Rivista Anarchica Online
Anarchismo e accademia
di Mirko Roberti
Continua l'interesse per l'anarchismo degli accademici borghesi e marxisti, in una gara di
mistificazioni, calunnie e falsi storici
Da qualche tempo il movimento anarchico è oggetto di particolari
e preziose attenzioni da parte del
"mondo della cultura". Tale universo, assai composito ed eterogeneo, ha espresso in queste attenzioni
il suo giudizio attorno al nostro movimento e alla sua storia. Possiamo osservare facilmente però
che,
mentre le critiche e le valutazioni partono da diversi settori che comprendono un arco molto ampio (dai
marxisti ai conservatori), il giudizio finale è unanime nella sostanza pur ricalcando
diverse ed opposte
motivazioni. Esso attinge in ultima analisi al concetto di "utopia" e non si scosta pertanto dal modulo
secolare con cui viene fatto conoscere l'anarchismo. Aprire un discorso sul rapporto che intercorre
tra "cultura" e anarchia diventa quasi indispensabile, se
si vuole comprendere a fondo la natura di questo rinnovato interesse da parte del "mondo scientifico
ed
accademico". Possiamo dire subito però che questo interesse non muove originariamente da tale
settore,
ma dall'istanza più o meno rivoluzionaria emergente da un'area sociale che va dagli operai, dagli
studenti
fino ad abbracciare una piccola parte dei ceti medi progressisti. In questo modo l'interesse viene a
configurarsi come qualcosa di più rispetto ad una semplice matrice classista: esso testimonia un
certo
grado di "insofferenza" verso "l'autorità" diffuso anche tra i ceti non propriamente oppressi e
sfruttati. È evidente pertanto che alla luce di questa prospettiva è facile ora capire
la funzione della "cultura":
recepire questa istanza ed elaborarla fino a snaturarne il significato originario. Tale compito viene
assolto
specializzando questa elaborazione attraverso l'editoria che in questo caso è rappresentata
soprattutto
dai libri. La "cultura" assolve il compito affidatole dal potere tramite la potenza della stampa e attraverso
i canali più rappresentativi di essa: dall'università a vari convegni di "studiosi",
ecc. Abbiamo detto che risultano irrilevanti le diverse motivazioni alla critica dell'anarchismo,
perché le
opposte angolazioni da cui partono, si vanificano di fronte alla sostanzialità del giudizio comune
sulla
sua "utopia". E dal momento che esso è l'opposto di ogni autorità e il
nemico mortale di ogni potere,
tutti quelli che si trovano a combatterlo si vengono a identificare obbiettivamente con un
certo potere
e una certa autorità. Pertanto una identificazione tra potere e "cultura" diventa
spontanea permettendoci
di cogliere il rapporto tra essa e l'anarchia, e cioè il rapporto tra il programma rivoluzionario
e quello
autoritario. Un discorso sulla "cultura accademica e ufficiale", che va dai settori marxisti a quelli
conservatori, è un
discorso sul potere e il suo programma: risaliremo ad esso partendo dalle diverse critiche
all'anarchismo.
