Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 175
estate 1990


Rivista Anarchica Online

La Fabbrika occupata
di Cristina Valenti

Si è svolta a Bologna, dal 28 giugno al 18 luglio, la sesta sessione internazionale dell'ISTA (International School of Theatre Anthropology) dal titolo "Università del teatro eurasiano: tecniche della rappresentazione e della storiografia". Tra le organizzatrici dell'intenso programma, la nostra collaboratrice Cristina Valenti. Ecco il suo resoconto

"Il viaggio nella Terra del Rimorso è ora terminato: un viaggio che volle essere comprensione storica di un paesaggio umano, e che sperimentò come problema entrambi i termini del rapporto, i visitati e i visitatori, la terra percorsa e i suoi non occasionali pellegrini".
Con questa fra di Ernesto De Martino si apre Lo straniero che danza, il libro che racconta i viaggi teatrali dell'Odin Teatret nelle montagne della Barbagia, in Sardegna, in Puglia, fra il '72 e il '77: quando nacque e si sviluppò l'esperienza del "baratto", l'uso del teatro come tramite per uno scambio culturale e antropologico, "come giravano e si scambiavano, nelle isole della Nuova Guinea, collane e bracciali di conchiglie, mwali e soulava" scriveva Eugenio Barba da Carpignano Salentino, nel 1974. Da una parte lo spettacolo dell'Odin, le danze, i numeri acrobatici, le clowneries, le parate teatrali con trampoli, maschere, tamburi, sbandieratori e nastri filanti, dall'altra parte le canzoni della Grecia ritrovate dai giovani di Calimera, i balli popolari e la pizzica pizzica, l'armonica a bocca, la chitarra e il tamburello dei pastori e dei contadini sardi e pugliesi.
La frase di Eduardo De Martino avrebbe potuto concludere il Dialogo Teatrale con la Fabbrika Occupata, a Bologna il 14 luglio scorso, penultima giornata della sessione bolognese dell'ISTA, Università del Teatro Eurasiano.
La Fabbrika, ex stabilimento industriale per la produzione di infissi e serrande abbandonato qualche decennio fa, funziona da un anno circa come centro sociale autogestito e inoltre come circuito alternativo di sperimentazioni e aggregazioni spettacolari di base. Con i suoi Spazi Musica, Arte e Teatro, la Fabbrika è una sorta di Beaubourg dell'emergenza: accogliendo ciò che è marginale al sistema e al mercato delle arti, al di fuori di ogni certezza di sostentamento e perciò in condizioni di precarietà intrinseca. E da qualche tempo la Fabbrika è anche un dormitorio semi-improvvisato e paradossalmente "riconosciuto". Il Comune di Bologna ha chiesto infatti nei mesi scorsi agli occupanti di accogliere una trentina di extracomunitari regolarmente registrati ma sprovvisti di posto letto. La Fabbrika ha accettato a condizione che gli spazi destinati a riceverli fossero resi vivibili. Il Comune ha alzato dei muretti di mattoni in uno dei capannoni, ricavandovi delle cellette corrispondenti ad altrettanto posti letto: ed il luogo è stato così promosso a vivibile. Nel capannone contiguo sono ben presto arrivati altri ospiti, marocchini e tunisini, non indirizzati dall'ente pubblico, che hanno sistemato i loro materassi direttamente sul cemento della Fabbrika, sotto i grandi lucernari incandescenti di sole durante il giorno ed esposti all'acqua in caso di intemperie. Oggi gli extracomunitari che dormono nella Fabbrika sono un gruppo fluttuante che si aggira attorno alle cento persone, che comprende comunità anche in conflitto fra loro, rispetto alle quali gli occupanti si trovano a svolgere una specie di assistentato sociale, cercando equilibri, sorvegliando l'emarginazione e le sue possibili conseguenze: intervenendo con l'autogestione per provvedere alle necessità anche più elementari.

