Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 161
febbraio 1989


Rivista Anarchica Online

L'importante è partecipare
di Colin Ward

Colin Ward, inglese, architetto, è stato redattore del settimanale "Freedom" dal 1947 al 1960, poi fondatore e animatore del mensile "Anarchy" dal 1960 al 1969. Oltre a numerosi libri che si occupano di usi popolari e non convenzionali dell'ambiente abitativo, ne ricordiamo qui l'unico ad esser stato tradotto in italiano: Anarchia come organizzazione (Edizioni Antistato, 1976, 1979). In queste pagine pubblichiamo la relazione che Ward ha svolto nell'ambito del seminario "Urbanistica: approcci libertari", tenutosi il 17 settembre scorso a Milano, per iniziativa del Centro studi libertari e del Centro studi Co.S.A.

Quarant'anni fa, quando la rivista "Volontà" veniva ancora redatta a Napoli dai miei amici Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria, venne pubblicato un articolo sul problema della casa e sulla pianificazione urbana (da me laboriosamente e senza dubbio inaccuratamente tradotto per il giornale anarchico inglese "Freedom") a firma di un giovane architetto, Giancarlo De Carlo.
Allora, come ora, la propaganda anarchica era intralciata dal suo insistere che niente può accadere se non accade tutto. La distruzione del capitalismo e dello Stato erano le condizioni preliminari per poter costruire una società libera. Il problema è che, allora come ora, né De Carlo, né io, né i milioni di persone coinvolte possono in realtà aspettare questi cambiamenti rivoluzionari. E sarebbe interessante chiedersi se questi ultimi siano oggi più vicini o più lontani di quanto lo fossero quarant'anni fa.
Alla ricerca di approcci alternativi, De Carlo prendeva in esame le cooperative edilizie, le cooperative di inquilini, gli scioperi dell'affitto e lo "squatting", ovvero le occupazioni abusive di abitazioni vuote. Ora, nelle quattro decadi che ci separano dal 1948 (millenovecentoquarantotto) abbiamo potuto verificare come tutte queste tecniche di azione diretta messe in atto dai cittadini più poveri, in Italia come in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, hanno portato ad un maggiore coinvolgimento nella pianificazione urbana. E proprio per quei ruoli che i cittadini possono pretendere.

Aspettare la rivoluzione?
In quegli anni lontani, De Carlo proseguiva prendendo in considerazione quale potesse essere un atteggiamento anarchico nei confronti della pianificazione urbana: "Può essere un atteggiamento di ostilità - il piano emana necessariamente dall'autorità, non può essere che dannoso e va osteggiato; non si possono, del resto, modificare i modi di vita sbagliati attraverso le loro rappresentazioni; bisogna prima cambiare i modi di vita, le rappresentazioni muteranno di conseguenza".
Oppure, veniva suggerito, si poteva adottare un atteggiamento di partecipazione: "Il piano è un'opportunità di svuotare i modi di vita attuali attraverso il mutamento delle loro rappresentazioni; è questo mutamento che crea i presupposti per un capovolgimento di tutta la struttura sociale".
"Il primo atteggiamento", sosteneva De Carlo, "muove da una ragione critica fondata su due argomenti essenziali: l'autorità non può dare la libertà (il che è giusto), e l'uomo (oggi naturalmente avrebbe detto l'uomo e la donna) non può fare finché non è liberato (il che è sbagliato). L'uomo non deve essere liberato, l'uomo deve liberarsi, ed ogni progresso che compie verso la liberazione non può essere che un atto di coscienza concreto. Conoscere nel loro pieno valore i problemi della regione, della comunità, della casa, è un atto di coscienza concreto. Esigere che questi problemi siano risolti e prepararne la soluzione, è un'azione diretta concreta che toglie il potere all'autorità e lo restituisce all'uomo (e alla donna)".
"L'atteggiamento di ostilità, che significa in fondo "aspettare la rivoluzione per fare", non tiene conto del fatto che la rivoluzione è una prerogativa di cervelli lucidi, non di gente affamata o malata che non può pensare al futuro perché è attanagliata ai suoi mali presenti. E non tiene conto del fatto che la rivoluzione si avvia cominciando a risolvere questi mali, per creare le condizioni necessarie a un'aspirazione cosciente di libertà". Giancarlo De Carlo faceva così due importanti affermazioni. Innanzi tutto che, in qualunque società si viva, per l'anarchico è fondamentale promuovere quegli approcci ai bisogni individuali e sociali che dipendono dall'iniziativa popolare e che rappresentano un'alternativa alla dipendenza dal capitale e dallo Stato. In secondo luogo che il piano urbanistico può essere l'opportunità per questo avvio rivoluzionario, se si riesce a sottrarlo al cieco monopolio dell'autorità e a trasferirlo ad una collettività mobilitata alla ricerca e all'affermazione delle sue vere esigenze.
Per me, questo punto di vista, espresso quarant'anni fa, è sempre stato importante e di grande aiuto perché mi ha convinto - ed ancora lo sono - che uno dei compiti della propaganda anarchica è di proporre soluzioni ai problemi moderni che, per quanto dipendenti possano essere dalle esistenti strutture socio-economiche, siano comunque soluzioni anarchiche: il tipo di approccio che verrebbe adottato se vivessimo in quel tipo di società che prefiguriamo. In altre parole, è molto più probabile ottenere consensi al nostro punto di vista se noi stessi formuliamo risposte anarchiche che possano essere sperimentate qui ed ora, piuttosto che dichiarare che non vi possono essere risposte fin quando non vi sarà la risposta ultima: una rivoluzione sociale che continuamente scompare oltre l'orizzonte.
Ritorniamo al primo dei punti formulati da Giancarlo quarant'anni fa: l'importanza del movimento per l'occupazione abusiva delle case sfitte. Al tempo in cui scriveva, avevamo appena assistito a quell'esplosione di occupazioni illegali che era avvenuta in Italia, in Gran Bretagna e altrove nell'immediato dopoguerra. È storia, ma la sua lezione è stata dimenticata. In seguito, negli anni '60 (sessanta), le occupazioni sono tornate ad essere importanti: a Torino, a Londra, a Berlino, a Copenaghen ed in decine di altre città europee e americane. Questo movimento per le occupazioni non ha avuto successo solo come tattica per risolvere il problema individuale dell'alloggio, ma è anche stato un fenomeno politicamente formativo. Ed è un fatto che le più solide cooperative edilizie fiorite in Gran Bretagna nell'ultima decade abbiano avuto inizio con occupazioni abusive.