Realtà e potere
Abbiamo detto sopra che, nella critica dell'anarchismo, il concetto di "utopia" mantiene un posto
di
primo piano, anzi, possiamo dire che attraverso questo concetto, viene costruita tutta la proiezione
critica di esso. Ora nella dimensione "dell'utopia" ciò che è caratterizzante non è
tanto la sua fede in un
diverso avvenire, quanto il suo porsi come istanza irreale totalmente avulsa dal processo quotidiano e
materiale della vita. La dimensione "utopica" viene a trovarsi pertanto in una posizione dove non viene
contemplato il rapporto tra la realtà e le sue implicazioni necessarie ed
oggettive. Da questo punto di vista è evidente che chiunque si pone in una
prospettiva del genere, è destinato a
sviluppare una azione senza possibilità alcuna di moltiplicare gli effetti di essa. Vale a dire che
si trova
progressivamente a ripetere all'infinito le stesse azioni e gli stessi movimenti, trovandosi sempre
inesorabilmente allo stesso punto di partenza, cioè senza una storia. Alla luce
di questa brevissima definizione "dell'utopia" la pretesa di applicarla all'anarchismo ci sembra
perlomeno folle: nessuno pensiamo ha il coraggio di affermare che esso è senza una storia. Anzi
possiamo dire che tutte le critiche vertono per di più proprio sulla sua storia, o meglio su quella
che
"presentano" come tale. Se dunque la critica generale dell'anarchismo contiene una contraddizione
in termini immanente ad essa,
non è sufficiente tale contraddizione per spiegare il rapporto che ha con il potere. Per spiegarlo
ci sembra
importante illuminare l'equazione potere-realtà. Tale è infatti la tesi del nostro discorso:
l'immagine della
realtà è sempre deformata dall'ottica del potere. Per cui risulta evidente che chiunque
si trova a
combattere il potere e l'autorità e non un certo potere
e una certa autorità, si trova a combattere, a
negare la realtà. Così la pensano quelli che difendono il potere. In questo modo la
critica di fondo di W. Harich per esempio (1), che ricalca lo schema Feuerbachiano
della critica alla ragione, va completamente rovesciata sulle sue spalle. Egli sostiene infatti che
l'intensità
"dell'immagine-desiderio" per la società libertaria sia la causa "dell'impazienza rivoluzionaria"
tipica del
volontarismo anarchico. Il soggettivismo anarchico non terrebbe quindi in debito conto la realtà
oggettiva operando dentro uno schema astratto e privo di sbocchi concreti. Ebbene è
evidente che la sua immagine della realtà è talmente deformata dall'ottica del potere da
rendergli inimmaginabile una diversa realtà senza di esso. Per cui la sua "immagine-desiderio"
è sempre
vincolata da una certa realtà di potere, di cui egli, come tutti i marxisti, non riesce
a liberarsi. Questo piccolo esempio è illuminante per spiegare la generale mentalità
degli autoritari: il "desiderio"
del potere è così intenso che qualsiasi "immagine" proposta ricalcherà
pedissequamente lo schema della
propria esperienza individuale e collettiva condizionata fino allora. Essi riflettono
sempre questa realtà
ed è per questo che non sono rivoluzionari.
Significato della obiettività storica
Alcune tra le più qualificanti tesi della problematica storiografica contemporanea vertono
sul tentativo
di definire formalmente il modello dell'obiettività storica. Questo tentativo, che investe studiosi
di diverse
formazioni e tendenze, ci sembra minato da difficoltà assai ardue da superare. Esse consistono
nella
inevitabile posizione in cui si trova ad operare lo storico: qualsiasi essa sia rifletterà sempre la
sua
particolare impostazione ideologica proiettandola nella sua impostazione di ricerca. Si può
osservare più facilmente questo fenomeno quando "il materiale" storico si riferisce propriamente
a situazioni ideologiche, sociali, politiche ecc. Se dunque affrontare da questo punto di vista il
problema della "neutralità obiettiva" è di difficile
successo, nondimeno dobbiamo cercare di vedere altre soluzioni. Mentre il punto di vista che abbiamo
accennato sopra si può definire come una ricerca storica "dal di fuori", quella che vogliamo
illustrare
adesso potremmo definirla come l'opposto, cioè "dal di dentro". Cosa vogliamo dire con
questo? Vogliamo dire semplicemente che le azioni e i fenomeni storici invece
di riferirli ad una immaginaria "obbiettività", dobbiamo riferirli alle intenzioni degli attori stessi
che le
hanno compiute. Infatti ci sembra assurdo giudicare uomini e fatti del passato se non riusciamo ad
immedesimarci nelle loro motivazioni, se non riusciamo cioè a calarci "dentro" nella loro
epoca. Da questo punto di vista quando si tratta di giudicare un movimento politico e sociale, come
quello
anarchico in questo caso, è evidente che il parametro di giudizio si dovrà sempre riferire
alla ragione
stessa della sua esistenza, vale a dire alla sua specifica funzione storica. In questo caso la sua generale
azione storica dovrà essere riferita globalmente alla sua proclamata funzione: accelerare il
processo
rivoluzionario verso una società senza classi. Qualsiasi altro tentativo di giudicare
l'anarchismo pensiamo vada collocato nel primo schema di ricerca
e pertanto rientra nella equivoca obiettività a cui abbiamo accennato sopra.
