Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 175
estate 1990


Rivista Anarchica Online

La simbiosi mancata
di Gianfranco Bertoli

E' quella tra l'anarchismo di matrice socialista, trapiantato dall'Europa in America alla fine del secolo scorso, ed il preesistente filone dell'anarchismo americano autoctono che faceva riferimento alla tradizione del liberalismo. Anticipiamo in queste pagine il saggio "Anarchismo americano e anarchismo europeo" che Gianfranco Bertoli ha scritto per la raccolta di saggi "America anarchica (1850-1930)", a cura di Antonio Donno, di imminente pubblicazione presso Piero Lacaita Editore

Accade spesso che le opinioni degli uomini si modifichino radicalmente con il passare del tempo, anche se si resta fedeli ad un'idea-forza che regge tutto l'impianto delle opinioni stesse, pur se mutevoli. Il paradosso è solo apparente e le due affermazioni precedenti non si contraddicono tra loro. È forse questo il caso di molti anarchici d'oggi, i quali pur restando convinti anarchici, hanno mutato opinione su molti aspetti della realtà. Nessuno, infatti, che abbia fatta sua una visione del mondo ispirata ai principi libertari potrebbe coerentemente negare a se stesso il diritto di riconoscersi, per farle sue, nelle parole di Emile Armand: "Io non ho sempre una sola opinione su un dato soggetto, o fatto, o persona, o concezione. Io non considero fatalmente e sempre le cose e gli esseri umani alla stessa stregua di ieri, e quella di oggi non può impegnarmi per il domani. Non voglio rimanere schiavo delle mie opinioni del passato. Non voglio essere un cadavere ambulante e camminare esalando odore di cadavere, imprigionato nel sudario delle mie opinioni precedenti..."(1).
La non riconducibilità ad un'unica matrice teorica e la conseguente possibilità di ripensarsi e riattualizzarsi costantemente sono caratteristiche specifiche dell'anarchismo e sono all'origine del suo non avere mai assunto compiutamente, nel corso di tutte le sue espressioni storiche finora manifestatesi, la forma di un movimento rigorosamente strutturato attorno ad un'"ortodossia" ed a un corpo rigido o dogmatico di teorie. Una peculiarità, questa, che, già nel lontano 1894, veniva fatta rilevare da Emile Henry in uno scritto redatto nella sua cella di condannato a morte e che contiene questo passo: "...guardatevi bene dal credere che l'anarchia sia un dogma; una dottrina inattaccabile, indiscutibile, venerata dai suoi adepti come il Corano dai mussulmani. No. La libertà assoluta che noi rivendichiamo sviluppa le nostre idee senza sosta, la eleva verso nuovi orizzonti (secondo le menti dei diversi individui) e la spinge fuori dagli stretti quadri di ogni regolamentazione e di ogni codificazione..."(2).
Basterebbe questa sua caratteristica a fare di quella anarchica qualcosa di profondamente diverso rispetto ad ogni altra corrente di pensiero dalla quale abbiano avuto origine o tratto ispirazione i tanti altri movimenti politici e sociali del passato e del presente. Ed è, forse, proprio questo ad imbarazzare ed a portare fuori strada i tanti storici e politologi che, spesso estranei allo spirito dell'anarchismo o talvolta ad esso ostili, si sono cimentati nel tentativo di circoscriverne cronologicamente la nascita, i percorsi e le manifestazioni, per inquadrarlo in un contesto storico determinato e poter, di conseguenza presentarlo come un fenomeno che appartiene al passato e pretendere di poterne sancire, datandola, la presunta fine.
Si tratta di un grosso abbaglio e di un profondo pregiudizio storiografico intorno al quale Louis Mercier Vega scriveva: "Esiste un rituale per la sepoltura dell'anarchismo: la dottrina, il movimento, i militanti sono, se esistono, residui di un passato lontano. Così si divertono a ripetere uomini politici (soprattutto di sinistra), politologi, occasionali e di mestiere, professori universitari, di parte e in buona fede. Il potere, di scarsa immaginazione, preferisce tradurre anarchia con violenza. Ci si può domandare come mai, dato che vi è unanimità nel collocare l'anarchismo tra i fenomeni del passato, questi funerali si ripetano tanto frequentemente"(3).