Iniziative autogestite

La sperimentazione di forme alternative, non solo di arte e spettacolo, ma anche di aggregazione e socialità, trova attualmente i suoi unici spazi residui al di fuori delle maglie istituzionali e all'insegna della necessità. Oggi alternativo coincide con necessario. È necessario sperimentare qualcosa di alternativo (in termini di organizzazione sociale, economica e culturale) per sopravvivere al di fuori delle strutture istituzionali, così come l'alternativa si fa necessità (cioè obbligo dell'emergenza e della marginalità) per poter essere.
Non è un caso che siano i centri sociali oggi in Italia gli unici luoghi ad accogliere forme di sperimentazione reali: nell'attuale "urbanizzazione" del territorio cultural-spettacolare, soggetto alle leggi del mercato e dei nuovi mercanti (impiegati comunali e funzionari di partito) interessati a sottolineare tutto ciò che è ufficiale, e ad omologare il resto al suo modello, le forme radicali di sperimentazione e alternativa giovanile, politica e culturale si collocano necessariamente fuori delle mura. E paradossalmente le iniziative autogestite svolgono nella clandestinità i compiti ai quali l'organizzazione della società civile non è in grado di provvedere: si tratti di accoglienza e assistenza sociale o dell'attivare dinamiche culturali e artistiche di base.
Lo Spazio Teatro della Fabbrika è coordinato da Eugenio Ravo, un artista che si è formato in Francia con Decroux e che conduce attualmente un'originale ricerca di tipo teatral-musicale. Ha accettato di ospitare il dialogo teatrale con l'ISTA quando ha avuto la certezza che non si sarebbe trattato di una bella festa, ma di un atto di confronto reale e solidarietà.
Ero entrata diverse volte nella Fabbrika durante l'organizzazione dei dialoghi o per assistere a performance artistiche, e mi aveva sempre colpito il fascino fatato e hard di quell'archeologia industriale, disegnata dagli squarci di luce che entrano dalle molte vetrate e dagli interventi dei tanti artisti che soggiornandovi o semplicemente passandovi vi hanno lasciato la loro impronta. Ma il 14 luglio, quando la Fabbrika si è aperta alla carovana dell'ISTA e al pubblico della città, c'era qualcosa di commovente che si univa alla suggestione.
Gli occupanti della Fabbrika hanno maturato una specie di amore per il luogo del quale, in termini legali, stanno abusando; e in una sorta di ricerca delle proprie radici hanno dissotterrato dalle macerie vecchi cimeli: l'antica insegna, l'armadietto con i talloncini di identificazione degli operai e tanti rottami di cui hanno ricostruito storia e provenienza. In un angolo, appena si entra, la vecchia vita della fabbrica è evocata come in un museo attraverso grandi e piccoli cimeli industriali. Nel grande spazio che si apre sulla sinistra si mescolano gli oggetti della vita attuale della Fabbrika e quelli assemblati o costruiti dagli artisti che vi hanno lavorato: i totem, ready-made di duchampiana memoria, i graffiti colorati.

Sapore di autenticità

Il dialogo è iniziato nello Spazio Teatro vero e proprio: vecchie sedie di recupero disposte a semicerchio attorno a un piano di linoleum montato per l'occasione. La lunga figura della morte sui trampoli e il piccolo clown con la bombetta e il fischietto in bocca, due personaggi del teatro di strada dell'Odin hanno introdotto e fatto da cornice allo spettacolo: la danza Odissi di Sanijukta Panigrahi, il Kabuki giapponese e il Kechak dei Balinesi. Dai loro diseredati quartieri cominciavano ad arrivare anche i più diffidenti degli extracomunitari e ad apprezzare quella strana festa. "E come disse il poeta: larga è la foglia, stretta la via, dite la vostra che ho detto la mia!": il clown nero conclude così la parte Ista del dialogo e dà spazio allo spettacolo della Fabbrika.
Eugenio Ravo ci guida spingendo un suo carrettino musicale, tutto costruito con pezzi di recupero della vecchia fabbrica. Lo spettacolo è la vita della Fabbrika e sono i vari artisti che la attraversano: il fachiro, la performance di un artista greco che modella col fuoco i suoi oggetti: una serie di biciclette avvolte nella tela di iuta, una ragazza tedesca che canta due canzoni accompagnandosi con la chitarra, e che troviamo seduta nel nostro percorso, mentre il fuoco crepita ancora e il fumo arriva avvolgente, un pittore impegnato ad allestire una sua mostra, in uno spazio dove due marocchini fanno musica; poi l'itinerario procede fin dentro il dormitorio, il carrettino suona, l'attore pronuncia qualche parole: "Siamo a Bologna...", ricorda. Il dialogo itinerante termina nel luogo dal quale si era partiti, lo Spazio Teatro, dove Eugenio Ravo presenta la sua performance musicale, con le "tube" di sua costruzione: ottenute con oggetti trovati nella fabbrica e fatte risuonare la prima volta in una sera d'inverno, cercando il modo di produrre calore.
Mohamed ha lavorato due giorni per offrirci il suo pane marocchino cotto sulla pietra. Il dialogo è finito. Molti spettatori sono commossi. Eugenio Barba invita a riempire i cappelli. Dice: "La ricca Bologna ha una rassegna estiva che si intitola Bologna sogna; ma noi oggi abbiamo visto che i sogni possono produrre incubi".
Come dire "il viaggio nella terra del Rimborso è ora terminato". I "non occasionali pellegrini" non sono stati solo interlocutori del baratto, ma hanno rappresentano un impulso, nella "terra percorsa": scoprendoli, hanno messo in moto processi relazionali, e i visitati hanno mostrato il legame comune che li caratterizza e li definisce in rapporto ai visitatori. Legame di solidarietà e verità, che ha in qualche modo restituito verità ai loro spettacoli. Così il fachiro ha fatto davvero paura e raccapriccio, la voce della ragazza tedesca ha suscitato un dolce struggimento, le biciclette bruciate hanno dato il senso esclusivo dell'unicità dell'evento di performance, poi la commozione delle canzoni degli immigrati di colore e delle tube di Eugenio Ravo. Un sapore di autenticità e necessità che non è cosa da poco, né di tutti i giorni, in epoca di fruizione patinata e "mediata" dello spettacolo.

