Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 161
febbraio 1989


Rivista Anarchica Online

L'architetto e il potere
di Giancarlo De Carlo

Giancarlo De Carlo, redattore negli anni '50 di "Casabella", con Zanuso e Gregotti, fonda e dirige (dal 1976 ad oggi) "Spazio e Società". Docente nelle facoltà di architettura di Venezia e Genova, è ideatore ed animatore del laboratorio Internazionale di Architettura ed Urbanistica (ILAUD). Sua è stata la seconda relazione introduttiva al seminario "Urbanistica: approcci libertari". La pubblichiamo qui in una nostra trascrizione.

Ancora non mi capita spesso di riguardare il passato. Questa sera Colin Ward mi riporta con il suo intervento alle mie radici, anarchiche un po' per caso e un po' per convinzione e sensibilità.
Così al caso devo l'incontro con alcuni amici - ma si sa che gli amici che si incontrano sono anche quelli che si cercano - e le convinzioni risalgono al periodo della Resistenza, quando mi sono occupato di politica e ho voluto ragionare su alcune questioni di fondo che si ponevano allora. Ricordo che contestavo tanto al marxismo, quanto ad alcune teorie liberali, che fondamento della società umana fosse l'economia, convinto piuttosto che il meglio di ciò che accade nel mondo derivi dalle passioni.
L'altro punto che in nessun modo mi sentivo di accettare era che ci si dovesse organizzare per poter vincere, che il nuovo non potesse essere portato se non attraverso forme organizzative rigide, perché sono convinto che i rapporti tra gli uomini diventano positivi quando non sono ingabbiati dentro strutture gerarchiche precostituite.
Questo lo si vedeva chiaramente soprattutto nel periodo della Resistenza, quando i fatti avvenivano aldilà delle schematizzazioni gerarchiche e le persone incominciavano ad esprimersi ed a valere per quello che erano.

Persone eccezionali
Durante una di quelle estati conobbi vari amici, come Carlo Doglio, Delfino Insolera ed altri che condividevano queste mie stesse idee, alcuni in modo militante, altri per simpatia intellettuale.
Ho conosciuto profondamente il gruppo editoriale della rivista "Volontà" e, intorno a quel gruppo, tutta la miriade dei gloriosi anarchici italiani, persone eccezionali, devo dire le migliori che abbia incontrato nella mia vita. E le ho incontrate subito dopo la Liberazione, al Congresso anarchico di Carrara (settembre 1945), al quale sono andato da Milano insieme con Doglio, facendo un viaggio di tre giorni perché non c'erano comunicazioni. Quando siamo arrivati, Carrata era presidiata dagli anarchici: avevano chiesto ai carabinieri di andarsene, perché c'era il congresso anarchico e quindi non dovevano essere disturbati. E i carabinieri se n'erano andati.
L'anno dopo andai a Canosa di Puglia e successe lo stesso: anche lì gli anarchici avevano chiesto alle autorità di allontanarsi per qualche giorno, per la durata del convegno anarchico, e le autorità si erano allontanate.
I rappresentanti di questo anarchismo, che avevano fatto la guerra di Spagna, che avevano un'esperienza straordinaria, che erano stati dipinti come bombaroli, distruttori, cattivi, sanguinari, erano delle persone eccezionali, le più aperte, le più gentili, intimamente gentili, che avessi mai conosciuto.
E Canosa aveva vissuto momenti unici durante i giorni del convegno anarchico, perché si era instaurato il "governo" pacifista degli anarchici, basato sui rapporti umani e sulla reciproca comprensione.
Contemporaneamente conobbi il gruppo inglese che a Londra ruotava intorno alla rivista "Freedom". Conobbi così Colin Ward, che rivedo ora dopo tanto tempo, anche se mi sembra che ci si sia visti continuamente, che si sia stati sempre in qualche modo in contatto.

