Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 3 nr. 18
febbraio 1973


Rivista Anarchica Online

Anarchismo e accademia
di Mirko Roberti

Continua l'interesse per l'anarchismo degli accademici borghesi e marxisti, in una gara di mistificazioni, calunnie e falsi storici

Da qualche tempo il movimento anarchico è oggetto di particolari e preziose attenzioni da parte del "mondo della cultura". Tale universo, assai composito ed eterogeneo, ha espresso in queste attenzioni il suo giudizio attorno al nostro movimento e alla sua storia. Possiamo osservare facilmente però che, mentre le critiche e le valutazioni partono da diversi settori che comprendono un arco molto ampio (dai marxisti ai conservatori), il giudizio finale è unanime nella sostanza pur ricalcando diverse ed opposte motivazioni. Esso attinge in ultima analisi al concetto di "utopia" e non si scosta pertanto dal modulo secolare con cui viene fatto conoscere l'anarchismo.
Aprire un discorso sul rapporto che intercorre tra "cultura" e anarchia diventa quasi indispensabile, se si vuole comprendere a fondo la natura di questo rinnovato interesse da parte del "mondo scientifico ed accademico". Possiamo dire subito però che questo interesse non muove originariamente da tale settore, ma dall'istanza più o meno rivoluzionaria emergente da un'area sociale che va dagli operai, dagli studenti fino ad abbracciare una piccola parte dei ceti medi progressisti. In questo modo l'interesse viene a configurarsi come qualcosa di più rispetto ad una semplice matrice classista: esso testimonia un certo grado di "insofferenza" verso "l'autorità" diffuso anche tra i ceti non propriamente oppressi e sfruttati.
È evidente pertanto che alla luce di questa prospettiva è facile ora capire la funzione della "cultura": recepire questa istanza ed elaborarla fino a snaturarne il significato originario. Tale compito viene assolto specializzando questa elaborazione attraverso l'editoria che in questo caso è rappresentata soprattutto dai libri. La "cultura" assolve il compito affidatole dal potere tramite la potenza della stampa e attraverso i canali più rappresentativi di essa: dall'università a vari convegni di "studiosi", ecc.
Abbiamo detto che risultano irrilevanti le diverse motivazioni alla critica dell'anarchismo, perché le opposte angolazioni da cui partono, si vanificano di fronte alla sostanzialità del giudizio comune sulla sua "utopia". E dal momento che esso è l'opposto di ogni autorità e il nemico mortale di ogni potere, tutti quelli che si trovano a combatterlo si vengono a identificare obbiettivamente con un certo potere e una certa autorità. Pertanto una identificazione tra potere e "cultura" diventa spontanea permettendoci di cogliere il rapporto tra essa e l'anarchia, e cioè il rapporto tra il programma rivoluzionario e quello autoritario.
Un discorso sulla "cultura accademica e ufficiale", che va dai settori marxisti a quelli conservatori, è un discorso sul potere e il suo programma: risaliremo ad esso partendo dalle diverse critiche all'anarchismo.