Ma quale rinnovamento urbano?
Un secondo motivo di interesse nelle sue argomentazioni del' 48 era l'uso della frase "un atteggiamento di partecipazione". Ora, la parola "partecipazione", negli anni '40 e '50, non faceva ancora parte del linguaggio degli architetti o degli urbanisti. È entrata nell'uso solo dopo quella fase di ricostruzione post-bellica delle città britanniche e statunitensi nota come "rinnovamento urbano".
Come è oggi chiaro a tutti, "rinnovamento urbano" ha significato in pratica "l'espulsione dei ceti poveri dalla città", con la conseguente distruzione della tradizionale cultura urbana propria alla classe lavoratrice. Esiste un'ampia bibliografia sulle implicazioni connesse a questo evento. Ci sono i ben noti studi americani di Robert Goodman e di Jane Jacobs ed i loro equivalenti inglesi. Tra questi, vi è il lavoro di un consigliere comunale socialista, dunque non anarchico, in cui si dichiara che: "Nella nostra società , la pianificazione è essenzialmente il tentativo di introdurre una tecnologia radicale in un'economia conservatrice e altamente disegualitaria. L'impatto avuto dalla pianificazione su questa società non è stato dissimile da quello avuto dal sistema educativo su questa stessa società: è meno oneroso e più vantaggioso per coloro che sono relativamente privi di potere e relativamente indigenti.
La pianificazione, per quanto concerne i suoi effetti sulla struttura socio-economica, è una forma altamente regressiva di tassazione indiretta".
Si è così sviluppata, negli anni '60, una nuova ideologia della "partecipazione" populista e socialista che, in misura limitata ma significativa, è stata una riscoperta di valori anarchici da parte di persone che non avevano mai sentito parlare di anarchismo.
Uno dei più importanti tentativi di misurare l'effettivo valore di queste pratiche partecipative è stato fatto dall'urbanista americana Sherry Arnstein, ideatrice di quel sistema noto appunto come "la scala partecipativa di Arnstein". I gradini di questa scala, dal basso in alto, sono i seguenti:

