individuo che risale all'illuminismo, in cui l'individuo cioè è al centro dell'universo come soggetto pieno, dotato di diritti inalienabili e naturali, onnipotente all'interno quanto pretenzioso all'esterno, unità in contrapposizione ad altre unità che per lui sono l'altro. Il percorso di Bencivenga qui si fa arduo e tenterò di semplificarlo.
La questione cruciale è quella dell'identità: se ne parla in ambito politico, nazionale, psicologico. Sembra scontato che l'identità sia un valore irrinunciabile e forte: per essa lotta una persona per tutta la vita e interi popoli e gruppi etnici. Ma se affrontata da un diverso punto di vista la questione si fa più complessa: innanzitutto non c'è mai una sola identità, ma più identità tra loro interconnesse, parzialmente contraddittorie, stratificate, a diversi livelli di sviluppo storico e personale. Melucci, definendo l'identità, chiarisce in questo modo il problema: "Di identità possiamo parlare a proposito di un individuo o di un gruppo, ma nei due casi ci riferiamo a queste tre caratteristiche: continuità di un soggetto al di là delle variazioni nel tempo e degli adattamenti all'ambiente; delimitazione di questo soggetto rispetto agli altri; capacità di riconoscersi e di essere riconosciuto". (Il gioco dell'io, Feltrinelli, Milano, 1991 , p. 35-36). Queste tre caratteristiche potrebbero essere così tradotte: unità, differenza, appartenenza.
L'individuo, o il gruppo, per costituire la propria identità in contrapposizione ad altri, chiede di essere riconosciuto, attraverso caratteri distintivi, differenze rispetto agli altri, appartenenze rispetto a gruppi a cui si sente di appartenere. L'identità pero non è qualcosa di definitivo, chiuso, indipendente: è un processo continuo che dalla nostra nascita fino alla morte rimodella continuamente il confine tra io e altri, in un gioco di molteplici appartenenze dovuto ai complessi meccanismi di differenziazione sociale. Viviamo e non possiamo fare a meno di vivere in un sistema dalle molteplici appartenenze. Questo significa che appellarsi alla propria identità è scegliere una tra le proprie identità e farne una bandiera, mettendo in secondo piano le altre identità che ci compongono.
Ma se l'identità è differenza e libertà rispetto ad altro, essa rischia altresì di diventare prigione per se stessi; ecco il doppio versante anche politicamente rilevante del problema dell'identità: identità è al tempo stesso libertà in quanto si sottrae alla determinatezza del dato, ed è prigione in quanto produce per sé un reticolo che si protegge ma anche rinchiude ed esclude dall'altro, dal mutamento e quindi nega la propria libertà. Questa tematica acquista concretezza nel campo della rivendicazione dei diritti di una minoranza, poniamo quella omosessuale. Proclamare un'identità, e quindi una differenza rispetto agli altri, e richiedere in base a questa identità dei diritti speciali può certamente servire a proteggere dalle vessazioni e dalle discriminazioni cui la minoranza omosessuale è continuamente sottoposta, ma significa nel contempo irrigidirsi entro un campo di identificazione troppo rigido, entro un insieme di categorie che, per essere riconosciute dagli altri, richiedono una certa stabilità e riconoscibilità sociale.
L'alternativa non è rinunciare all'identità, ma proporre una concezione costruttiva e aperta dell'identità alla cui base sta una versione radicalmente diversa dell'individualismo. E qui torniamo al percorso filosofico proposto da Bencivenga. Dopo aver criticato la concezione tradizionale dell'individuo come atomo sociale, naturalmente dotato di ragione e di diritti, fornito di identità sostanziale e riconoscibile, l'autore propone di considerare l'individuo essenzialmente come pluralità, come luogo della differenza, come dialogo: "un'isola di diversità in un mondo identico, ma un'isola la cui identità è precisamente il suo essere diverso" (p.87); "il soggetto non è un individuo ma piuttosto una comunità(...); è dalla comunità, da quella che fisicamente circonda il soggetto, che quest'ultimo raccoglie tutto il materiale della sua diversità" (93-94). Tutto ciò che consideriamo più proprio, il minimo gesto, la frase, le abitudini, l'articolazione della nostra visione del mondo ci viene dall'esterno, ma in noi, e questo è il proprio dell'individuo, avviene quel bricolage di differenze senza le quali non saremmo vivi e non saremmo noi. Ecco perché la diversità è ricchezza, e ogni arroccamento sulla proprietà privata dell'individuo è allo stesso tempo furto e impoverimento.