Sulle origini dell'anarchismo
Marxisti e borghesi sono concordi nell'assegnare al movimento anarchico una particolare funzione:
quella
di ricoprire un ruolo secondario e subalterno nella lotta sociale rispetto alle grandi componenti del
secolo
scorso, cioè borghesia e proletariato. Gli uni assegnano agli anarchici un posto all'interno della
piccola-borghesia in fase di dissoluzione, perché legata a forme pre-capitalistiche, mentre gli
altri, vale adire i
borghesi, li vedono come fenomeno deteriore ed "estremista" della lotta di classe. Entrambi però
sono
concordi nel considerare la nascita del movimento anarchico come un fenomeno secondario nel primo
sviluppo del movimento socialista. Non ci interessa ora per l'ennesima volta confutare questo falso
gigantesco sulla consistenza e
sull'importanza del movimento anarchico nelle lotte sociali di allora, quanto smascherare il motivo di
tale
giudizio e mettere in risalto il vero e autentico significato delle sue origini. Queste origini vanno
spiegate a nostro avviso partendo dal punto di vista di individuare una identità tra
l'ideologia proclamata e le azioni concrete verificatesi storicamente. In altri termini per
spiegare una delle
due componenti faremo sempre riferimento all'altra, senza privilegiare l'azione rispetto all'ideologia o
viceversa. In questo modo potremo abbracciare il fenomeno storico nella sua totalità. Qual
è dunque questo rapporto? Possiamo definirlo contemporaneamente al significato delle origini
dell'anarchismo: la nascita della capacità autonoma degli sfruttati di gestire le
proprie lotte per
l'emancipazione. L'anarchismo nasce nel momento in cui viene teorizzata questa
autonomia in tutte le
sue implicazioni ideologiche e rappresenta pertanto contemporaneamente un punto di arrivo e di
partenza. Di arrivo, rispetto alle formulazioni ideologiche sulla libertà dell'illuminismo
settecentesco; di
partenza, rispetto alla compiutezza della teoria integrale dell'emancipazione che contempla l'eguaglianza
sociale. Infatti la classica critica dell'apoliticità dell'anarchismo conferma indirettamente
questo: con la nascita
di questa autonomia storica gli sfruttati passano dalla millenaria fase delle rivoluzioni
politiche alla
rivoluzionaria fase delle rivoluzioni sociali. E l'anarchismo è l'espressione concreta nei fatti
storici di tale
autonomia, che implica non solo l'abbandono della via "politica" per quella "sociale", ma
soprattutto
implica la negazione della sua conseguenzialità storica concreta, cioè la distruzione dello
stato e di ogni
potere politico. Questo è tutto il senso della divisione tra il programma rivoluzionario anarchico
e quello
autoritario-politico marxista. Harich, Hobsbawm, Dressen e Backhaus che sono tra gli autori dei
libri illustrati in questa pagina,
manipolando dati e fatti con il solito rigore che distingue gli studiosi marxisti, ci vogliono presentare
personaggi e fatti del movimento anarchico, come qualcosa che non si riferisce per nulla a tale contesto.