Mille volte dato per morto

Quella delle reiterate e convinte affermazioni di una avvenuta morte dell'anarchismo è una lunga storia che inizia in anni lontani. Tanto che, quando si giunge alla fine di un celebre libro dello storico inglese George Woodcock (4) e ci si imbatte nella perentoria asserzione secondo cui la storia dell'anarchismo può essere considerata come conclusasi alla fine degli anni '30, con la sconfitta della rivoluzione spagnola, viene quasi naturale riandare col pensiero a Francesco Saverio Merlino che già nei 1907 non aveva esitazioni nel dichiarare che l'anarchismo aveva fatto il suo tempo ed era ormai finito per sempre, in quanto non più in grado di produrre né uomini né idee (5). Va, tuttavia, riconosciuto che, se si cade nell'errore metodologico di considerare una realtà parziale e contingente per il tutto, se si prendono, cioè, in considerazione le vicende e i percorsi storici dei movimenti anarchici organizzati - che hanno, necessariamente, assunto forme ed adottato concetti formulati in funzione di specifiche situazioni -, l'immagine che non di rado, e spesso per lungo tempo, l'anarchismo ha dato di sé è quella di una dottrina obsoleta ed inadeguata ai tempi e i movimenti organizzati che vi si richiamavano quella di star sopravvivendo penosamente a se stessi , grazie solo alla caparbietà, talvolta persino eroica, di pochi militanti, nostalgici di un "glorioso passato".
Ma seppure appare realistica ed obiettiva in un'ottica che ponga l'anarchismo sullo stesso piano di uno dei tanti movimenti e partiti politici storicamente determinati, per valutarlo in base ai consueti criteri e parametri, tanto più si rivela fittizia quanto più si vada in profondità e ci si avvicini alla comprensione dell'essenza dell'anarchismo, che altro non è, in partenza, se non il risultato di una presa di coscienza, sul piano etico e sul piano psicologico, di un'insopprimibile aspirazione alla libertà che appartiene ad ogni essere umano e che, pertanto, è sempre potenzialmente in grado di emergere e manifestarsi.
È per questo che si può arrivare all'anarchismo per vie diverse, sotto la spinta di esperienze esistenziali le più varie e tali da indurre a ricollegarsi, per derivarne impostazioni teoriche e concetti pragmatici, a differenti matrici storico-culturali e filosofiche. Ed è per questo, anche, che l'anarchismo, mille volte dato per morto, rinasce ogni volta e viene riscoperto puntualmente non appena compaiono situazioni storico-sociali tali da far sentire l'esigenza di proporre soluzioni libertarie alla contraddizioni della società costituita.
Una di queste situazioni, del recente passato, è stata quella verificatasi a Parigi nel maggio 1968, quando "non è la Federazione anarchica francese che piazza i suoi militanti o le sue bandiere nel bel mezzo delle correnti studentesche; ma sono gli studenti che, per simbolizzare la loro volontà di fare tabula rasa e rimettere in discussione totale le gerarchie, levano la bandiera nera e nei bric-à-brac dei ricordi di letture o nel pantheon degli archetipi, si creano un passato a base di Bakunin, di Bonnot o di Durruti" (6).
Questo fenomeno della riscoperta dell'anarchia da parte di giovani che non avevano avuto in precedenza alcun legame o contatto diretto con le organizzazioni ed i gruppi anarchici "ufficiali" costituisce, senza ombra di dubbio, una verifica che dimostra la vitalità e le grandi potenzialità delle idee libertarie, ma si accompagna spesso ad epifenomeni non privi di contraddizioni e di un risvolto negativo. L'improvviso risveglio e la crescita quantitativa dell'anarchismo militante, proprio per la rapidità con cui si sviluppano in un ambiente sociale non fecondato dalla preesistente presenza di una cultura libertaria radicata e diffusa, può rivelarsi un fenomeno effimero e incapace di influire in profondità nella realtà sociale.