Realtà e potere

Abbiamo detto sopra che, nella critica dell'anarchismo, il concetto di "utopia" mantiene un posto di primo piano, anzi, possiamo dire che attraverso questo concetto, viene costruita tutta la proiezione critica di esso. Ora nella dimensione "dell'utopia" ciò che è caratterizzante non è tanto la sua fede in un diverso avvenire, quanto il suo porsi come istanza irreale totalmente avulsa dal processo quotidiano e materiale della vita. La dimensione "utopica" viene a trovarsi pertanto in una posizione dove non viene contemplato il rapporto tra la realtà e le sue implicazioni necessarie ed oggettive.
Da questo punto di vista è evidente che chiunque si pone in una prospettiva del genere, è destinato a sviluppare una azione senza possibilità alcuna di moltiplicare gli effetti di essa. Vale a dire che si trova progressivamente a ripetere all'infinito le stesse azioni e gli stessi movimenti, trovandosi sempre inesorabilmente allo stesso punto di partenza, cioè senza una storia.
Alla luce di questa brevissima definizione "dell'utopia" la pretesa di applicarla all'anarchismo ci sembra perlomeno folle: nessuno pensiamo ha il coraggio di affermare che esso è senza una storia. Anzi possiamo dire che tutte le critiche vertono per di più proprio sulla sua storia, o meglio su quella che "presentano" come tale.
Se dunque la critica generale dell'anarchismo contiene una contraddizione in termini immanente ad essa, non è sufficiente tale contraddizione per spiegare il rapporto che ha con il potere. Per spiegarlo ci sembra importante illuminare l'equazione potere-realtà. Tale è infatti la tesi del nostro discorso: l'immagine della realtà è sempre deformata dall'ottica del potere. Per cui risulta evidente che chiunque si trova a combattere il potere e l'autorità e non un certo potere e una certa autorità, si trova a combattere, a negare la realtà. Così la pensano quelli che difendono il potere.
In questo modo la critica di fondo di W. Harich per esempio (1), che ricalca lo schema Feuerbachiano della critica alla ragione, va completamente rovesciata sulle sue spalle. Egli sostiene infatti che l'intensità "dell'immagine-desiderio" per la società libertaria sia la causa "dell'impazienza rivoluzionaria" tipica del volontarismo anarchico. Il soggettivismo anarchico non terrebbe quindi in debito conto la realtà oggettiva operando dentro uno schema astratto e privo di sbocchi concreti.
Ebbene è evidente che la sua immagine della realtà è talmente deformata dall'ottica del potere da rendergli inimmaginabile una diversa realtà senza di esso. Per cui la sua "immagine-desiderio" è sempre vincolata da una certa realtà di potere, di cui egli, come tutti i marxisti, non riesce a liberarsi.
Questo piccolo esempio è illuminante per spiegare la generale mentalità degli autoritari: il "desiderio" del potere è così intenso che qualsiasi "immagine" proposta ricalcherà pedissequamente lo schema della propria esperienza individuale e collettiva condizionata fino allora. Essi riflettono sempre questa realtà ed è per questo che non sono rivoluzionari.

Significato della obiettività storica

Alcune tra le più qualificanti tesi della problematica storiografica contemporanea vertono sul tentativo di definire formalmente il modello dell'obiettività storica. Questo tentativo, che investe studiosi di diverse formazioni e tendenze, ci sembra minato da difficoltà assai ardue da superare. Esse consistono nella inevitabile posizione in cui si trova ad operare lo storico: qualsiasi essa sia rifletterà sempre la sua particolare impostazione ideologica proiettandola nella sua impostazione di ricerca.
Si può osservare più facilmente questo fenomeno quando "il materiale" storico si riferisce propriamente a situazioni ideologiche, sociali, politiche ecc.
Se dunque affrontare da questo punto di vista il problema della "neutralità obiettiva" è di difficile successo, nondimeno dobbiamo cercare di vedere altre soluzioni. Mentre il punto di vista che abbiamo accennato sopra si può definire come una ricerca storica "dal di fuori", quella che vogliamo illustrare adesso potremmo definirla come l'opposto, cioè "dal di dentro".
Cosa vogliamo dire con questo? Vogliamo dire semplicemente che le azioni e i fenomeni storici invece di riferirli ad una immaginaria "obbiettività", dobbiamo riferirli alle intenzioni degli attori stessi che le hanno compiute. Infatti ci sembra assurdo giudicare uomini e fatti del passato se non riusciamo ad immedesimarci nelle loro motivazioni, se non riusciamo cioè a calarci "dentro" nella loro epoca.
Da questo punto di vista quando si tratta di giudicare un movimento politico e sociale, come quello anarchico in questo caso, è evidente che il parametro di giudizio si dovrà sempre riferire alla ragione stessa della sua esistenza, vale a dire alla sua specifica funzione storica. In questo caso la sua generale azione storica dovrà essere riferita globalmente alla sua proclamata funzione: accelerare il processo rivoluzionario verso una società senza classi.
Qualsiasi altro tentativo di giudicare l'anarchismo pensiamo vada collocato nel primo schema di ricerca e pertanto rientra nella equivoca obiettività a cui abbiamo accennato sopra.

