Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 175
estate 1990


Rivista Anarchica Online

A nous la libertè
diario a cura di Felice Accame

L'itinerario della mente alla sobrietà

In concomitanza all'americanizzazione più immonda e appestante il Giappone sa mantenere un'attenzione per le proprie radici culturali con genuinità d'intenti e profondità di riflessione. Tanto che il suo cinema, insieme a storie che miscelano supermarket sesso e morte, sa ancora produrre film come Morte di un maestro del tè di Kei Kumai, regista dalla mano sicura e leggera, alieno dalle frivolezze e dalle concessioni alle platee in cerca di comodi narcotici.
Le foglioline del tè contengono alcaloidi, come la caffeina e la teofillina, e tannino - in misura maggiore nel tè verde, torrefatto prima che le foglie avvizziscano e fermentino; comprensibile, dunque, come la bevanda potesse essere somministrata a monaci taoisti e praticanti zen affinché non si addormentassero nella meditazione, o a samurai in attesa della battaglia perché guerreggiassero con il massimo furore. La cerimonia del tè - ovverossia le operazioni con le quali la bevanda viene preparata e offerta - necessita del suo Maestro, necessita, cioè, di colui che, per carisma personale e per meriti di saggezza acquisita, nell'officiarla la nobilita e le conferisce nuovo senso: diventa arte della semplicità e della sobrietà, addomesticamento dell'io, ricerca e ottenimento dell'Essenza, forse, meno misticamente, anche pace comune.
Coerentemente all'intero processo simbolico, il Maestro del tè è guida per il cammino (il "tao", per l'appunto), e dunque non può stupire se la sua figura, in certe condizioni storico-sociali, assume valori di potentato civile e religioso, né più né meno di tante figure delle chiese cristiane medioevali.
Morte di un maestro del tè vuole riportarci all'atmosfera mentale di un Giappone negli anni di passaggio dal 1500 al 1600 e per farlo non ha bisogno di tante baracconate hollywoodiane: a Kumai sono sufficienti rigorosi e geometrici interni, il greto sassoso di un torrente, poche centinaia di metri di natura. È un racconto di racconti. L'allievo, anni dopo, è indotto a ripensare -e ripensare è un modo per raccontare a sé ed a chi cerca di sapere tramite lui - il suicidio del proprio Maestro, con la cui ombra vive la sua giornata di meditazione e la sua notte di sogni inquieti.
Da una narrazione all'altra, nel vincere una ritrosia, nel trarre un'implicazione mai osata, si scopre che i suicidi sono stati tre, tutti decisi in un solo patto, tutti rivendicativi di una sola illimitabile libertà contro la protervia del Potere.
Di cinema ce n'è poco o nulla - di quel cinema, almeno, che agli occhi di chi produce dalle nostre parti sembra l'unico legittimato ad esistere. C'è la parola, la parola che si fa racconto e la parola che si fa immagine, c'è la parola per quel che conta fra gente semplice; c'è compostezza - dello sguardo, del gesto, del corpo -, una compostezza che segna i lenti movimenti della macchina da presa come la recitazione dell'attore (Toshiro Mifune ed Eiji Okuda sembrano più gli strenui difensori di una Cultura che non due normali attori ingaggiati per una parte).
Il film fa spettacolo di quell'inezia che a noi cittadini del quotidiano metropolitano sfugge irrimediabilmente; una tazza per il tè ed il modo in cui è manipolata prima di portarla alle labbra; l'utensile per la presa delle foglioline e per il loro rimescolamento nell'acqua, l'utensile custode del messaggio del Maestro; il gesto articolato e sequenziale con il quale viene aperta una porta: un segno ideografico sulla parete; la ghiaia rastrellata di una tomba; la cura rituale con la quale si ripiega un fazzoletto. L'elenco potrebbe continuare: in questo senso, il film - premiato a Venezia con il Leone d'Argento - è spettacolo sontuoso di gioie pregiate.
L'inezia, nostra e tutta di oggi, ci viene per così dire riformulata nei termini che più le sono propri di epoche e persone diverse; riappropriandocene - pure con le difficoltà che per un occidentale l'impegno comporta -, scopriamo il tempo che la riproducibilità delle merci moderne ci ha trafugato, un modo per assegnare una durata ormai sconosciuta alla vita ed alle sue care suppellettili.