Il ruolo dei militanti

All'origine di ciò vi sono due fattori di debolezza.
Il primo è dato dal fatto che, nel loro accostarsi all'ideale libertario, molti dei nuovi militanti, ricchi dell'entusiasmo dei neofiti ma non sempre dotati di vigile spirito critico, si innamorano di certi aspetti "romantici" della tradizione anarchica e cercano di adeguarvisi, rispolverando, per riproporle tali e quali, pratiche, tematiche ed analisi di altre epoche.
L'altro, dalla circostanza che molti dei giovani che approdano all'anarchismo portano con sé tutta una farragine di concezioni, di luoghi comuni, di apriorismi e di argomenti retorici interiorizzati che hanno mutuato dalla propaganda e dal linguaggio demagogico di partiti e movimenti che traggono ispirazione da ideologie molto lontane dall'anarchismo e spesso ad esso antitetiche, ma che, in quel certo periodo, si trovano ad esercitare una qualche forma di egemonia politico-culturale negli ambienti da cui quei giovani provengono.
Diventa, allora, evidente la fondamentale importanza del ruolo dei militanti di più solida e matura consapevolezza e formazione, in quanto depositari e custodi di idee che trovano sì una conferma della loro validità dal fatto di rivelarsi aspirazione comune di persone che non ne erano consapevoli, ma rischiano di venire mal interpretate e perfino distorte.
Ma è, anche, proprio in quei periodi che vengono drammaticamente alla luce i limiti implicati, paradossalmente, dalla stessa vastità e complessità diversificata delle fonti teoriche del pensiero libertario. L'anarchismo ha, rispetto a tante altre correnti, il grande vantaggio di non essere uscito bello e pronto, nella forma di un sistema strutturato, dalla mente di un pensatore, ma di essere un punto di arrivo di scuole di pensiero che trovano origine in differenti matrici storiche, politiche e culturali. Ma, se questa sua caratteristica ne garantisce la non caducità e la riproducibilità continua, essa costituisce, al tempo stesso, uno svantaggio; nella misura in cui non c'è stata, al suo interno, quella confluenza compiuta delle diverse matrici originarie che poteva, e potrebbe ancora, permettere l'avvio, di un processo simbiotico capace di dar vita a un movimento in grado di operare una radicale trasformazione della società.
In tutte le sue diverse espressioni e correnti, l'anarchismo militante è troppo spesso rimasto impastoiato, sul piano pratico e su quello dello sviluppo teorico dei suoi postulati, in schemi, concetti ed analisi che erano il prodotto del particolare momento e dell'ambito sociale specifico in cui hanno preso vita, con la conseguenza paralizzante di non riuscire a recepire le istanze e la visione del mondo di altre tendenze e correnti di pensiero che, seppur originate da tradizioni storiche e culturali diverse e sviluppatesi in un altro ambiente ed in altre condizioni, avevano tutti i titoli per essere considerate affini nelle finalità ideali.
È questo il caso della mancata simbiosi tra l'anarchismo di matrice socialista, trapiantato dall'Europa in America alla fine del secolo scorso e che mise radici tra gli operai immigrati, ed il preesistente filone dell'anarchismo americano autoctono che faceva riferimento alla tradizione del liberalismo. Dall'incontro tra queste due forme di pensiero libertario avrebbero potuto prodursi importanti effetti, nel senso di un arricchimento reciproco e di una riflessione teorica in grado di far sviluppare ulteriormente le idee-forza del pensiero libertario. Certo, questo non si presentava facile, vista la presenza di notevoli differenze di impostazione. L'anarchismo individualista americano poneva il criterio dell'individualità e della libertà al centro di tutto il suo sistema di valori e ne faceva il punto di partenza di ogni progetto di costruzione di nuove forme di vita associata, mentre, da parte sua, "il pensiero anarchico di tradizione socialista afferma, in generale, che per capire e spiegare la società è necessario avere un approccio di tipo sociologico il quale, per sua stessa definizione, fa riferimento a forze collettive e non a singoli individui. Insomma, la libertà e l'autonomia individuale sono senz'altro il traguardo da raggiungere, ma non il punto di partenza per una reale strategia di trasformazione sociale"(7).
L'anarchismo "classico" della tradizione europea, la cui data di nascita può venire individuata col momento dell'uscita della corrente antiautoritaria dalla Internazionale e nel Congresso di Saint Imier del 1872, è una corrente del movimento operaio ed ha in comune con le altre correnti di esso il concetto primario di lotta di classe e la fede nell'avvento di una rivoluzione salvatrice e trasformatrice immediata del genere umano, da realizzarsi attraverso l'esplosione di un'insurrezione violenta. L'attesa di questa apocalittica lutte final e del grand soir, che avrebbero spazzato via la società esistente e avrebbero permesso l'edificazione di una società di uomini liberi ed uguali era patrimonio comune dell'anarchismo europeo ed implicava, quali che fossero le divergenze sull'opportunità e liceità della "propaganda del fatto" e della strategia degli attentati, l'accettazione - almeno teorica - del ricorso alla violenza. Non era così per gli esponenti dell'anarchismo individualista americano, i quali concordavano tutti nel rifiuto di propagandare l'uso della violenza, perché, dice Rocker, "Si rendevano conto che l'anarchismo non poteva essere realizzato mantenendolo con la forza, per cui ritenevano molto importante diffondere l'educazione, l'istruzione e convincere le persone in modo da prepararle ad una situazione in cui l'autorità non governi più. Respingevano, quindi, tatticamente l'uso di ogni mezzo coercitivo, fintanto che la società garantiva loro il diritto di diffondere le proprie idee e tentare una trasformazione pacifica" (8)