Controllo popolare

Delega di potere

Collaborazione

Conciliazione

Consultazione

Informazione

Terapia

Manipolazione


Ho sempre trovato "la scala di Arnstein" un sistema di misurazione molto utile che ci consente di andare oltre le barriere della propaganda e giudicare così se una certa pratica di "partecipazione pubblica" non si attesti semplicemente ai livelli della manipolazione o della terapia se non addirittura all'inganno (che non trova posto nella "scala di Arnstein" anche se dovrebbe averlo).
Naturalmente l'obiettivo anarchico punta all'ultimo gradino della "scala", quello del pieno controllo da parte dei cittadini. Ed è qualcosa cui vale la pena mirare in qualunque società noi si viva. Potremmo non vincere le battaglie economiche, ma talvolta riusciremo a vincere le battaglie ambientali. E la storia delle città italiane, inglesi o americane è fatta tanto di successi quanto di scoraggianti sconfitte.
Dobbiamo tuttavia domandarci se "partecipazione" non sia stata una di quelle parole degli anni '60 e '70 silenziosamente abbandonata negli anni '80. Il governo britannico e quello americano, con la loro ideologia da Nuova Destra, quelle poche volte che parlano dei problemi urbani ne parlano in termini di una partnership tra mondo degli affari e governo. Certamente non si riferiscono alla "partecipazione" dei comuni cittadini.
Il termine "rinnovamento", essendo ormai screditato, è stato sostituito da suoi equivalenti, come "rigenerazione" o "rivitalizzazione". E siamo tutti invitati a constatare di persona questa rigenerazione delle città americane. Io sono stato invitato ad un convegno a Pittsburgh (USA) sul tema "Ricostruire le città". Uno dei relatori, Alan Mallach del New Jersey, ha affrontato proprio l'argomento che interessa voi e me, affermando che: "La concezione di una partnership pubblica/privata come di una relazione tra due settori - il governo ed il mercato privato - è inficiata dall'esclusione di un terzo attore essenziale: i residenti delle comunità interessate.
Messaggi auto-gratificanti sui successi imprenditoriali e sulla proliferazione di scintillanti costruzioni per uffici in centro, mettono in ombra il fatto che in realtà molte persone non beneficiano affatto di tutti questi successi ed anzi molte ne sono profondamente danneggiate in maniera permanente".
In altre parole, la battaglia per la partecipazione locale dei cittadini va combattuta continuamente e dovunque. Giancarlo De Carlo aveva ragione già tanti anni fa.
Ma vi è un altro aspetto del discorso sulla città che dal punto di vista anarchico va ulteriormente discusso. L'anarchismo ha condiviso con altre ideologie politiche della sinistra una serie di convinzioni riguardo la crescita della città industriale moderna e del proletariato industriale moderno. Marx ed Engels, quali che siano le virtù ed i difetti della loro concezione della storia, l'hanno comunque basata sul primo paese - la Gran Bretagna - che ha sperimentato la rivoluzione industriale: l'improvviso sviluppo di città industriali quali Birmingham, Manchester, Leeds o Glasgow, la proletarizzazione dei contadini immigrati e così via.

Rileggere Kropotkin
Per far rientrare il mondo reale in questa teoria, essi hanno minimizzato ciò che era sopravvissuto in Gran Bretagna dell'economia rurale europea ed hanno liquidato la consistente presenza economica delle piccole officine come una noiosa sopravvivenza dei "piccoli commerci" medievali. Kropotkin, nel suo libro Campi, fabbriche, officine, (Edizioni Antistato, Milano) ha cercato di correggere questa visione rammentandoci che la grande città industriale è un fenomeno temporaneo, originatosi in Gran Bretagna. Così, già nel 1899 (milleottocentonovantanove), ha sostenuto che la decentralizzazione è tanto inevitabile quanto desiderabile: "La dispersione delle industrie su tutto il territorio - così da portare la fabbrica in mezzo ai campi, consentendo all'agricoltura di trarre tutti quei profitti che si sono sempre realizzati quando si è combinata con l'industria e integrando il lavoro industriale con quello agricolo - è certamente il prossimo passo che va fatto... Questo passo è imposto dalla necessità per ogni donna o uomo sano di dedicare una parte della loro vita al lavoro manuale fatto all'aria aperta e questo diventerà sempre più necessario quando i grandi movimenti sociali, oggi divenuti ineludibili, arriveranno ad interferire con l'attuale commercio internazionale, imponendo ad ogni nazione di ritornare alle proprie risorse per il proprio mantenimento".
Ora, Kropotkin era - come me - un'ottimista. Ma egli ha colto una grande verità riguardo alla città ed all'occupazione industriale.
Sulla città industriale, Ebenezer Howard, il pioniere della città-giardino, contemporaneo di Kropotkin, nel 1904 ha dichiarato: "Mi arrischio ad affermare che mentre l'epoca in cui viviamo è l'epoca delle grandi città ad alta densità, vi sono già segni, per quelli che riescono a leggerli, di un cambiamento in atto così grande ed importante che il ventesimo secolo sarà conosciuto come l'epoca del grande esodo...".
Che sia o no avvenuto secondo le modalità anticipate da Howard, le statistiche demografiche relative alle città britanniche confermano il suo punto di vista. Un economista inglese, Victor Keegan, ha osservato alcuni anni fa che "la teoria più seducente è che quanto stiamo sperimentando adesso è nientemeno che un movimento a ritroso verso un'economia "informale" dopo un breve flirt di 200 (duecento) anni circa con una "formale"".
La vasta città industriale, la grande fabbrica accentrata con la sua armata proletaria sono un breve episodio nella storia della città, nella storia della produzione e nella storia del lavoro. E per esserne convinti vi basta visitare le agonizzanti città industriali della Gran Bretagna e degli Stati Uniti.