Così che sono costretti a portare in luce episodi del tutto marginali rispetto alla questione di
fondo
cercando di seppellire alcuni tra i fatti più decisivi di tale periodo (2). La conseguenza di
tale impostazione è che viene alterato non solamente il senso della Prima
Internazionale o della Comune di Parigi per esempio, ma viene alterato anche tutto il periodo storico
generale nel suo vero significato. In questo modo le lotte sociali per loro hanno tutte un significato
politico, il radicalismo ateo e antireligioso dei socialisti del tempo diventa un fenomeno che va spiegato
con l'influenza massonica, l'internazionalismo risulta essere una solidarietà solamente economica
dei
lavoratori a cui dovrà far seguito la solidarietà fra i partiti politici come auspicato dai
marxisti e che sarà
quella triste cosa della Seconda Internazionale. Per cui tutto il significato sovversivo e rivoluzionario
dell'internazionalismo viene stravolto nella sua straordinaria originalità: essere di
fatto la negazione
concreta del concetto di stato, di patria e di nazione. Così l'atteggiamento nei fatti
quotidianamente radicale dei socialisti verso le istituzioni e i poteri costituiti
di ogni ordine e grado, diventa nella folle proiezione di questi marxisti, un fatto di costume per nulla
legato con le lotte sociali del tempo e con il movimento rivoluzionario che le organizzava, cioè
quello
anarchico. Tutto questo si spiega con l'impostazione del loro metodo marxista, che deve
costruire una
storia adeguata alla loro teoria e alla loro specifica funzione di teorici di un
certo potere. Lo stesso discorso vale anche per la storiografia "borghese" sebbene le
motivazioni siano diverse. In
questo caso il fenomeno anarchico è visto come una ricorrente calamità quasi
inspiegabile dal loro punto
di vista sociale. La storia e le origini del movimento anarchico vanno spiegate, per questi "studiosi" con
strumenti assai diversi dalle solite formulazioni sociali, così che invece di essere una storia
sociale-collettiva diventa solo una storia di alcuni individui fuori della "norma": per Kramer-Badoni (3)
le origini
del movimento anarchico vanno spiegate risalendo alla figura psicologica peraltro straordinaria di
Bakunin. Ci sembra inutile ogni commento.
Lo sviluppo storico
La "storia" del movimento anarchico presentata dalla "cultura" del potere è una storia di
continui
fallimenti rivoluzionari succeduti fino ad oggi. Così infatti è stato, ma, ciò
che questa storia non spiega, è che questi fallimenti non si riferiscono al
movimento specifico, ma all'intero movimento per l'emancipazione umana. Una visione di questo tipo
è evidente che esula dagli schemi di tale storiografia, che si limita a registrare questi insuccessi
staccati
dal loro contesto naturale che viene in questo modo fatto dimenticare. Il risultato di tale
presentazione viene involontariamente a confermare la tesi libertaria sulla natura di
questi fallimenti: essi cioè devono essere di natura tecnico-militare. Tutti quelli che stanno dalla
parte
del potere non hanno alcun interesse a confermare che l'emancipazione umana non è ancora
stata
raggiunta. È questa una ennesima contraddizione della critica all'anarchismo che ci aiuta a capire
la
funzione della cultura e il suo rapporto con il potere. Ma vogliamo ora esaminare più da
vicino la problematica di questi fallimenti per risalire alla storia
straordinaria e gloriosa dell'anarchismo e mettere in luce il vero insegnamento teorico che ne
scaturisce. Abbiamo detto sopra che l'obbiettività di una storia che si riferisce all'anarchismo
sta nel confrontare le
sue azioni concrete in rapporto alle motivazioni originarie che l'hanno visto sorgere. (Tale
metodo è
evidentemente applicabile a qualsiasi movimento politico, sociale, religioso ecc.). Ora da questo punto
di vista il processo reale della storia di questi ultimi cento anni è inseparabile da questa
componente, vale
a dire il movimento anarchico. Il problema consiste nell'analizzare il vero rapporto che le unisce nel
senso
che si tratta di vedere se è corretto, con il metodo che abbiamo privilegiato sopra,
spiegare la funzione
storica dell'anarchismo attraverso il prisma del processo di tutta la storia generale di questi cento anni.