Goldman, Berkman, Most, Tucker

Vi era su questo punto una barriera di incomprensione psicologica difficilmente superabile. Emma Goldman mostra di aver ben compreso questo aspetto del problema quando dice, a proposito della scarsa disponibilità e della freddezza di Tucker quando venne sollecitato ad intervenire a favore di Alexander Berkman, che egli "non poteva comprendere la psicologia di chi aveva espresso con un atto di violenza la sua indignazione per la brutalità commesse da Frick durante la serrata di Hemestead" (9). È vero che, nel caso dell'attentato di Berkman, neppure Johann Most, grande apologeta della violenza rivoluzionaria e che spesso si era indirizzato ai suoi lettori, sulle pagine di "Freiheit", con frasi come "Riscattate l'umanità attraverso il sangue, il ferro, il veleno e la dinamite", mostrò molta solidarietà col suo autore ed arrivò, anzi, a dare prova di viltà lanciandogli contro invettive ed accuse di essere un provocatore, ma le ragioni di un tale atteggiamento possono essere individuate in rancori personali e nella paura che le conseguenze di quel gesto potessero ripercuotersi su di lui.
Nel caso di Benjamin Tucker, invece, va tenuto presente che "tutti coloro che hanno espresso un giudizio su Tucker sono unanimi su un punto: tutti ne riconoscono il grande talento intellettuale, la sua inflessibile rettitudine e il suo coraggio personale, che non lo abbandonava mai quando intraprendeva la difesa di una causa che riteneva giusta" (10). E' facile supporre che, se Tucker fosse stato psicologicamente in grado di capire lo stato d'animo e la mentalità che erano all'origine della scelta comportamentale di Berkman, non avrebbe aspettato nessuna sollecitazione per prendere le difese con la massima energia, al di là di ogni considerazione opportunistica e dettata dal timore di compromettersi. In sostanza, e anche se questo episodio può essere visto come un "caso limite", la difficoltà di Tucker a comprendere Berkman è indicativa di una più generale incomprensione tra due differenti modi di concepire l'anarchismo, che nasceva da una ben diversa tradizione storico-culturale e di esperienze di vita. Una difficoltà di comprensione a determinare la quale concorrevano fattori assai vari. Perfino il modo di percepire il problema della religione. I libertari del filone individualista americano annoveravano tra i loro predecessori ed ispiratori personaggi come Ralph W. Emerson e, ancor più manifestamente, Henry David Thoreau, figure di letterati e di pensatori che sarebbero inspiegabili con l'eredità della Riforma, per quella parte dei suoi contenuti che ne fa un movimento di rivolta della coscienza individuale. L'ateismo che possono professare è di tipo filosofico, nello spirito illuministico, privo della virulenza e delle componenti di rifiuto viscerale che caratterizzava l'anticlericalismo e l'odio antireligioso dell'anarchismo europeo. Benjamin Tucker scriveva: "Pur rilevando nella gerarchia divina una patente contraddizione con l'anarchia: pur non credendo, gli anarchici non sono perciò meno partigiani della libertà di credere. Essi si oppongono risolutamente ad ogni negazione della libertà religiosa. E così come proclamano il diritto per l'individuo di essere o di scegliere il proprio medico, essi rivendicano il diritto di essere o di scegliere il proprio prete. Non più monopoli o restrizioni in religione che in medicina" (11).
Di conseguenza, Tucker non aveva molti punti di contatto con la frenesia antireligiosa dei militanti libertari che provenivano da paesi dominati dal cattolicesimo oppure dagli anarchici ebrei, con le loro parodie delle cerimonie rituali e il loro compiacimento dissacratorio dei balli di Yom Kippur. Un ostacolo al dialogo ed alla comprensione reciproca era costituito anche da fattori linguistici, visto che le attività di propaganda degli anarchici di origine europea si esplicavano prevalentemente nelle lingue delle comunità etniche di provenienza, ma sono state quasi certamente più importanti le diversità delle tradizioni storiche e culturali, che determinavano le rispettive mentalità. Dell'anarchismo americano autoctono si può dire con Rocker "Per la sua origine autenticamente americana [esso] diverge sostanzialmente da quello delle idee libertarie portate in America dall'immigrazione europea, che si rifaceva quasi esclusivamente alle teorie di Kropotkin, Reclus e dei loro seguaci.
L'anarchismo sviluppatosi sul suolo americano ha le sue radici in quelle idee filosofiche che circolavano in Inghilterra nel diciottesimo secolo e che furono portate qui dai Padri Fondatori di questa nazione, modificandosi poi sotto l'influenza del nuovo ambiente. Ma innanzitutto, esso è radicato nelle peculiari condizioni sociali americane, profondamente differenti da quelle europee. Warren, Andrews, Spooner, Greene, Hoywood e Tucker erano tutti originari del Massachusetts ed autentici Yankee, un soprannome oggi molto usato per definire tutti gli americani, ma che in origine è rivolto solo agli abitanti degli stati del New England, che si consideravano l'élite americana" (12). Ecco, più ancora che nella distanza che separava l'anarchismo di ascendenza liberale da quello di matrice socialista sul piano dottrinario - distanza indubbiamente ampia ma non tale da non poter venire colmata e che poteva, anzi, rendere più stimolante il confronto e più fruttuosa la confluenza -, il maggiore ostacolo alla comprensione reciproca può essere visto in fattori di ordine psicologico, riconducibili alla natura prettamente americana del pensiero libertario indigeno e all'atteggiamento mentale dei suoi esponenti e divulgatori, cui si contrapponeva lo stretto legame con i gruppi etnici di appartenenza e l'attaccamento alle specifiche tradizioni rivoluzionarie dei paesi di provenienza che caratterizzavano la Weltanschauung dei militanti libertari immigrati dall'Europa.
E che si trattasse di un legame strettissimo e persistente ne fa fede la lunga vita di pubblicazioni come "L'adunata dei refrattari" che, fondata nell'aprile del 1922 da un gruppo di emigrati italiani che si richiamavano alle idee e all'azione di Luigi Galleani, continuò ad uscire fino al 1971, e come il periodico di lingua yiddish "Freie Arbeiteir Stimme" che, nato nel luglio 1890, cessò le pubblicazioni solo nel dicembre del 1977. Estremamente significativo, poi, della passione con cui gli emigrati europei seguivano e vivevano emotivamente gli sviluppi delle lotte e gli eventi drammatici dei loro paesi d'origine è l'episodio di Gaetano Bresci che, sconvolto dalle notizie sul massacro perpetrato a Milano nel 1898 dal generale Bava-Beccaris, durante la repressione dei moti popolari per il carovita, decide di vendicare le vittime e attraversa l'oceano per tornare in Italia ed uccidere Umberto I.