Sulle origini dell'anarchismo

Marxisti e borghesi sono concordi nell'assegnare al movimento anarchico una particolare funzione: quella di ricoprire un ruolo secondario e subalterno nella lotta sociale rispetto alle grandi componenti del secolo scorso, cioè borghesia e proletariato. Gli uni assegnano agli anarchici un posto all'interno della piccola-borghesia in fase di dissoluzione, perché legata a forme pre-capitalistiche, mentre gli altri, vale adire i borghesi, li vedono come fenomeno deteriore ed "estremista" della lotta di classe. Entrambi però sono concordi nel considerare la nascita del movimento anarchico come un fenomeno secondario nel primo sviluppo del movimento socialista.
Non ci interessa ora per l'ennesima volta confutare questo falso gigantesco sulla consistenza e sull'importanza del movimento anarchico nelle lotte sociali di allora, quanto smascherare il motivo di tale giudizio e mettere in risalto il vero e autentico significato delle sue origini.
Queste origini vanno spiegate a nostro avviso partendo dal punto di vista di individuare una identità tra l'ideologia proclamata e le azioni concrete verificatesi storicamente. In altri termini per spiegare una delle due componenti faremo sempre riferimento all'altra, senza privilegiare l'azione rispetto all'ideologia o viceversa. In questo modo potremo abbracciare il fenomeno storico nella sua totalità.
Qual è dunque questo rapporto? Possiamo definirlo contemporaneamente al significato delle origini dell'anarchismo: la nascita della capacità autonoma degli sfruttati di gestire le proprie lotte per l'emancipazione. L'anarchismo nasce nel momento in cui viene teorizzata questa autonomia in tutte le sue implicazioni ideologiche e rappresenta pertanto contemporaneamente un punto di arrivo e di partenza. Di arrivo, rispetto alle formulazioni ideologiche sulla libertà dell'illuminismo settecentesco; di partenza, rispetto alla compiutezza della teoria integrale dell'emancipazione che contempla l'eguaglianza sociale.
Infatti la classica critica dell'apoliticità dell'anarchismo conferma indirettamente questo: con la nascita di questa autonomia storica gli sfruttati passano dalla millenaria fase delle rivoluzioni politiche alla rivoluzionaria fase delle rivoluzioni sociali. E l'anarchismo è l'espressione concreta nei fatti storici di tale autonomia, che implica non solo l'abbandono della via "politica" per quella "sociale", ma soprattutto implica la negazione della sua conseguenzialità storica concreta, cioè la distruzione dello stato e di ogni potere politico. Questo è tutto il senso della divisione tra il programma rivoluzionario anarchico e quello autoritario-politico marxista.
Harich, Hobsbawm, Dressen e Backhaus che sono tra gli autori dei libri illustrati in questa pagina, manipolando dati e fatti con il solito rigore che distingue gli studiosi marxisti, ci vogliono presentare personaggi e fatti del movimento anarchico, come qualcosa che non si riferisce per nulla a tale contesto. Così che sono costretti a portare in luce episodi del tutto marginali rispetto alla questione di fondo cercando di seppellire alcuni tra i fatti più decisivi di tale periodo (2).
La conseguenza di tale impostazione è che viene alterato non solamente il senso della Prima Internazionale o della Comune di Parigi per esempio, ma viene alterato anche tutto il periodo storico generale nel suo vero significato. In questo modo le lotte sociali per loro hanno tutte un significato politico, il radicalismo ateo e antireligioso dei socialisti del tempo diventa un fenomeno che va spiegato con l'influenza massonica, l'internazionalismo risulta essere una solidarietà solamente economica dei lavoratori a cui dovrà far seguito la solidarietà fra i partiti politici come auspicato dai marxisti e che sarà quella triste cosa della Seconda Internazionale. Per cui tutto il significato sovversivo e rivoluzionario dell'internazionalismo viene stravolto nella sua straordinaria originalità: essere di fatto la negazione concreta del concetto di stato, di patria e di nazione.
Così l'atteggiamento nei fatti quotidianamente radicale dei socialisti verso le istituzioni e i poteri costituiti di ogni ordine e grado, diventa nella folle proiezione di questi marxisti, un fatto di costume per nulla legato con le lotte sociali del tempo e con il movimento rivoluzionario che le organizzava, cioè quello anarchico. Tutto questo si spiega con l'impostazione del loro metodo marxista, che deve costruire una storia adeguata alla loro teoria e alla loro specifica funzione di teorici di un certo potere.
Lo stesso discorso vale anche per la storiografia "borghese" sebbene le motivazioni siano diverse. In questo caso il fenomeno anarchico è visto come una ricorrente calamità quasi inspiegabile dal loro punto di vista sociale. La storia e le origini del movimento anarchico vanno spiegate, per questi "studiosi" con strumenti assai diversi dalle solite formulazioni sociali, così che invece di essere una storia sociale-collettiva diventa solo una storia di alcuni individui fuori della "norma": per Kramer-Badoni (3) le origini del movimento anarchico vanno spiegate risalendo alla figura psicologica peraltro straordinaria di Bakunin. Ci sembra inutile ogni commento.