In altri termini il movimento anarchico, sviluppandosi all'interno di questo processo generale, è
venuto
a modificare progressivamente i fini che l'hanno fatto sorgere? È venuto cioè a subire
modificazioni tali
per cui esso si è nullificato, nelle sue motivazioni originarie, all'interno di questo
processo? Dalla negatività di questa risposta è possibile partire per un'analisi storica
che riporti correttamente i
termini della sua problematica "fallimentare" all'interno del suo contesto naturale: i tempi e i modi
dell'emancipazione. L'anarchismo viene così a configurarsi come quel movimento, che nel corso
del suo
sviluppo storico, non ha modificato i fini che l'hanno fatto sorgere. Esso rappresenta dunque
concretamente nella sua storia la problematica rivoluzionaria rispetto al suo naturale obiettivo,
l'emancipazione. Mettendo a fuoco alcune critiche classiche al suo pensiero cercheremo così
di riportare
in luce il significato autentico della sua azione.
La paura della libertà
Da qualsiasi parte si affronti il problema della critica all'anarchismo, ritroviamo sempre questo
motivo
di fondo: attaccando le sue implicazioni storiche concrete si finisce con l'attaccare sempre il principio
della libertà. E questo attacco portato sul piano storico comporta di conseguenza non solo
una critica al principio in
sé, ma una critica soprattutto alle libertà concrete e materiali radicate nella lotta sociale.
Quindi un
attacco alla libertà delle masse popolari, alla loro capacità creativa, alla loro autonomia
e alla loro
coscienza rivoluzionaria. Qualsiasi tentativo fatto storicamente dalle masse popolari verso questa
direzione o viene bollato come caos (dagli storici borghesi), o viene tacciato come manifestazioni
piccolo-borghesi, dagli storici marxisti. È un terrore diffuso in tutto il corpus dottrinale dei
teorici autoritari, a qualsiasi banda essi appartengano.
Possiamo osservare per esempio, riferendoci ad alcune tesi nei libri qui illustrati, come questo sia il filo
conduttore che le unisce. Tramite la critica indiretta alle implicazioni materiali della libertà si
può capire,
per esempio, la critica classica allo "spontaneismo" anarchico e al preteso rifiuto per l'organizzazione
(4). Anche la critica "all'individualismo" anarchico appartiene alla stessa matrice. Lo stesso dicasi per
la sua pretesa lotta alla "sovrastruttura" (5). Ora però, per ironia della sorte, questa critica
generale si risolve nel modo seguente: che i fatti storici
concreti hanno dimostrato il fallimento del diverso modo con cui intendevano la loro lotta i "padri" di
quelli che ora fanno le critiche. Nessuno avrà il coraggio di negare che la storia concreta del
marxismo-leninismo per esempio, o quella della borghesia liberale, siano rispettivamente in sintonia con
i principi
proclamati. Il prodotto della storia concreta della borghesia liberale, non è lo stato di diritto,
ma le
migliaia di bombe buttate nel Vietnam. E la storia concreta del marxismo-leninismo è la
negazione
vivente della tanto proclamata rivoluzione proletaria. (Dittatura sul
proletariato). Dalla Comune di Parigi alla Rivoluzione Spagnola il sentiero tracciato dagli anarchici
è sempre riferibile,
al contrario, al loro principio informatore. Tutta la storia del sindacalismo rivoluzionario è
lì a
testimoniare la sua organizzazione rivoluzionaria, la ricchezza del pragmatismo anarchico lì ad
insegnare
ai "dottori" della rivoluzione come è stato possibile evitare per loro i fasti clamorosi e solenni
della
pretesa scientificità del marxismo, la straordinaria multiformità dei suoi attacchi alle
fonti molteplici dello
sfruttamento è sempre lì a testimoniare un anticipo di cento anni rispetto ad alcuni temi
portati avanti
dal pensiero rivoluzionario avanzato di oggi: lotta al militarismo in sé, alla
religione in sé, liberalizzazione
autocosciente dei rapporti sessuali e quindi la sostituzione del nucleo familiare con il nucleo comunitario