La necessità di ripensarsi

Allo stesso modo si può dire - anche se assume una forma diversa e per certi versi opposta - dell'impatto traumatico e della reazione emotiva tra i libertari ebrei davanti alle notizie del pogrom di Kishinev e a quelle relative alla ripresa delle persecuzioni antiebraiche nell'Europa dell'Est. In generale, i militanti libertari ebrei si sentivano completamente distaccati dalle loro origini e, così come rigettavano i valori religiosi, respingevano anche l'idea stessa di appartenenza ad una particolare etnia, riconoscendosi solo in una particolarità linguistica, l'uso dell'yiddish. Ma l'annuncio di una ripresa delle persecuzioni ebbe l'effetto di un terremoto che ne scosse le convinzioni e, riportando in primo piano il problema dell'identità ebraica, provocò una forte tendenza ad avvicinarsi alle posizioni del sionismo.
Tanto che uno dei più rappresentativi esponenti del movimento libertario, Hillel Zelotaroff, si fece portavoce di questa tendenza in un articolo che venne pubblicato, sotto il titolo di Questioni gravi, sul "Freie Arbeiter Stimme" del 23 maggio 1903, dove espose le ragioni del suo slittamento verso le idee del sionismo socialista e che si conclude con queste affermazioni: "I nostri rapporti verso la corrente del nazionalismo sono dunque chiari. Noi dobbiamo non solo aiutare a salvare il popolo ebraico dalle forze esterne che cercano di perseguitarlo e di annientarlo, ma anche aiutare a riunire le masse e i centri là dove una unitarietà nazionale può prevenire l'annientamento interno del popolo. Noi dobbiamo collocarci all'avanguardia delle libertà e delle luci e contribuire a che si sviluppi una cultura che permetterà al nostro popolo di accedere ad una vita sociale più libera e migliore".
Molte cause hanno contribuito ad ostacolare la comprensione ed a vanificare la possibilità di una proficua confluenza e compenetrazione delle due componenti ed espressioni del pensiero libertario e sembra lecito considerare, oggi e col senno di poi, la storia del loro rapporto come quella di una grande occasione perduta. Anche nella storia collettiva di un movimento, come nell'esistenza dei singoli individui, ciò che non si è saputo o potuto afferrare al momento giusto non può più venire recuperato nelle stesse condizioni. Ma può accadere di rimediare, più tardi, in forme, modi e circostanze diverse.
Oggi, come forse mai gli era accaduto prima, l'anarchismo si trova davanti alla necessità di ripensarsi e di darsi nuove formulazioni se non vuole rinunciare ad incidere sulla realtà sociale contemporanea e, alla luce di questa esigenza, può rivelarsi importante la riscoperta di aspetti e correnti del pensiero libertario del passato che sono stati troppo a lungo sottovalutati, e talvolta del tutto ignorati, dalla maggior parte dei militanti anarchici. Indubbiamente le concezioni e le ipotesi propositive in campo economico degli individualisti anarchici apparivano incompatibili con le tesi dell'anarco-comunismo, di ispirazione kropotkiniana, alla quali si richiamava la maggior parte dei libertari europei. Ma non va dimenticato che "al pari di ogni movimento intellettuale, gli anarchici individualisti americani avevano diverse sfumature di opinioni" (13) e che "anche tra i cosiddetti individualisti vi era un numero di persone che, a questo riguardo, avevano vedute più larghe e giustamente ritenevano che il mutualismo, il collettivismo e il comunismo rappresentassero solo diversi modelli economici, le cui possibilità pratiche dovevano ancora essere verificate, e che il primo obiettivo è di assicurare agli uomini la libertà individuale e sociale, prescindendo dalle basi economiche con le quali le si possa realizzare" (14).
Analoghe considerazioni possono valere anche in riferimento all'anarchismo degli immigrati, il cui corpo dottrinario era tutt'altro che rigido ed omogeneo. Cosicché poteva non apparire infondata la speranza espressa da Max Nettlau che "queste due propagande che s'ignorano e si considerano ostilmente potessero cooperare o appoggiarsi a vicenda, constatando semplicemente che non emettono dogmi o risultati acquisiti, ma semplici ipotesi di cui ognuno ama la propria, senza disprezzare quella dell'altra, e che l'esperienza libera dell'avvenire deciderà se l'uno o l'altro o altri metodi dovranno prevalere e se vi dovrà essere un metodo unico o più d'uno, e quali, e in quali condizioni speciali" (15).
Tuttavia, purtroppo, l'auspicio di Nettlau non si è realizzato, se non, forse, marginalmente e in misura ininfluente. Ma se questa confluenza non si è verificata, ciò non può essere attribuito ad un'unica causa specifica, ma ad un complesso di motivi concorrenti. Comunque, se, in questo coacervo di cause negative, ci proponessimo di individuare il fattore più significativo e determinante, questo lo si dovrebbe vedere nell'enorme distanza che separava i due diversi modi di porsi il problema dei mezzi attraverso i quali poter pervenire ad una trasformazione radicale della società, implicati da una differente interpretazione del concetto stesso di rivoluzione.
Il bagaglio ideologico dei militanti immigrati comprendeva alcune credenze, tacitamente accettate ed assurte a postulati e patrimonio comune di tutto, o quasi, l'anarchismo europeo fin dagli albori del movimento anarchico di matrice socialista, dal tempo, cioè, della Prima Internazionale. Questi punti fermi sui quali non si nutrivano dubbi consistevano in una pressoché illimitata fiducia nello spirito rivoluzionario delle masse e nell'attesa fideistica di una imminente esplosione rivoluzionaria destinata a risolvere, d'un solo colpo, tutti i problemi sociali e che si trattava solo di riuscire ad affrettare o, una volta iniziato il previsto movimento insurrezionale, spingere avanti fino al conseguimento di tutti gli obiettivi.