Lo sviluppo storico

La "storia" del movimento anarchico presentata dalla "cultura" del potere è una storia di continui fallimenti rivoluzionari succeduti fino ad oggi.
Così infatti è stato, ma, ciò che questa storia non spiega, è che questi fallimenti non si riferiscono al movimento specifico, ma all'intero movimento per l'emancipazione umana. Una visione di questo tipo è evidente che esula dagli schemi di tale storiografia, che si limita a registrare questi insuccessi staccati dal loro contesto naturale che viene in questo modo fatto dimenticare.
Il risultato di tale presentazione viene involontariamente a confermare la tesi libertaria sulla natura di questi fallimenti: essi cioè devono essere di natura tecnico-militare. Tutti quelli che stanno dalla parte del potere non hanno alcun interesse a confermare che l'emancipazione umana non è ancora stata raggiunta. È questa una ennesima contraddizione della critica all'anarchismo che ci aiuta a capire la funzione della cultura e il suo rapporto con il potere.
Ma vogliamo ora esaminare più da vicino la problematica di questi fallimenti per risalire alla storia straordinaria e gloriosa dell'anarchismo e mettere in luce il vero insegnamento teorico che ne scaturisce.
Abbiamo detto sopra che l'obbiettività di una storia che si riferisce all'anarchismo sta nel confrontare le sue azioni concrete in rapporto alle motivazioni originarie che l'hanno visto sorgere. (Tale metodo è evidentemente applicabile a qualsiasi movimento politico, sociale, religioso ecc.). Ora da questo punto di vista il processo reale della storia di questi ultimi cento anni è inseparabile da questa componente, vale a dire il movimento anarchico. Il problema consiste nell'analizzare il vero rapporto che le unisce nel senso che si tratta di vedere se è corretto, con il metodo che abbiamo privilegiato sopra, spiegare la funzione storica dell'anarchismo attraverso il prisma del processo di tutta la storia generale di questi cento anni. In altri termini il movimento anarchico, sviluppandosi all'interno di questo processo generale, è venuto a modificare progressivamente i fini che l'hanno fatto sorgere? È venuto cioè a subire modificazioni tali per cui esso si è nullificato, nelle sue motivazioni originarie, all'interno di questo processo?
Dalla negatività di questa risposta è possibile partire per un'analisi storica che riporti correttamente i termini della sua problematica "fallimentare" all'interno del suo contesto naturale: i tempi e i modi dell'emancipazione. L'anarchismo viene così a configurarsi come quel movimento, che nel corso del suo sviluppo storico, non ha modificato i fini che l'hanno fatto sorgere. Esso rappresenta dunque concretamente nella sua storia la problematica rivoluzionaria rispetto al suo naturale obiettivo, l'emancipazione. Mettendo a fuoco alcune critiche classiche al suo pensiero cercheremo così di riportare in luce il significato autentico della sua azione.

