Rivista Anarchica Online
Laboratorio di trasformazione
di Cristina Valenti
A partire dal '64 all'incirca
nascono un po' ovunque, o si fanno conoscere in forme più
radicali, in Europa e in America, dei piccoli teatri, esperienze
appartate, alcune un po' segrete, tutte sorte in spazi alternativi
rispetto alle sedi del teatro istituzionale. Ma è proprio nel '68 che
l'ondata di rottura teatrale investe decisamente il teatro ufficiale
mettendone in crisi lo statuto culturale di teatro di "servizio"
pubblico.
"La gente che insegna storia"
diceva Judith Malina in una recente intervista "la vede in modo
diverso da quelli che la vivono in prima persona. Il problema
dell'insegnante o dell'artista che vuole trasmettere qualcosa della
propria esperienza è di capire questo limite. Ognuno ha il suo
Paradise Now, come ognuno che ha fatto la guerra
vede la battaglia in cui si è trovato come il centro di
quell'esperienza storica. Ma è anche uno sguardo distorto. Io
ricordo il maggio a Parigi, quando abbiamo occupato l'Odeon, ma
questo è un piccolo fatto nella grande cosa che è
successa".
Premesso che parlare del Sessantotto a
teatro significa sintetizzare in una data fortemente simbolica un
insieme di esperienze che abbraccia in realtà un arco di tempo
ben maggiore (che va grossomodo dall'inizio degli anni Sessanta alla
fine degli anni Settanta), il discorso sul Sessantotto può
essere fatto da due differenti punti di vista. Si può
tracciare una storia "per eventi", un percorso segnato
dalle pietre miliari dei grandi eventi teatrali che nel ricordo di
chi vi ha partecipato si illuminano di valenze autorivelatrici,
mentre nelle sistematizzazioni storiografiche esauriscono la sostanza
di un'esperienza culturale di spessore profondissimo nell'evidenza
delle sue manifestazioni fenomeniche. Ma, avverte Judith Malina,
anche la più simbolica di quelle manifestazioni, l'occupazione
dell'Odeon a Parigi, non è che un piccolo fatto nella grande
cosa che è successa.
La grande cosa è l'altro punto
di vista dal quale guardare il Sessantotto a teatro. È
la vita del teatro che ha legato quelle esperienze al di sotto delle
loro esplosioni manifeste, che ne ha costituito il tessuto connettivo
alimentando la rivolta agli statuti estetico formali del fare teatro
di contenuti culturali ed esistenziali di vasta portata.
Il primo punto di vista è quello
celebrativo, che ripercorre delle tappe ormai mitiche e appunto per
questo lontane ed irriproducibili: che riguardano il passato
dell'esperienza teatrale, e che si prestano ad essere ripensate come
momenti di un'intemperante avventura giovanilistica da coloro che
hanno ormai abbandonato ogni etica del rifiuto.
Il secondo punto di vista, quello
storico forse, è quello della tradizione profonda del teatro
presente, ed è il punto di vista che contrappone
all'incandescenza delle emergenze événementielles
di filo rosso della lunga durata, della trasmissione di una serie di
esperienze esistenziali, culturali, politiche, organizzative e
produttive fino a un presente visto in rapporto di continuità
e di relazione profonda con quel passato.
Ma le due storie devono farsi
complementari e una cronaca orientata, oltre a restituire la densità
degli eventi, ne può tracciare una geografia del tutto
intrinseca al discorso.
Satira, denuncia protesta
A partire dal '64 all'incirca nascono
un po' ovunque, o si fanno conoscere in forme più radicali, in
Europa e in America, dei piccoli teatri, esperienze appartate, alcune
un po' segrete, tutte sorte in spazi alternativi rispetto alle sedi
del teatro istituzionale, radicate in comunità e rivolte ad un
pubblico in qualche modo partecipe delle stesse idealità di
rottura e rinnovamento.
Nel '64 approda in Europa il Living
Theatre esiliato dagli Stati Uniti e rappresenta a Parigi Mysteries
and smaller pieces, uno spettacolo senza testo, invenzione
collettiva del gruppo e basato sui metodi dell' improvvisazione
creativa.
Si comincia a parlare di Grotowski, che
lavora in Polonia, dapprima ad Opole, nel Teatro delle tredici file,
un piccolo locale dove non entrano più di cento spettatori,
poi a Wroclaw, dove fonda il Teatro laboratorio-Istituto per l'arte
dell'attore ed inizia ad elaborare la sua poetica di teatro povero ed
i principi di un nuovo tipo di lavoro dell'attore.