ecc. Dall'individualismo all'anarcosindacalismo, dal collettivismo al comunismo il filo rosso-nero
dell'anarchia
rimane sempre la passione straordinaria e insopprimibile per la libertà concreta e materiale che
è nello
stesso tempo individuale e collettiva, sociale e politica e che in ogni moto popolare, in ogni ribellione
sociale individuale ha trovato conferme straordinarie per la giustezza della sua teoria. L'avvento di
una nuova classe, quella tecno-burocratica, sulla scena della storia, l'esistenza autonoma
dello stato con una diversa forma di sfruttamento da quello classico del capitalismo, il successo delle
rivoluzioni contadine, il metodo della guerriglia urbana e rurale impiegato oggi con successo nel terzo
mondo, l'adeguabilità della lotta ad ogni situazione particolare ecc. Tutti temi anticipati nella
lotta, sia
contro i borghesi che contro i marxisti dagli anarchici cento anni fa. E il "dottor" Hobsbawm (6) si
domanda ancora quale insegnamento può offrire oggi l'anarchismo... A distanza di decine
di anni è facile oggi giudicare e pontificare sui tentativi rivoluzionari cercando di
mettere in luce l'aspetto romanzesco e superficiale di essi. È assai facile soprattutto isolarli dal
loro
contesto storico senza riferirli ai motivi vitali che li fecero sussistere. È questo il modo
"obiettivo" di
trasformare la storia in cronaca, tipico del metodo dal "di fuori" di cui abbiamo accennato. Se
l'anarchismo non è una "utopia" non è solo perché la sua storia è
lì a testimoniarlo concretamente,
ma anche perché ad esso viene riservato un posto tutto particolare dalla critica del potere. Il
posto che
gli viene assegnato dalla "cultura", dal mondo degli intellettuali in genere, non è compatibile con
la
funzione necessariamente dominante di tale universo. La funzione storica di questo settore è
sempre
stata al servizio di ogni sistema autoritario, ha sempre avuto il compito cioè non solo di
giustificare tale
sistema, ma anche e soprattutto di creare un'immagine della realtà senza una alternativa ad esso.
Una
cultura alternativa esisterà solo nella misura in cui essa sarà priva di una casta
sacerdotale. Se un giorno
questi signori dicessero che l'anarchia è possibile ed auspicabile, allora sì che dovremmo
preoccuparci!
Mirko Roberti
1) W. Harich, Critica dell'impazienza rivoluzionale, ed. Feltrinelli, 1972. I falsi, le
omissioni e le
manipolazioni in questo libro non si contano. Registriamone solo due. La prima si riferisce alla
banditesca manipolazione di uno scritto di Grave. Infatti estrapolando una frase propagandistica sulla
necessità di non rimandare i compiti rivoluzionari immediati ad una fase successiva, egli fa dire
a Grave
una cosa assai diversa. Chiunque può consultare la tesi di fondo del comunismo di Grave nel
suo libro
più importante, La societé future, ed. Stock, 1895. Si trova alla biblioteca
Feltrinelli di Milano. Vedrà
che differenza! La seconda si riferisce al tanto strombazzato discorso di Bakunin sull'eredità
pronunciato
a Basilea nel 1869. L'Harich si inventa completamente tale discorso, perché
è completamente opposto
di quello che Bakunin ha pronunciato. Una fedele ricostruzione di tale discorso si trova in Tullio
Martello, Storia dell'internazionale, ed. Salmin, Padova 1873, pag. 104. Il Martello
potè consultare
materiali di prima mano. Anche questo libro si trova alla Feltrinelli. 2) Nelle loro argomentazioni
e ricostruzioni storiche tutto il socialismo francese viene semplicemente
dimenticato. Viene cioè seppellito il contributo decisivo per la nascita della Prima
Internazionale. 3) R. Kramer-Badoni, Anarchia, passato e presente di un'utopia, ed.
Bietti, 1972, pagg.109-148. 4) Critica dell'anarchismo, ed. Mondadori, 1970. 5)
Vedi Harich, op. cit. e il saggio di Hobsbawm, Critica dell'anarchismo
ecc. 6) Hobsbawm, "Quale insegnamento può offrire oggi l'anarchismo?", op.
cit.
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