La questione della violenza

Ed è proprio un anarchico che aveva conosciuto quei giorni, Errico Malatesta che, in un articolo del 1931, ci offre uno spaccato di quella mentalità osservando: "Sessanta e più anni or sono noi pensavamo che l'anarchia e il comunismo potessero sorgere come conseguenza diretta, immediata, di un'insurrezione vittoriosa. Non si tratta, dicevamo, di giungere un giorno all'anarchia e al comunismo, ma di cominciare la rivoluzione sociale coll'anarchia e col comunismo. Bisogna, ripetevamo nei nostri manifesti, che la sera del giorno stesso in cui saranno vinte le forze governative ciascuno possa soddisfare pienamente i suoi bisogni essenziali, sentire senz'altro ritardo i benefici della rivoluzione...Eravamo convinti che il popolo, ansioso di libertà e di giustizia, avesse anche la capacità di organizzarsi spontaneamente e provvedere da sé ai propri interessi. Secondo noi bastava distruggere gli ostacoli materiali, cioè sconfiggere la forma armata che difendeva i proprietari e tutto sarebbe andato da sé" (16). D'altra parte, nonostante questa lucida autocritica di quelle ingenuità, lo stesso Malatesta, che certo non era un cultore del mito della violenza e che non aveva esitazioni a dichiarare che "se per vincere si dovesse elevare la forca nelle piazze, io preferirei perdere" (11), non hai mai smesso, sino alla fine dei suoi giorni, di sperare in una prossima rivoluzione e di riporre fiducia nel metodo insurrezionale. In sostanza, egli non si è mai, sotto questo aspetto, discostato molto dalle posizioni che esprimeva pubblicamente negli anni '20, quando, pur prendendo atto che "l'anarchia non si fa per forza: volerlo sarebbe la più balorda delle contraddizioni" (18), egli affermava anche che "è condizione previa del trionfo dell'anarchia la rivoluzione che rompe violentemente lo stato di cose attuale e rende possibile l'avvento delle masse a condizioni tali che si rendano capaci di comprendere ed attuare l'anarchia" (19) e ribadiva: "Questa rivoluzione deve essere necessariamente violenta, quantunque la violenza sia per se stessa un male. Deve essere violenta perché sarebbe una follia sperare che i privilegiati riconoscessero il danno e l'ingiustizia dei loro privilegi e si decidessero a rinunciarvi volontariamente. Deve essere violenta perché la transitoria violenza rivoluzionaria è il solo mezzo per mettere fine alla maggiore e perpetua violenza che tiene schiava la grande massa degli uomini (...). Ma come si deve fare, come si deve svolgere questa rivoluzione? Naturalmente bisogna principiare con l'atto insurrezionale che spazzi via l'ostacolo materiale, le forze armate del governo, che si oppone a qualunque trasformazione sociale" (20).
I militanti libertari che varcavano l'oceano portavano nel loro cuore tutta la forza di una fede incrollabile, con connotazioni quasi messianiche, nel prossimo avvento di una palingenesi sociale ed è facilmente comprensibile che il sogno mitico di una insurrezione vittoriosa, che avrebbe permesso di fare tabula rasa di un passato di miseria e di sbarazzarci di ogni forma di oppressione e di sfruttamento, esercitasse una forte attrazione tra gli operai immigratati e su quanti si trovavano a dover fare i conti ogni giorno con la realtà disumana di uno sfruttamento brutale, cinico e arrogante come lo era quello del capitalismo americano nella sua fase di più rapida e selvaggia espansione ed affermazione. Le stesse forme che veniva ad assumere la lotta sociale - sia perché anche l'impegno sindacale era visto, nell'ottica dei militanti più ideologicamente preparati, come un preludio ed una preparazione per una sollevazione rivoluzionaria risolutiva, sia per la brutalità accentuata della reazione repressiva padronale - inducevano un numero considerevole di lavoratori a guardare con simpatia all'azione rivoluzionaria violenta, anche se, per la verità, si rivelarono molto meno disposti ad impegnarvisi.