Sempre nel '64 Eugenio Barba, che ha
lavorato tre anni in Polonia con Grotowski, fonda a Oslo l'Odin
Teatret, che trasferisce l'anno seguente a Holstebro, un piccolo
paese del nord della Danimarca, dove al lavoro laboratoriale sulle
tecniche dell'attore si affianca una vasta attività
seminariale ed organizzativa destinata a mettere in contatto la
tradizione orientale e quella occidentale del lavoro dell'attore e a
stabilire una rete internazionale di rapporti, scambi e legami di
collaborazione fra esperienze diverse di teatro.
In America nasce un teatro di
intervento diretto, di satira, di denuncia, di protesta. La san
Francisco Mime Group radicalizza in senso politico il suo lavoro; si
fonda il Teatro Campesino di Louis Valdez; l'Open Theatre dà
vita a Viet-Rock,uno spettacolo elaborato collettivamente dal
gruppo contro il coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam; negli
anni seguenti si moltiplicano i gruppi di "teatro radicale"
e gli spettacoli impegnati sui temi dei diritti civili, del
pacifismo, di una diversa "way of life".
Col loro stesso esistere queste
esperienze mettono in discussione l'establishment intellettuale e
strutturale del teatro pubblico che, a partire dagli anni Cinquanta,
si era configurato in tutta Europa come realtà stabile,
articolata e sovvenzionata (si pensi agli esempi più
significativi del Piccolo Teatro di Grassi e Strehler a Milano, del
Berliner Ensemble in Germania, dell'Odeon e del Théàtre
National Populaire di Jean Vilar in Francia, del National Theatre e
della Royal Shakespeare Company in Inghilterra), realtà
destinata a svolgere una funzione di "servizio" culturale e
perciò sorretta e affiancata da centri, scuole, case della
cultura, accademie di formazione (si pensi per tutte all'Accademia
d'Arte Drammatica Silvio D'Amico in Italia) e connessa al sorgere di
Festival (nel '47 sorge il Festival di Avignone con Jean Vilar) che
divengono luoghi in cui l'istituzione teatrale può
consolidare, in senso assolutistico, la propria gestione
dell'esistente a teatro, dimostrando di poter ospitare le più
diverse esperienze e rappresentarle. Alle forme organizzative e produttive
di tipo alternativo fanno riscontro spettacoli che infrangono gli
statuti estetico-formali del fare teatro. Alla Royal Shakespeare
Company di Londra Peter Brook rappresenta nel 1964 il Marat-Sade
di Peter Weiss a seguito di una subito leggendaria "stagione
della crudeltà", progetto sperimentale che fondava su
Artaud la volontà di restituire "necessità"
al teatro investendolo di tutto quello che è "crimine,
amore, guerra, o follia". Del 1966 è US dello
stesso Brook, uno spettacolo sull'uso del napalm in Vietnam che,
giocando sul bisticcio di significato del titolo (NOI, ma anche Stati
Uniti) mette l'accento sulle responsabilità
collettive della guerra.
Del '65 è Il Principe
Costante di Grotowski, che è accolto come modello di
teatro artaudiano.
Il Living realizza Le Serve nel
'65 , Frankenstein nel '66 e Antigone nel'67,
procedendo a incarnare il proprio pensiero rivoluzionario non solo
nel contenuto dei testi ma anche nei principi che regolano
l'organizzazione e le tecniche del gruppo.
Nel '67 esordisce Kaspariana
dell'Odin Teatret, spettacolo che incontra le questioni allora
dibattute nell'ambito della "nuova pedagogia" attraverso la
vicenda storica di Kaspar Hauser, il giovinetto "selvaggio"
apparso misteriosamente a Norimberga nel 1828, lì "educato",
e trovato assassinato cinque anni dopo.
In Italia è l'anno del Convegno
di Ivrea, dal quale esce un Manifesto comune del teatro
d'avanguardia.
La morte di una Cultura
Ma è proprio nel '68 che
l'ondata di rottura teatrale investe decisamente il teatro ufficiale
mettendone in crisi lo statuto culturale di teatro di "servizio"
pubblico. Alcuni episodi eclatanti sembrano segnare simbolicamente la
fine di un'epoca, la "Morte di una Cultura", come scriverà
Julian Beck riferendosi alla ribellione antiartistica del '68.