Urbanistica e/o architettura
A questo punto io mi chiedo: sono anarchico?
Ecco, io credo di non esserlo. O meglio, credo più esattamente che sia una domanda vana. Forse per Colin è diverso, perché lui ha sempre militato.
Ad ogni modo, credo che l'anarchismo sia un limite verso il quale si tende e che non si raggiunge mai. Credo, che si debba accettare questa condizione, perché altrimenti si evita di rientrare nei canali normali: e allora, come fa uno a definirsi anarchico?
È molto difficile, se non ha mai raggiunto questo limite. Lo può dire nel senso che lavora nel movimento anarchico, ecco questo è un modo. Ma essere anarchici intimamente credo sia molto difficile, credo sia una tendenza, non uno stato.
Venendo all'urbanistica e all'architettura (non faccio molta distinzione tra le due), è possibile individuare delle componenti anarchiche nel loro sviluppo moderno, ovvero dalla fine dell'Ottocento in poi.
Fondamentalmente l'architettura e l'urbanistica sono autoritarie da sempre, perché architetti ed urbanisti hanno fornito le loro prestazioni al potere ed hanno quindi elaborato teorie, proposto soluzioni, studiato progetti, in linea con i committenti. Sono esistite, però, anche delle divergenze, dei modi diversi di essere e di concepire il rapporto degli esseri umani con il territorio.
È sempre esistita una corrente importante, che ha un suo filo, una sua continuità, che è sempre stata messa da parte dalla critica ufficiale e dalla celebrazione storiografica dell'architettura moderna. È una corrente che ha in Kropotkin e nelle sue idee i fondamenti di un'urbanistica libertaria e che si manifesta attraverso esponenti di grande rilievo quali Patrick Geddes, libertario per formazione e dotato di una personalità poliedrica e umanamente assai ricca - tanto che lo si potrebbe definire sociologo, antropologo, urbanista, architetto, ecc...
Esistono poi altre persone del filone americano, neanche lontanamente vicine all'architettura. Parlo, per esempio, di Withman e del suo pensiero profondamente anarchico. Una caratteristica di questo pensiero consiste nel non specializzare l'ambiente umano, nel non dividere il grande territorio dalla città, dal quartiere, dall'edificio, ma di vedere tutto insieme, come un luogo dove la vita umana si svolge, e di riconoscere naturalmente delle scale diverse, riconoscendo loro la comune appartenenza ad un fenomeno dal quale non vogliono separarsi.
Esistono poi altre persone, anche in Italia, che sono sicuramente all'interno di questo filone. Ne vorrei citare almeno due.
Uno è stato un mio grande amico ed abbiamo avuto lunghe discussioni su questo argomento: è Carlo Doglio. In tutti i suoi libri, soprattutto ne "Le città del mondo", si percepisce questo pensiero ricco, libertario, questa visione ricca della città.
L'altro è stato Italo Calvino. Perché non si potrà mai dire che le città invisibili - ciascuna delle città invisibili - sono il prodotto dell'autorità, dal momento che sono sempre il prodotto della gente che le abita, sono il prodotto di stratificazioni infinite. I fili che Calvino tesse, da una torre all'altra, sono i fili dell'uso della città, non i fili di chi l'ha ordinata, né di chi l'ha disegnata; sono i fili di quell'uso che li propone e li produce.

Una fase abbastanza negativa
In questo sta la grande differenza tra il considerare l'ambiente, la città, i quartieri, la casa come manufatti e il considerarli fenomeni che comprendono l'esperienza umana. In effetti, l'architettura e l'urbanistica esistono non soltanto perché si configurano ed hanno una loro strutturazione, ma perché vengono esperiti. Se non venissero esperiti, non esisterebbero. La loro qualità deriva dalla qualità dell'esperienza che se ne può fare.
Questa, secondo me, è una discriminante fondamentale tra quello che potremmo chiamare, in modo molto generale, un punto di vista anarchico sulla città e quello che invece potremmo definire un punto di vista autoritario, che non ha alcun interesse a discutere dell'esperienza degli esseri umani.
Gran parte della critica è proprio in relazione a questo punto, cioè intorno alla partecipazione dell'esperienza nella costituzione dell'evento urbano o dell'evento architettonico. Ci sono stati periodi in cui la discussione è stata più intensa e periodi in cui lo è stata meno: oggi sicuramente siamo in un periodo in cui la discussione è in grave crisi.
Durante la fase iniziale di quel periodo che va dal '66 al '73, quando la rivoluzione degli studenti e subito dopo dei sindacati era ancora creativa, le idee hanno circolato e anche opinioni diverse e diverse correnti di pensiero si sono sviluppate sul territorio dell'urbanistica e dell'architettura.
Adesso viviamo una fase abbastanza negativa, bisogna riconoscerlo: ci sono fenomeni ed esperimenti incominciati allora, che si sono decisamente arrestati. Non mi sembra però interessante concludere semplicemente che l'autorità ha ripreso il comando ed ha schiacciato quelle esperienze prodotte dal '68, quanto cercare di capire quali erano le insufficienze delle proposizioni che venivano fatte.
Vorrei pertanto riesaminare il concetto di partecipazione, che è stato un elemento importante nel dibattito degli anni '70. Lo si è schematizzato in modo deleterio. Ad un certo punto si pensava che la partecipazione fosse, da un lato, soltanto che la gente diceva che cosa voleva e poi lo si sarebbe fatto; e, dall'altro lato, che l'architetto designato, delegato o "unto" per fare questo lavoro, lo avrebbe fatto in modo indiscutibile e tutti l'avrebbero accettato.
Il problema è molto più complesso.