La propaganda infuocata di Johann Most gli attirava un gran numero di ascoltatori e di sostenitori. Gli incitamenti di giornali come Die Arbeiter Stimme erano di questo tenore: "C'è qualcosa che vale la pena di sentire. Ieri, a Quincy, alcuni scioperanti hanno aperto il fuoco sui padroni, non sui crumiri. E' un esempio che raccomandiamo caldamente di seguire". Oppure: "Gli operai dovrebbero puntare un fucile su ogni membro della milizia e comportarsi con lui come chiunque si comporterebbe con una persona che sta chiaramente cercando di attentare alla sua vita. Ma potrebbe essere difficile, così all'improvviso, trovare un'arma a portata di mano... Operai, armatevi!". Oppure ancora: "Se non ci diamo da fare subito per una rivoluzione sanguinosa, non lasceremo ai nostri figli che povertà e schiavitù, allora, preparatevi. Preparatevi in tutta tranquillità per la rivoluzione!" (21). Questi incitamenti piacevano al particolare tipo di lettore a cui si indirizzavano e, anche se sul piano dell'esecuzione di tali suggerimenti i risultati furono scarsi (22), l'apocalitticismo retorico di questo tipo di propaganda contribuiva alla diffusione di una certa mentalità e, ancor più, a dare una certa immagine dell'anarchismo degli immigrati.
In un siffatto contesto la posizione degli individualisti anarchici americani autoctoni - che rifiutavano ogni ipotesi di soluzione comunista del problema sociale, che credevano di poter pervenire alla graduale scomparsa di ogni forma di coercizione autoritaria grazie all'educazione, all'influenza delle idee, al dialogo ed al libero accordo tra gli uomini, che si preoccupavano della libertà religiosa e di quella sessuale, che facevano affidamento sulla sperimentazione di forme nuove di relazioni sociali, da attuarsi già nel presente e all'interno stesso della società esistente - non poteva venire facilmente recepita né, tanto meno, trovare consensi tra gli operai immigrati e tra i militanti che si richiamavano alle idee dell'anarchismo europeo e vivevano nell'attesa di un grande evento rivoluzionario che avrebbe dovuto prendere la forma dell'atto insurrezionale.
Ma, oggi, il discorso e le proposte degli individualisti anarchici del filone che faceva riferimento al pensiero liberale conservano ancora una loro validità? E se sì, l'attuale momento storico può rivelarsi più propizio di quanto non lo fosse quello di allora alla loro diffusione o, almeno, ad una riscoperta che induca a studiarli, comprenderli e reinterpretarli in un'ottica che tenga conto della realtà contemporanea? Forse sì, molte illusioni e molti miti sono oggi caduti. Con essi molti pregiudizi e barriere psicologiche.
Il movimento anarchico contemporaneo si trova davanti alla necessità di ripensarsi, di darsi degli obiettivi raggiungibili, di cercare di rifondarsi a partire dal punto fermo centrale del pensiero libertario che ne costituisce l'essenza irriducibile e non assimilabile ad altri, dal principio di libertà che ne è il fondamento etico. E, in vista di tale obiettivo, vi è molto che può venire rinvenuto, studiato e riproposto in quel vecchio filone dimenticato della storia delle idee libertarie. La vecchia idea ottocentesca di rivoluzione, immagine mitizzata della rivoluzione del 1789, ha fatto il suo tempo e dopo tanti insegnamenti della storia passata e recente, alla luce, cioè, dei risultati di tante esperienze rivoluzionarie che si sono succedute, c'è da porsi molti e seri interrogativi sull'effettivo valore potenziale libertario di un tale mezzo.
Può valere, dunque, la pena di verificare quali possibilità offrano altre strade.