In Italia Strehler lascia il Piccolo
Teatro, che lui stesso ha contribuito a fondare nel '47 come modello
di "teatro pubblico" e "per poter sperimentare nuove
tecniche", come egli dichiara, dà vita a un gruppo
indipendente, il Teatro Azione, con il quale mette in scena Il
canto del fantoccio Lusitano di Peter Weiss, un'opera sulle
atrocità portoghesi in Angola. Dario Fo, che fino all'inizio
del '68 non ha ancora abbandonato gli spazi del teatro borghese e
presenta nei più grandi teatri di Roma e di Milano le sue
satire corrosive e surreali (La Signora è da buttare,
in appoggio alla guerra di liberazione del Vietnam e Grande
pantomima..., sul trasformismo della classe politica italiana),
esce dal teatro ufficiale dando vita al gruppo di Nuova Scena e
spostandosi nel circuito alternativo delle fabbriche occupate, delle
case del popolo, dei luoghi di lotta.
In Francia Jean-Louis Barrault è
licenziato da direttore del Theatre de France in seguito
all'occupazione dell'Odeon e va a lavorare sotto un tendone da circo
che si inaugura con lo spettacolo Rabelais. Contestazioni avvengono al XXII
Festival di Avignone, dove un'ordinanza di polizia impedisce al
Living di proseguire le repliche di Paradise Now,
spettacolo manifesto della rivoluzione non violenta ed espressione
massima dell'utopia teatrale. Jean Vilar, direttore del Festival, si
dimette.
In Inghilterra Peter Brook pubblica Il
teatro e il suo spazio lanciando, dal tempio stesso del teatro
classico, la Royal Shakespeare Company, l'accusa più radicale
a quello che egli chiama teatro "mortale" ossia il teatro
della noia propinato dal mercato.
Sono episodi destinati in gran parte ad
essere riassorbiti, ma che rappresentano comunque l'impossibilità
da parte del teatro ufficiale di mantenere le posizioni mentre
l'ondata del nuovo teatro ne ha investito, oltre agli statuti formali
e linguistici, l'intero sistema produttivo e di valori.
Gli spettacoli che siglano il biennio
'68-'69 sono Paradise Now del Living,
Apocalipsis cum figuris di Grotowski, Il grido del popolo
per la carne del Bread and Puppet , Ferai dell'Odin,
Orlando Furioso di Luca Ronconi, Mistero Buffo di Dario
Fo.
Ma al di sotto della cronologia degli
spettacoli c'è la realtà di un territorio in rivolta,
dove la ribellione non riguarda semplicemente le forme, l'estetica
del fare teatro, ma investe piuttosto esperienze umane ed
esistenziali di portata più generale.
Il '68 è stato, in tutta Europa,
il momento in cui si sono realizzate forme di organizzazione
alternative, che non si limitavano alla sfera dell'attività
politica in senso stretto, ma andavano ad investire anche nuovi modi
di organizzare la vita culturale e sociale: da questo punto di vista
il teatro ha consentito un livello di sperimentazione ulteriore,
almeno rispetto alle altre arti, a partire dalla dimensione
esistenziale che gli è specifica. Il teatro ha potuto
produrre, cioè, esperienze esistenziali e comunitarie
alternative nella misura in cui ha consentito ai gruppi che facevano
teatro di trovarvi il luogo in cui vivere una diversa situazione di
vita e rapporti originali ed antagonisti rispetto all'esistente.
In questo senso il teatro si è
configurato, nella tradizione di rottura che si è soliti far
risalire al '68, come laboratorio del cambiamento, non solo delle
tecniche attoriche e rappresentative, ma in senso più vasto
delle forme associative, dei rapporti produttivi e delle modalità
creative.
L'esperienza del Dioniso
Questo è stato maggiormente ed
esemplarmente vero nel caso del Living, che ha formulato il proprio
progetto di rivoluzione delle forme e dello statuto del fare teatro
non in subordine al progetto politico ma come parte integrante di
quello. I principi che hanno ispirato gli spettacoli del Living negli
anni di cui ci stiamo occupando (Mysteries and smaller pieces
nel 1964; Frankenstein nel 1965; Antigone nel 1967 e
Paradise Now nel 1968), principi di autonomia
creativa dell'attore, di ribellione alla preminenza registica, di
improvvisazione e creazione collettiva, di responsabilità
dell'interprete e coinvolgimento della totalità dei mezzi
espressivi, di uscita dagli spazi tradizionali e infrazione del
confine attore-spettatore, trovavano le proprie motivazioni
originarie nel progetto di liberazione globale che animava il gruppo
e che era alla base della sua pratica teatrale ed esistenziale. [Al
Living Theatre "A rivista anarchica, ha recentemente dedicato
un ampio dossier, realizzato da Cristina
valenti, nel numero 157, agosto/settembre 1988;
n.d.r.] In Italia, un teatro di partecipazione,
di animazione e decentramento si è inoltre irradiato nel
territorio senza teatro delle campagne, delle zone suburbane, dei
luoghi di conflittualità sociale a partire dal '68 e dalle
esperienze culturali e politiche che hanno preceduto quella data.