Perché allora, al contrario, avviene che la diversità fa paura? Perché la diversità sembra una continua minaccia alla nostra identità? A questa questione assai complessa sono state date tante risposte a livelli diversi: psicologico, sociologico, etnologico, antropologico. A livello filosofico si può dire che il diverso ci fa paura perché lo pensiamo come totalmente altro, e il totalmente altro è l'inconoscibile il cui modello fondamentale è per noi la morte. Questo totalmente altro ha nell'economia psichica una traduzione fortemente emotiva che nasce lontano alle origini della nostra storia, laddove in uno stato di dipendenza quasi assoluta abbiamo succhiato insieme al latte la paura che l'altro tanto più potente di noi, mamma-ambiente-tutto ci abbandonasse privi di amore. Gli studi psicologici sul conformismo e la devianza, che vanno considerati con molta cautela, mostrano che la riprovazione e il rifiuto del deviante variano considerevolmente a seconda dello status che egli ha nel gruppo; è inoltre piuttosto facile constatare come in certi ambienti, quello artistico per esempio, la devianza venga assunta come valore positivo. Una certa etologia, insistendo sul concetto di territorialità, mutuato dal comportamento animale, ha preteso di affermare la naturalità di un comportamento predatorio umano per la difesa del proprio territorio, dall'altro, il nemico, l'intruso. L'individuo inserito in un sistema sociale stratificato e gerarchico, dominato dalla razionalità strumentale e scientifica, dal potere delle merci e dalla cultura di massa, si svuota progressivamente e accede a quella che Christopher Lasch chiama "cultura della sopravvivenza" in cui è necessario difendersi dallo strapotere dell'ambiente esterno, sottratto ad ogni controllo, e rifugiarsi in un'intimità mimetica che assume i colori dominanti per poter meglio proteggersi. Queste e molte altre più complesse ragioni possono spiegare la nostra abitudine a concepire l'altro come estraneo da evitare, sopraffare, omologare. Ma in questo non c'è nulla di naturale, se per naturale intendiamo qualcosa di dato e immodificabile. "La Terza via cercata, in aggiunta e in alternativa al distruggere l'altro e al renderlo identico a noi, consiste nell'imparare l'altro (senza dimenticare quello che siamo già)" (p. 118).
Ed eccoci finalmente arrivati, dopo questo lungo percorso, alla proposta politica esigente (come la chiama l'autore): dare assoluta centralità in politica al valore educazione, educazione alla complessità in cui per le ragioni che si sono sopra delineate, obiettivo primario diventi allargare le frontiere della propria individualità, imparare comportamenti articolati e molteplici. Questa proposta "richiede uno stato che non si limiti a stare a guardare, ma fornisca invece direttive precise e le sostenga con una politica adeguata. Uno stato che, per esempio, tassi all'inverosimile ogni prodotto di lusso, consideri seriamente l'eliminazione dell'ereditarietà dei beni e incentivi con vigore attività di scambio e promozione culturale" (p. 122). Proposte che mi trovano assolutamente consenziente, salvo per un particolare non trascurabile: una concezione profondamente diversa dello stato. Bencivenga si illude che attraverso una discussione, un movimento di opinione, uno scontro politico, si possa arrivare a convincere gli avversari dell'utilità e della razionalità di queste scelte politiche. Pensa addirittura a come convincere eventuali elettori della bontà di questo programma. Dimentica o trascura che una struttura di potere si fonda su interessi che di razionale hanno poco, oltre il dominio.
Ammettiamo, per amor di discussione, che un tal ministro delle finanze proponga (perché per imporlo dovrebbe fare un colpo di stato) di eliminare l'ereditarietà dei beni: che cosa c'è di più facile che trasferirli all'estero, a pochi passi dal confine in una banca svizzera? E certamente sarebbe difficile convincere il padrone della fabbrichetta brianzola, magari di fucili, a lasciare pacificamente allo stato tutto ciò per cui ha lavorato.
Voglio dire che forse il nostro non si rende conto che sta proponendo qualcosa che porta molto vicini alla rivoluzione, che intacca profondamente il concetto di proprietà privata dei beni, di cui liberamente il soggetto giuridico può disporre, su cui il nostro ordinamento è fondato. Questa proposta politica è dunque assolutamente incredibile per le gravi carenze di analisi socio-politica che essa porta con sé.
Ciò non toglie che questa critica della concezione tradizionale dell'individuo ci interessa per diversi motivi. Tramontata l'idea di un soggetto collettivo portatore della rivoluzione sociale, gli operai, il popolo, la classe borghese, o almeno tramontata l'idea che sia possibile individuare un unico motore storico produttore di cambiamento, vanno profondamente riconsiderate le forme del mutamento. Vanno ridisegnate le mappe del conflitto analizzando le forme complesse che oggi il dominio ha assunto. In un contesto di integrazione globale militar-economica, la dimensione del mutamento non può che essere su scala planetaria. Quali sono oggi i soggetti portatori del mutamento che hanno conservato la speranza, la tensione e il conflitto? Quali progetti possono aggregare individui che esprimono interessi e bisogni diversi? È sufficiente oggi riproporre una carta dei diritti che riaffermi, senza articolarli in tempi, luoghi e contesti, i valori fondamentali della libertà, eguaglianza e solidarietà?
Oggi, mentre sembra trionfare senza avversari il liberalismo classico, con la sua teoria del soggetto che è razionale nella misura in cui si adegua alla razionalità economica, con la sua separazione astratta tra sfera pubblica dei doveri e sfera privata dei bisogni e dei desideri, sembra più che mai necessaria la critica dell'individualismo verso una concezione dell'individuo che riconosce in sé il dialogo, la pluralità, la presenza del diverso e della comunità e che si realizza a partire dalla vita quotidiana partecipando a differenti forme di comunità.