Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 193
estate 1992


Rivista Anarchica Online

Cose dall'altro mondo
di Maria Matteo

Eravamo abituati a pensare le guerre come "fatti dell'altro mondo", estranei, lontani da noi. Massacri e colpi di stato capitavano in Asia, in Africa, in paesi poveri e non democratici in cui l'arretratezza culturale faceva da contrappeso al sottosviluppo economico. Certo, l'opinione pubblica più illuminata e progressista non ignorava il ruolo predatore e liberticida dell'occidente opulento e democratico nel terzo mondo, tuttavia restava pressoché intangibile la convinzione che da noi certe cose non potessero capitare. L'ordine di Yalta, la minaccia stessa dell'olocausto atomico finivano con il rendere impensabile un conflitto nel cuore dell'impero. Poi, senza guerre o rivoluzioni è accaduto l'impossibile: i regimi dell'est si sono autodissolti, le mappe dell'Europa sono divenute incerte, gettando lo scompiglio tra i cartografi ed inquietudine tra la gente. Poi è venuta la guerra nel Golfo, i bombardieri sono andati ad uccidere la gente per conto di un governo che pretendeva di rappresentare noi tutti. Molti di noi han detto no, si sono opposti, hanno manifestato ma questo non ha fermato le bombe. Infine la Jugoslavia: un paio d'anni fa ero lì in vacanza e apprendevo dai giornali l'acuirsi della crisi tra serbi e croati, eppure mai avrei immaginato che le città che visitavo sarebbero state di lì a poco dilaniate dalle bombe e la gente che incontravo uccisa, affamata, costretta alla fuga. "Cose dell'altro mondo" che non potevano accadere a due passi da casa mia. La confusione, il malessere sono aumentati leggendo sulla stampa libertaria le testimonianze di anarchici di laggiù, in cui netta emergeva l'impotenza, l'incapacità di opporsi concretamente alla guerra. Non rara infine la scelta di schierarsi con questi o con quelli, con chi pareva avesse meno torto. E' comodo probabilmente erigersi a giudici nella tranquillità delle proprie case con il pensiero volto alle ferie, indubbiamente più difficile valutare e scegliere quando si è investiti dagli avvenimenti in prima persona. Tuttavia non si può accettare il "realismo" di Ben (1), anarchico di Zagabria convinto che solo un gendarme internazionale fermerà la guerra . La guerra come antidoto alla guerra è un rimedio peggiore del male, poiché il prezzo più alto viene pagato dai più deboli, da chi non ha voce né forza. Gli orrori di Dresda e Hiroshima non possono in alcun modo compensare la mostruosità nazista. Ciò non toglie che sia del tutto improbabile che minoranze pacifiste, anarchiche ed antimilitariste possano far cessare la guerra. Peraltro una mera questione di rapporti di forza, poiché, come dice Ben: "la gente è diventata selvaggia, la guerra estirpa l'anima alla gente così come estirpa gli occhi e le orecchie". La follia nazionalista non è propaganda ma attraversa e corrode gli animi al punto che lo stesso Ben, pur definendo ributtanti gli sciovinisti serbo e croato in egual misura, finisce con il mettersi al servizio di quest'ultimo.

Dimensioni inusitate
Il vento che spira dall'est ha finito peraltro con l'investire l'intera Europa, gli spettri della guerra civile si insinuano nella padania dove le adunate leghiste minacciano il ricorso ai kalashnikov. Il nazionalismo è la leva potente per la costruzione di un nuovo ordine mondiale. Poco importa che la matrice culturale dei vari nazionalisti sia labile, incerta, improponibile: in fondo serbi, croati, bosniaci mussulmani parlano la stessa lingua. In un mondo caotico, privo di senso, le cui limitate risorse paiono difficili da spartire, il "mito della purezza originaria" (2) rimette le cose a posto.
La fine del comunismo non è stato solo lo spezzarsi di un modello politico e sociale, ma anche la morte dell'utopia di un'alleanza transnazionale degli oppressi e degli sfruttati. La democrazia non ha potuto divenirne il sostituto, poiché è essa stessa in crisi profonda. L'astratto umanesimo dell'epoca dei lumi ha dato luogo ad un modello di rappresentatività altrettanto astratto, incapace di esprimere concrete multiformità culturali. La coincidenza tra aspirazione democratica e rivendicazione nazionale possibile nel secolo scorso appare oggi impensabile.
L'immigrazione e le dinamiche stesse del villaggio globale hanno reso gli "altri", i "diversi", vicini, troppo vicini. Capita così che il rifiuto di una dimensione cosmopolita, che in passato si è espresso soprattutto nell'antisemitismo, assuma dimensioni inusitate di fronte alla minaccia del diffondersi di un meticciato culturale. La riflessione e la pratica libertaria devono affinare i propri strumenti. L'appartenenza, la differenza sono questioni reali, non finzioni ideologiche. Ben dice Scarpetta quando asserisce che il cosmopolitismo (3) deve abbandonare il terreno dell'utopia per farsi pratica concreta. Egli suggerisce un modello di poli-appartenenza in opposizione all'appartenenza esclusiva dei nazionalismi. ..."non si tratta - egli dice - di rifiutare l'appartenenza, ma di concepirla come un'identificazione tra le altre"... In tal modo il singolo diviene uno dei tanti possibili punti di intersezione di un reticolo multi-culturale, che dà luogo a molteplici relazioni e dislocazioni. Un modello dinamico si oppone ad uno statico. Fa differenza, i conflitti non sono negati ma inseriti in un ambito comunicativo. Quest'analisi, però, se ha l'indubbio merito di sgomberare il terreno da certo semplicismo ideologico, non risulta del tutto convincente.