Il ruolo dell'Italia
Nell'affrontare quella peculiarità che è il miracolo economico italiano, noi anglo-americani abbiamo una caratteristica discordanza di opinioni. Per esempio, lo scrittore britannico Fergus Murray dà un interessante resoconto dei recenti cambiamenti nell'industria italiana, spiegando che: "Alla fine degli anni '60 la presenza sindacale in molte industrie italiane aveva raggiunto livelli tali da minacciare direttamente la rimuneratività delle imprese; le dirigenze aziendali misero perciò in atto una serie di strategie tese inizialmente a ridurre la forza dirompente di questa militanza operaia". Una di queste strategie è stata il decentramento della produzione industriale in un'economia su base locale affidata a piccole officine e al lavoro autonomo. Si potrebbe così interpretare l'intera evoluzione recente come una cospirazione capitalista.
Prevedibilmente, gli stessi cambiamenti industriali sono stati visti in maniera molto diversa dagli Stati Uniti. L'architetto americano Richard Hatch, che sia io che De Carlo ricordiamo come un pioniere della pianificazione partecipata in un'area delle più difficili come può essere Harlem a New York, ha scritto in tempi molto più recenti che: "Una nuova forma di produzione urbana industriale sta dando in Italia nuovo significato alla sua forma storica. Essa si basa su un ampio numero di imprese molto piccole e flessibili che fanno ricorso a lavoratori altamente specializzati ed a macchinari automatizzati e polifunzionali. Produttori essenzialmente intermedi, essi si collegano tra loro in combinazioni e modelli variabili per raggiungere capacità manifatturiere più complesse, in grado di ampliare il mercato. Queste imprese mettono insieme una rapida innovazione con un alto grado di democrazia sul posto di lavoro. Esse tendono a concentrarsi in aree integrate dove si vive e si lavora. La loro crescita è stata il risultato di una politica di pianificazione, di interventi nel campo dell'architettura, e di investimenti municipali, con cospicui ritorni in termini di crescita economica e di vitalità dei centri urbani".
Come è ovvio, la vitalità dei centri urbani è uno degli obiettivi dell'urbanistica, obiettivo che quest'ultima però è stata singolarmente incapace di realizzare sin dagli anni '40. Quanti di noi si occupano di urbanistica hanno dunque svariate ragioni per osservare quanto sta succedendo in Italia.
C'è stato, ad esempio, un anarchico americano morto di recente, George Benello, che aveva identificato nel "rinascimento industriale" dell'Italia centrale e nord-orientale "un modello che ha funzionato, creando in meno di tre decadi, non centinaia ma letteralmente centinaia di migliaia di piccole imprese, capaci di produrre ben più che le fabbriche gestite in modo convenzionale, grazie ad una attività lavorativa basata sulla specializzazione, sulla responsabilità e sulla capacità artigianale di una forza lavoro organizzata in modo democratico".
Ho appreso dalla stessa fonte che Benello era "sorpreso dalla combinazione tra un design ed una produzione tecnologica sofisticate, e una condizione esistenziale e lavorativa a scala umana; ed anche dalla quantità e dalla diversità delle attività, integrate e collaborative, presenti in questa rete. Piccole città come Modena hanno creato dei "villaggi artigiani" - aree lavorative dove gli impianti produttivi e gli spazi abitativi sono tutti raggiungibili a piedi o in bicicletta, dove le scuole tecniche per i disoccupati alimentano direttamente nuove attività lavorative e dove piccole imprese che ricorrono a tecniche computerizzate si consorziano allo scopo di realizzare una produzione più complessa".
A questo punto sono sicuro che molte persone qui, che siano anarchici, lavoratori o urbanisti, si sentiranno estremamente a disagio di fronte a questa immagine idealizzata che ho dato dell'Italia artigiana, e protesteranno che la realtà quotidiana ha poco a che vedere con questa visione. Ebbene, poiché il soggetto da trattare è un approccio anarchico all'urbanistica, mi tocca di acuire ancora un po' questo vostro disagio. La conclusione cui giungeva George Benello era che "l'Italia ha insegnato al mondo i modi della vita urbana forse più di qualsiasi altra nazione. Ancora una volta è in prima linea nel creare un nuovo ordine economico a scala umana basato sui bisogni della città".

