Rivista Anarchica Online
L'obiettore legalizzato
di Claudio Venza
Con le "norme per il riconoscimento" legale l'obiezione di coscienza viene
sostanzialmente trasformata:
essa perde parte del significato sociale di atto di opposizione antimilitarista per diventare, ma solo nelle
illusioni di qualche progressista parlamentare, un "diritto civile" del giovane cittadino in uno Stato
sempre più democratico e permissivo. Gli obiettori di coscienza che collettivamente e con
ragioni politiche avevano espresso il loro rifiuto del
servizio militare comportavano un pericolo troppo grosso per l'esercito e per la sua credibilità.
Questo
perché, malgrado la debolezza numerica, l'obiezione di coscienza politica e di gruppo era
sostenuta da
una precisa denuncia del carattere classista e repressivo delle Forze Armate e costituiva una azione
esemplare di non-collaborazione con l'autorità. Rifiutandosi di diventare strumento
dell'oppressione
militarista verso gli altri e verso se stessi, l'obiettore era necessariamente un rivoluzionario
perché poneva
con forza e in termini pratici il problema della limitazione progressiva del potere fino alla sua
distruzione.
Il metodo seguito era di togliere il materiale umano docile e fedele, indispensabile per la sopravvivenza
dell'autorità. Invece gli esponenti della sinistra parlamentare e non quelli che studiano le sottili
armi della
tattica - e ogni giorno escogitano un nuovo metodo per sconfiggere l'avversario senza che questo se ne
accorga - hanno sempre tatticamente consigliato ai loro seguaci di vestire la divisa, naturalmente sulla
base di un'analisi "realista" e con scopi sovversivi, dimenticandosi che così lo Stato (anche
quello
borghese) continua tranquillamente a funzionare e anzi rafforza le sue istituzioni. In un certo senso il
rifiuto di servire militarmente lo Stato possiede la stessa natura di rivolta totale e di lotta rivoluzionaria
che ha il rifiuto di servire elettoralmente il potere nel suo sforzo di cambiare forma e strumenti al
privilegio. Partendo da queste considerazioni si spiega l'interessamento, soprattutto recente, del
potere per la sorte
degli obiettori di coscienza (analogo all'imprevista volontà di liberare quanto prima Valpreda
al punto
di fare una legge apposita). Entrambi i provvedimenti dovevano servire a dare apparenze di tolleranza
e liberalità allo Stato italiano che si accorge, dopo più di 20 anni (è del 1949
la prima obiezione), che
c'è chi preferisce la galera alla caserma e che delle persone stanno dentro da tre anni
perché accusati,
senza indizi, di una strage per la quale sono imputati (con molte prove) dei fascisti. Altri scopi della
legge sull'obiezione di coscienza sono di sminuire la portata della lotta collettiva degli
obiettori frantumando l'iniziativa in vari casi personali di obiettori riconosciuti (promossi) e di obiettori
non riconosciuti (bocciati e arruolati), nonché di eliminare probabili oppositori dall'esercito
anche se la
ferma obbligatoria e "popolare" non garantisce per niente dall'uso antipopolare dell'esercito. Nel
dibattito preparatorio tutti i parlamentari facevano a gara nel difendere lo Stato dai falsi obiettori:
era questo per loro il problema fondamentale. Non sarebbe quindi lo Stato a rubare 15 o 24 mesi ai
giovani ma sono questi ultimi che, per uno scarso amore di Patria, cercano di non perderli! Il
risultato era scontato: una legge restrittiva che non accetta le motivazioni politiche e non riconosce
il diritto ai militari già sotto leva; punitiva per gli 8 mesi che impone in più;
discriminatoria per l'esistenza
di una commissione d'esame che riconoscerà o meno la qualifica. I componenti la giuria sono
poi veri
e propri uomini d'onore in toga (un alto magistrato e - un po' meno alto - avvocato di Stato), in divisa
(un generale o ammiraglio), in camice (uno psicologo) nonché un professore in discipline,
naturalmente,
morali. Superato questo schieramento di difensori dell'ordine pubblico e del buon costume, l'obiettore
verrà destinato ad un ente che fiancheggia nell'istruzione o nella assistenza l'azione comunque
repressiva
dello Stato ritrovandosi così nuovamente subordinato all'autorità. E non può
fare diversamente perché
sarà sottoposto alla disciplina militare (proprio quella che voleva evitare!) e al ricatto di essere
arruolato
se tiene un comportamento poco remissivo e non riconoscente. Essendo queste le condizioni dei
"diritto civile" alla obiezione di coscienza è evidente che ben poco
spazio resta all'azione antimilitarista tra tutte le varie pratiche burocratiche e le condizioni ricattatorie.
Molto più adatta è questa legge alle organizzazioni clericali che gestiscono l'assistenza
pubblica e alle
parrocchie e gruppi come Mani Tese. Tutti questi con un ben articolato sistema di richieste di
manodopera militarizzata (obiettore di coscienza con la qualifica) e di raccomandazioni influenti
potranno utilizzare dei bravi ed innocui giovani per le loro opere, disinteressate di beneficenza e
carità. Cosa c'entrerà in tutto questo la lotta antimilitarista per l'abolizione
dell'esercito e dello sfruttamento?
Poco, o nulla. A meno che una lotta di massa non riesca a ridefinire l'obiezione di coscienza come
esempio positivo e
creativo di opposizione all'esercito. L'ipotesi avanzata dalla Lega degli Obiettori è di
motivare politicamente e collettivamente l'obiezione
e autogestire il servizio civile. Questo non sarebbe chiesto dal singolo obiettore, ma il gruppo inizierebbe
automaticamente l'attività in una particolare situazione di emarginazione sociale (ospedali
psichiatrici,
borgate, zone di sottosviluppo in Italia) in stretta collaborazione con la popolazione e le
comunità
interessate. Al Ministero della Difesa spetterebbe solo di riconoscere un dato di fatto (il tempo dedicato
a questo servizio civile) affrontando in caso contrario la opposizione non più di pochi giovani
ma di tutta
la comunità privata dell'apporto degli obiettori. In effetti questa proposta ha vari punti di
dubbia realizzazione e la sua riuscita è alquanto incerta, ma non
si può a priori negarle qualsiasi possibilità. D'altra parte può essere considerata
una scelta positiva quella
di chi fa il militare, subendo la vita alienante e castrante della caserma per tentare di svolgervi
un'attività
di propaganda che non appena si tramuta in qualche azione concreta, può costargli anni e anni
di galera? Con questo non si vuole negare l'importanza e l'utilità dell'agitazione tra la truppa
che, se diretta alla
estinzione dell'esercito e non alla sua razionalizzazione, serve moltissimo all'affermarsi
dell'antimilitarismo anarchico. Si vuole semplicemente sostenere che la via della lotta dentro le caserme
non esclude, anzi completa la necessaria lotta esterna alla struttura militare.
Claudio Venza
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