La paura della libertà

Da qualsiasi parte si affronti il problema della critica all'anarchismo, ritroviamo sempre questo motivo di fondo: attaccando le sue implicazioni storiche concrete si finisce con l'attaccare sempre il principio della libertà.
E questo attacco portato sul piano storico comporta di conseguenza non solo una critica al principio in sé, ma una critica soprattutto alle libertà concrete e materiali radicate nella lotta sociale. Quindi un attacco alla libertà delle masse popolari, alla loro capacità creativa, alla loro autonomia e alla loro coscienza rivoluzionaria. Qualsiasi tentativo fatto storicamente dalle masse popolari verso questa direzione o viene bollato come caos (dagli storici borghesi), o viene tacciato come manifestazioni piccolo-borghesi, dagli storici marxisti.
È un terrore diffuso in tutto il corpus dottrinale dei teorici autoritari, a qualsiasi banda essi appartengano. Possiamo osservare per esempio, riferendoci ad alcune tesi nei libri qui illustrati, come questo sia il filo conduttore che le unisce. Tramite la critica indiretta alle implicazioni materiali della libertà si può capire, per esempio, la critica classica allo "spontaneismo" anarchico e al preteso rifiuto per l'organizzazione (4). Anche la critica "all'individualismo" anarchico appartiene alla stessa matrice. Lo stesso dicasi per la sua pretesa lotta alla "sovrastruttura" (5).
Ora però, per ironia della sorte, questa critica generale si risolve nel modo seguente: che i fatti storici concreti hanno dimostrato il fallimento del diverso modo con cui intendevano la loro lotta i "padri" di quelli che ora fanno le critiche. Nessuno avrà il coraggio di negare che la storia concreta del marxismo-leninismo per esempio, o quella della borghesia liberale, siano rispettivamente in sintonia con i principi proclamati. Il prodotto della storia concreta della borghesia liberale, non è lo stato di diritto, ma le migliaia di bombe buttate nel Vietnam. E la storia concreta del marxismo-leninismo è la negazione vivente della tanto proclamata rivoluzione proletaria. (Dittatura sul proletariato).
Dalla Comune di Parigi alla Rivoluzione Spagnola il sentiero tracciato dagli anarchici è sempre riferibile, al contrario, al loro principio informatore. Tutta la storia del sindacalismo rivoluzionario è lì a testimoniare la sua organizzazione rivoluzionaria, la ricchezza del pragmatismo anarchico lì ad insegnare ai "dottori" della rivoluzione come è stato possibile evitare per loro i fasti clamorosi e solenni della pretesa scientificità del marxismo, la straordinaria multiformità dei suoi attacchi alle fonti molteplici dello sfruttamento è sempre lì a testimoniare un anticipo di cento anni rispetto ad alcuni temi portati avanti dal pensiero rivoluzionario avanzato di oggi: lotta al militarismo in , alla religione in , liberalizzazione autocosciente dei rapporti sessuali e quindi la sostituzione del nucleo familiare con il nucleo comunitario ecc.
Dall'individualismo all'anarcosindacalismo, dal collettivismo al comunismo il filo rosso-nero dell'anarchia rimane sempre la passione straordinaria e insopprimibile per la libertà concreta e materiale che è nello stesso tempo individuale e collettiva, sociale e politica e che in ogni moto popolare, in ogni ribellione sociale individuale ha trovato conferme straordinarie per la giustezza della sua teoria.
L'avvento di una nuova classe, quella tecno-burocratica, sulla scena della storia, l'esistenza autonoma dello stato con una diversa forma di sfruttamento da quello classico del capitalismo, il successo delle rivoluzioni contadine, il metodo della guerriglia urbana e rurale impiegato oggi con successo nel terzo mondo, l'adeguabilità della lotta ad ogni situazione particolare ecc. Tutti temi anticipati nella lotta, sia contro i borghesi che contro i marxisti dagli anarchici cento anni fa. E il "dottor" Hobsbawm (6) si domanda ancora quale insegnamento può offrire oggi l'anarchismo...
A distanza di decine di anni è facile oggi giudicare e pontificare sui tentativi rivoluzionari cercando di mettere in luce l'aspetto romanzesco e superficiale di essi. È assai facile soprattutto isolarli dal loro contesto storico senza riferirli ai motivi vitali che li fecero sussistere. È questo il modo "obiettivo" di trasformare la storia in cronaca, tipico del metodo dal "di fuori" di cui abbiamo accennato.
Se l'anarchismo non è una "utopia" non è solo perché la sua storia è lì a testimoniarlo concretamente, ma anche perché ad esso viene riservato un posto tutto particolare dalla critica del potere. Il posto che gli viene assegnato dalla "cultura", dal mondo degli intellettuali in genere, non è compatibile con la funzione necessariamente dominante di tale universo. La funzione storica di questo settore è sempre stata al servizio di ogni sistema autoritario, ha sempre avuto il compito cioè non solo di giustificare tale sistema, ma anche e soprattutto di creare un'immagine della realtà senza una alternativa ad esso. Una cultura alternativa esisterà solo nella misura in cui essa sarà priva di una casta sacerdotale. Se un giorno questi signori dicessero che l'anarchia è possibile ed auspicabile, allora sì che dovremmo preoccuparci!