 

ISTA / Dimensione transculturale e approccio empirico

Fondata nel 1979, L'Ista - International School of Theatre Anthropology - concpita e diretta da Eugenio Barba, è un organismo permanente con sede a Holstebro (Danimarca).
L'ISTA realizza sessioni pubbliche presso istituzioni culturali, nazionali ed internazionali, che ne assicurano l'amministrazione.
Fra il 1979 ed il 1990 si sono svolte le seguenti sessioni:
- Bonn (Germania Federale), 1-31 ottobre 1980;
- Volterra (Italia), 8 agosto - 8 ottobre 1980;
- Blois e Malakoff (Francia), 16-26 aprile 1985;
- Holstebro (Danimarca), 17-22 settembre 1986;
- Salento (Italia), 1-14 settembre 1987.
L'ISTA è il punto di arrivo da un lato degli anni di viaggio dell'Odin Teatret (il teatro fondato nel1964 da Eugenio Barba con sede prima a Oslo, in Norvegia, poi a Holstebro, in Danimarca) e dall'altro dei suoi anni di apprendistato, delle lunghe ricerche sul lavoro e la cultura dell'attore. All'ISTA partecipano i maestri orientali che furono all'origine della formazione di Barba e dei suoi attori, e vi prendono parte "allievi" che sono spesso attori o registi dei teatri di gruppo che l'Odin ha incontrato durante i suoi viaggi ai margini del teatro.
Nel corso di dieci anni l'ISTA si è configurata come un laboratorio di ricerca sul lavoro dell'attore e del danzatore, e sulla percezione dello spettatore. Le tradizioni del teatro orientale, giapponese, cinese, indiano e balinese si saldano nell'ISTA alle ricerche sull'allenamento dell'attore europeo.
La scelta metodologica dell'ISTA si fonda su una dimensione transculturale e su un approccio empirico ed ha come obiettivo la comprensione degli elementi primi su cui si fondano il bios del teatro e l'ethos degli attori.
Il termine "antropologia" ha nell'ISTA il significato originario di "studio dell'essere umano". Antropologia Teatrale è perciò lo studio delll'essere umano in situazione di rappresentazione organizzata, quando dalle tecniche quotidiane del corpo si passa a tecniche extra-quotidiane.
La sessione bolognese dell'ISTA (Università del Teatro Eurasiano, 28 giugno / 18 luglio 1990) si è svolta durante la prima parte come corso teorico-pratico, sotto forma di laboratorio chiuso, al quale hanno partecipato circa 110 persone: l'équipe permanente dell'ISTA, ossia un gruppo di ricerca internazionale comprendente storici del teatro, sociologi, antropologi, musicologi e artisti di diverse tradizioni teatrali (gli ensambles di danza Odissi, India, con Sanjiukta Panigrahi, di danza Buyo Kabuki, Giappone, con Kanho Azuma e Kanichi Hanayagi, di teatro danza balinese, con la compagnia Dharma Shanti, oltre agli attori e musicisti dell'Odin Teatret) ai quali si sono uniti gli ospiti provenienti da università e teatri di diversi paesi (in particolare questa sessione ha privilegiato la presenza sudamericana, con studiosi e rappresentanti di gruppi o istituti teatrali peruviani, argentini, cubani, brasiliani, cileni, uruguaiani, colombiani).
La seconda parte ha compreso una serie di attività aperte: un simposio su Antropologia teatrale: ethos e pre-espressività dedicato a dimostrazioni pubbliche di lavoro dirette da Eugenio Barba, con la partecipazione dei pedagoghi e degli artisti orientali e occidentali; un convegno internazionale dedicato al tema Tecniche della rappresentazione e storiografia; spettacoli degli ensambles indiani, balinesi e giapponesi; il Theatrum Mundi, spettacolo di tutti gli artisti dell'ISTA; due Dialoghi teatrali, ossia baratti sotto forma di feste d'ospitalità e confronto tra forme spettacolari straniere e manifestazioni della cultura del posto: il primo con lo Spazio Teatro Fabbrika (di cui riferiamo estesamente nell'articolo) e il secondo con il Quartiere Borgo Panigale.
Nel presentare il programma dell'ISTA, Barba ha scritto: "Il rapporto che lega il teatro e il libro è un mezzo fecondo di trasmissione e crescita culturale. Però tende spesso a disequilibrarsi dalla parte del libro, e la memoria delle esperienze vive che furono teatro rischia di disperdersi in pagine erudite ed acute, ma decontestualizzate. Fra le diverse forme di etnocentrismo che velano i nostri occhi, ve n'è una che non riguarda le aree geografiche e culturali e che dipende dai ruoli che la realizzazione teatrale crea: è l'etnocentrismo che considera il teatro solo dal punto di vista dello spettatore trascurando tutta la problematica che sta dall'altra parte: l'ensamble - la rete di relazioni, conoscenze e modi di pensare - di cui lo spettacolo è il frutto. Emerge da tutto ciò la vitale importanza di un tempo di esperienza comune in cui, preservando le specificità delle diverse competenze, gli artisti che incarnano precise tradizioni possano dialogare con intellettuali che si danno il compito di affilare gli strumenti per comprendere la multiforme realtà del teatro e della sua storia".