Salvaguardia delle differenze, ma …
L'utopia cosmopolita è certo astratta, poiché sia nella versione liberale che in quella socialista tende a sottolineare quel che rende simili le persone e ad elidere le differenze, tuttavia è stata in grado di attivare reti di solidarietà forti ed efficaci. D'altro canto funzione dell'utopia non è descrivere la realtà, ma immaginare mondi possibili. Essa non deve essere tanto convincente quanto seducente. Anche un cosmopolitismo più concreto, più attento alla complessa questione dell'identità non può fare a meno d'una dimensione utopica. Pragmatismo ed utopia devono trovare un terreno comune. La multi-culturalità, la poli-appartenenza sono innanzitutto un fatto, quel che conferisce valenza libertaria a tale fatto è la volontà di conferirgli valore. Gli studi antropologici hanno mostrato come sistemi di appartenenza incrociata risultino assai efficaci in società non-statutali, nondimeno l'approccio funzionalista, pur utilissimo all'esegesi dell'osservatore, non pare atto ad innescare dinamiche di trasformazione sociale. Tra i Tonga (4) sistema genealogico, interdizioni matrimoniali e regole rituali danno luogo ad un'organizzazione sociale assai complessa, che pone l'individuo al centro di una fittissima rete di relazioni. I Tonga sono convinti che il loro sistema non derivi da una scelta culturale, ma sia iscritto in un ordine naturale, al punto che pensano che anche gli europei ne abbiano uno analogo. D'altro canto anche i nazionalisti sono convinti che l'appartenenza da loro rivendicata si inserisca in un ordine necessario, di cui il guazzabuglio cosmopolita è inaccettabile elemento perturbatore. Oggi anche le correnti fasciste più raffinate hanno in gran parte abbandonato i loro deliri di superiorità razziale per approdare ad un più sfumato ed accorto razzismo. Anch'essi accettano e valorizzano le differenze culturali, sostenendo la pericolosità delle mescolanze e la necessità di sviluppo autonomo. Insomma è solo per "l'interesse degli immigrati" che i fascisti vorrebbero rispedirli nei paesi di origine. E' chiaro che il terreno in cui si calano la teoria e la prassi libertaria è quanto mai accidentato e franoso. Da un lato la salvaguardia delle differenze non può esimere dal valutare e dallo scegliere. E' inaccettabile ad esempio che l'USL torinese pratichi l'escissione alle bambine africane per rispettare gli usi dei loro paesi d'origine.
Non credo affatto d'essere razzista nel considerare l'escissione una mutilazione orrenda, specie se a subirla sono piccole che certo non sono in condizione di scegliere. D'altra parte però non possiamo amare soltanto le differenze che ci piacciono, le anomalie divertenti, le simpatiche stranezze, perché finiremmo con l'essere come quegli amici degli animali che proteggono gatti e canarini ed hanno ribrezzo per topi e scarafaggi. Occorre elaborare un intervento che sappia coniugare pratica della differenza con un certo afflato universale. Mi pare che il tentativo più efficace in tal senso sia quello in atto in ampi settori del movimento delle donne.

Nel deserto jugoslavo
Nelle sue espressioni più mature la riflessione sulla differenza sessuale mira alla costruzione di un modello di solidarietà nuovo. Un modello che non cancella l'altro ma riconosce la difficoltà dell'incontro e della comunicazione. Così accade che nel deserto jugoslavo donne slovene, serbe, croate, bosniache si siano ribellate alla guerra, alla sua logica di divisione e distruzione, al suo retaggio patriarcale. Esse tentano di sfuggire al ruolo di vittime designate all'elaborazione del lutto ed alla cura dei combattenti. Si sono incontrate non senza difficoltà le serbe e le croate, quelle di Sarajevo con quelle di Lubiana. Si sono incontrate per parlare di sé come genere ma anche per opporsi alla guerra, per sostenere i disertori. Son "cose dell'altro mondo" anche queste.

1) cfr. Umanità Nova n.23 1992.
2) G. Scarpetta "Sul nazionalismo" in Volontà 2/3, 1992.
3) G. Scarpetta, cit.
4) cfr. Glucksmann "Potere, diritto, rituale nelle società tribali"