Mirko Roberti

1) W. Harich, Critica dell'impazienza rivoluzionale, ed. Feltrinelli, 1972. I falsi, le omissioni e le manipolazioni in questo libro non si contano. Registriamone solo due. La prima si riferisce alla banditesca manipolazione di uno scritto di Grave. Infatti estrapolando una frase propagandistica sulla necessità di non rimandare i compiti rivoluzionari immediati ad una fase successiva, egli fa dire a Grave una cosa assai diversa. Chiunque può consultare la tesi di fondo del comunismo di Grave nel suo libro più importante, La societé future, ed. Stock, 1895. Si trova alla biblioteca Feltrinelli di Milano. Vedrà che differenza! La seconda si riferisce al tanto strombazzato discorso di Bakunin sull'eredità pronunciato a Basilea nel 1869. L'Harich si inventa completamente tale discorso, perché è completamente opposto di quello che Bakunin ha pronunciato. Una fedele ricostruzione di tale discorso si trova in Tullio Martello, Storia dell'internazionale, ed. Salmin, Padova 1873, pag. 104. Il Martello potè consultare materiali di prima mano. Anche questo libro si trova alla Feltrinelli.
2) Nelle loro argomentazioni e ricostruzioni storiche tutto il socialismo francese viene semplicemente dimenticato. Viene cioè seppellito il contributo decisivo per la nascita della Prima Internazionale.
3) R. Kramer-Badoni, Anarchia, passato e presente di un'utopia, ed. Bietti, 1972, pagg.109-148.
4) Critica dell'anarchismo, ed. Mondadori, 1970.
5) Vedi Harich, op. cit. e il saggio di Hobsbawm, Critica dell'anarchismo ecc.
6) Hobsbawm, "Quale insegnamento può offrire oggi l'anarchismo?", op. cit.