1) E. ARMAND, Iniziazione individualista anarchica, a cura degli Amici italiani di Armand, Firenze 1956, p. 480.

2) E.HENRY, Lettera al direttore del Conciergerie, in D. GUERIN, Né Dio né padrone, Milano 1971, p. 350.

3) L.M. VEGA, La pratica dell'utopia, Milano 1978, p. 13.

4) Cfr. G. WOODCOCK, L'anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, Milano 1977.

5) Cfr. G. SOBRERO. La fine dell'anarchismo, intervista a F.S. Merlino in La Stampa, 18.6.1907.

6) L.M. VEGA, op. cit., p.16.

7) N. BERTI, Presentazione all'edizione italiana di R. ROCKER, Pionieri della libertà, Milano 1982, pp. 13-14.

8) R. ROCKER, op.cit., p. 167.

9) E. GOLDMAN, Vivendo la mia vita, vol. I, Milano, p. 219.

10) R. ROCKER, op. cit., p. 133.

11) Cit. in E. ARMAND, op. cit., p. 45.

12) R. ROCKER, op. cit., p.161.

13) ibid, p. 165.

14) ibid., p. 66.

15) M. NETTLAU in " Pensiero e volontà" , 14-25 agosto 1926, cit, in E. MALATESTA, Scritti, vol. III, a cura del Movimento anarchico italiano, Carrara 1975.

16) E. MALATESTA in "Adunata", 1 agosto 1931, cit. in E. MALATESTA op. cit., vol. III, P. 190.

17) E. MALATESTA in "Pensiero e volontà", 1 ottobre 1924, in E. MALATESTA, op. cit., vol. III, P. 123.

18) E. MALATESTA in "Umanità Nova", 13 marzo 1920, in E. MALATESTA op. cit., vol. I p. 37.

19) ibid.

20) E. MALATESTA in " Umanità Nova", 12 agosto 1921, in E. MALATESTA, op. cit., vol. I, p. 117.

21) "Die Arbeiter Stimme", 8 aprile 1885; 5 maggio 1885; 18 maggio 1886; cit. in L. ADAMICH, Dynamite, Milano 1977.

22) Il ricorso sistematico a metodi di intimidazione e all'uso della violenza compare solo più tardi e del tutto avulso da motivazioni ideologiche, in correlazione al fenomeno della "gangsterizzazione" dei sindacati e con l'impiego di picchiatori e attentatori assoldati.