Tra Torino e Coventry
Ora, pur mettendo in conto una certa italofilia sentimentale, vi è un aspetto assolutamente vero in questa dichiarazione. Provate ad andare non nelle città del nord-Italia ma in quelle britanniche o statunitensi e vi imbatterete certamente nelle rovine di quella cultura di fabbrica basata su imprenditori monopolistici, che hanno abbandonato il campo o che hanno diversificato le proprie attività, e su una forza lavoro che dipende dai contributi elargiti dall'assistenza sociale o dalle svariate alternative lavorative escogitate per le città britanniche o americane: aree ricreative, musei industriali, centri commerciali o acquari. Tutto tranne che la concreta opportunità di essere coinvolti in un lavoro produttivo. Secondo quanto mi ha riferito uno storico inglese, se si paragona l'esperienza dei lavoratori del settore automobilistico di Birmingham o Coventry con quella di Torino, nelle fabbriche britanniche la terza generazione di operai industriali specializzati si è "formata in una resistenza operata al capitalismo industriale", senza sperimentare altro che un'occupazione gestita dal grande capitale. Al contrario a Torino, con il suo frequente "ricambio generazionale" determinato dall'afflusso di nuovi lavoratori industriali provenienti dal Sud, i contadini e gli artigiani emigrati a Nord non sono stati "schiacciati dal capitalismo di fabbrica" ed hanno, di conseguenza, trovato più semplice diventare lavoratori autonomi, o membri di cooperative o dipendenti di piccole imprese ad alta tecnologia, o magari uscire quasi completamente dall'occupazione industriale passando ad un'orticultura su piccola scala.
Ora, noi anarchici non siamo marxisti. Apparteniamo ad una tradizione diversa da quella che vedeva nella macchina a vapore, e nella conseguente concentrazione della produzione industriale, il fattore ultimo della storia umana. Noi apparteniamo ad una tradizione diversa che comprende, ad esempio, la fiducia di Proudhon nelle officine autogestite e la visione di Kropotkin d'una produzione decentrata combinata con l'orticultura.
Ed è la nostra tradizione che corrisponde più strettamente all'esperienza reale, tanto dei nostri nonni che dei nostri nipoti.
Una delle persone che, pur appartenendo ad una tradizione differente, ha riflettuto in maniera seria su questo soggetto è André Gorz, il quale sostiene che la Sinistra politica è stata congelata in un atteggiamento collettivista autoritario che appartiene al passato. Ed ha aggiunto:
"Finché i sostenitori del socialismo continueranno a fare della pianificazione centrale il perno del loro programma e dell'adesione di tutti agli obiettivi "democraticamente formulati" il nucleo della loro dottrina politica, il socialismo rimarrà una proposta poco attraente per le società industriali. La dottrina socialista classica trova difficile venire a patti con il pluralismo sociale e politico, inteso non semplicemente come una pluralità di partiti e sindacati ma come la coesistenza di svariati modi di lavorare, produrre, vivere, di svariate espressioni culturali e modi di vita sociale... Eppure proprio questo tipo di pluralismo è conforme all'esperienza vissuta ed alle aspirazioni del proletariato post-industriale, così come della maggior parte della classe lavoratrice tradizionale".
Ora, tutto ciò potrebbe essere perfettamente capito nelle aree urbane periferiche di Torino, o di Modena o di Bologna o in tutti quei "villaggi-officina" dell'Emilia Romagna o, suppongo, qui a Milano.

Anarchici in una società ostile
E naturalmente, tutto ciò non può non avere implicazioni con la pianificazione concreta del territorio. Esso infatti implica un piano modesto, sperimentale e flessibile, che assuma il controllo degli abitanti come principio base dell'abitare e presupponga inoltre che il locatario abbia accesso ad uno spazio verde che possa essere utilizzato come giardino, o per l'orticultura, o come spazio-giochi per i bambini, o per l'attività lavorativa. E do per scontato che vi sia un nido ed una scuola elementare nelle vicinanze e spazio per officine autogestite tutt'intorno.
Sono richieste tanto semplici che, anche se siamo anarchici in una società ostile all'anarchismo, dovremmo essere capaci di ottenerle.

(traduzione di Amedeo Bertolo)