Partecipazione vuol dire...
Prima di tutto la partecipazione è un fenomeno non programmabile, né sistematizzabile in una serie di canoni, perché la diversità dei partecipanti e dei momenti partecipativi implica la peculiarità degli stessi. Inoltre non è assolutamente certo che la gente sa che cosa vuole, altrimenti non ci sarebbero tanti problemi... La gente è alienata tanto quanto lo sono gli architetti.
Il processo della partecipazione deve dunque coincidere in prima istanza con quello della disalienazione. Bisogna ritornare alla radice dei problemi e non è facile in un momento in cui i bisogni sono tutti artificiali e continuamente i mass-media pompano per creare nuovi problemi a tutti.
Ritornare ai problemi reali e identificarli non è cosa semplice: richiede una partecipazione complessa, faticosa, difficile. E non è detto che si attivi immediatamente, anche perché spesso la partecipazione viene rifiutata ed è comprensibile che sia così.
Un secondo errore fu quello di pensare che attraverso la partecipazione si potesse fare a meno della qualità, vale a dire che la partecipazione potesse esprimersi anche con incompetenza. Gli architetti e gli urbanisti "unti" dalla partecipazione pensarono che non occorresse ambire ai livelli di qualità. La qualità stessa, anzi, fu considerata un errore, perché il problema veniva considerato fondamentalmente un problema quantitativo. Questa fu una spaventosa mistificazione, perché solo le esperienze al massimo livello di qualità possono diventare veramente trainanti per un processo di rinnovamento. L'architetto e l'urbanista che perseguono questi intenti devono essere molto più competenti di tutti gli altri, altrimenti falliscono.
In questi ultimi anni se ne sono avuti esempi infiniti, di gente che è fallita ed al contempo ha fatto fallire il concetto di partecipazione. Nell'attività degli architetti queste due colossali mistificazioni sono state, secondo me, decisive.
Oggi siamo in una situazione piuttosto grave, perché si applica sempre più il concetto che architettura e urbanistica, o i loro prodotti, hanno una loro intrinseca autonomia, vale a dire non devono rendere conto di niente, non derivano da niente, sono prodotti dello spirito.

Passività e paura
Di fronte a questa posizione, riportata su tutte le riviste di architettura, occorre reagire affermando che, invece, qualunque cosa si organizzi nello spazio deriva dai rapporti e dal corso dell'esistenza degli esseri umani e quindi è inestricabile da loro. Non può esserci autonomia per l'architettura e per l'urbanistica. Non ce n'è in generale, non ce n'è neanche per le arti figurative, né per la musica, neanche per i fuochi d'artificio. Ed anche per l'architettura e l'urbanistica è proprio impossibile, perché verrebbero proiettate immediatamente fuori dalla loro stessa definizione.
Si registra tutta una passività infinita, quasi una paura a ribaltare questo stato di fatto, anche perché il discorso dell'autonomia è legato a quello della specializzazione che è dilagata ed universalmente legittimata. Specializzarsi vuol dire essere capaci di fare in modo perfetto delle cose senza sapere a che cosa servono e che cosa provochino. L'architetto e l'urbanista, oggi, rientrano in questa categoria. Non occorre, cioè, che sappiano quali sono le motivazioni e le conseguenze di quello che fanno: sono specializzati ed hanno autonomia.
Io credo che si tratti di reagire a tutto ciò. Sono molto ottimista perché la situazione è arrivata ad un punto tale di contraffazione che d'ora in poi tutto andrà bene. La gente si sta rendendo conto - e lo si sente da infiniti sintomi - che bisogna cambiare le cose. Inconsciamente o consciamente si comincia a riconoscere che non si può fare a meno delle coordinate spaziali, perché sono le ultime difese.
L'ambiente è l'unica cosa in cui riusciamo ancora a riconoscerci, perché il resto sta diventando incorporeo, non ha più materia: solo lo spazio fisico ha materia, solo la città, solo la campagna, solo l'ambiente, solo le case hanno materia.
Allora io credo che d'ora in poi le cose andranno meglio, perché tutto andrà peggio. E dipenderà da noi se il lavoro di cui ci occupiamo potrà essere trainante. E attraverso i suoi echi - non direttamente, come si direbbe se si perseguisse un pensiero autoritario - influenzerà il miglioramento di tutto il resto.

(trascrizione a cura di Massimo Panizza)