Giuliano Scabia ha portato il suo teatro partecipativo sia nei
contesti urbani politicizzati, sia nelle comunità contadine;
Carlo Cecchi ha lavorato a Torino fra gli immigrati calabresi del
quartiere Lingotto; Leo De Berardinis si è spostato nel sud,
lavorando coi sottoproletari di Marigliano a un progetto di "teatro
dell'ignoranza", "utile alla lotta". Ma, accanto all'attività del
Living, pochi altri incontri davvero significativi si sono avuti fra
teatro e militanza rivoluzionaria ed antiautoritaria. Soprattutto, vale la pena di ricordare
l'attività del Dioniso Teatro Club, il gruppo anarchico di
Giancarlo Celli, Roberto De Angelis e Dino Giaccalone fondato nel
1966 e ancora attivo, ma ormai in forme extra-teatrali, dieci anni
dopo. Non abbastanza ricordato allora e troppo presto rimosso dalle
successive ricostruzioni di quella stagione di rivolte teatrali, il
Dioniso Teatro ha condotto le esperienze più estremiste
nell'ambito della ricerca per una ridefinizione in senso libertario
del ruolo dell'attore, e per il superamento dei confini
attore-pubblico, autore-spettatore, regista-attore nel lavoro di
teatro.
Che Guevara e Antonin Artaud
Il Dioniso club ha praticato
l'esperienza comunitaria, si è prefisso la creazione di un
circuito alternativo di produzione e organizzazione spettacolare e ha
via via sperimentato un teatro di "rapporto diretto", ossia
di partecipazione attiva degli spettatori, realizzando, a partire dal
'68, una ventina di "strutture collettive" per un
coordinatore e l'"interpretazione" dei presenti (Da
zero, nelle sue varie versioni realizzate a Roma e, nell'estate,
nei camping della Campania); un teatro-assemblea (Dioniso scuola,
intervento per le strade nei quartieri romani, e Dioniso Test,
gioco-test politico effettuato nei paesi del nuorese); un "teatro
con scenografia totale" (Uomo massa,
adattamento da Ernst Toller in sette quadri dislocati nel quartiere
Bovisa di Milano); e un teatro guerriglia (Cerimonia propiziatoria
per il traffico, intervento in mezzo all'autostrada per
Terracina); fino ad infrangere definitivamente i confini della forma
teatro, dapprima nel lavoro in Sardegna (Poesie in casa,
intervento nelle case di pastori e braccianti dei paesi del nuorese ,
e Pittura murale con
partecipazione popolare, intervento per le strade
del nuorese), poi nell'esperienza extrateatrale di un negozio del
libero scambio (Negozio a lire zero), realizzato come
"intervento" nel quartiere Tiburtino fra il 1972 e il 1976.
Nelle sue esperienze più
consapevoli, e laddove ha realizzato un rapporto di non sudditanza né
di strumentalità rispetto al politico, il teatro ha saputo
sperimentare, nel concreto delle forme sociali ed organizzative cui
ha dato vita, i contenuti eversivi della rivoluzione culturale ed
esistenziale in atto.
In questo ventennale del '68 ha
esordito uno spettacolo sulla generazione che aveva vent'anni nel
'68, sui diversi percorsi di presa di coscienza e rivolta che hanno
portato i giovani di allora a rifiutare i valori dei loro padri, per
scegliere e creare nuove forme di vita e di cultura. Lo spettacolo,
che si chiama Talabot, è l'ultimo spettacolo dell'Odin
Teatret, il gruppo diretto da Eugenio Barba, che proprio negli anni
'60 è stato, come abbiamo visto, al centro del movimento che
si è prefisso di cambiare il teatro mutandone i fondamenti
esistenziali e culturali.
Trattandosi di uno spettacolo che, al
fondo della straordinaria complessità dei riferimenti e delle
metafore, presenta una sostanza fortemente autobiografica, è
possibile allora rintracciarvi dei fili di comprensione. Cosa è stato, alla luce di
Talabot, il '68 di Eugenio Barba, e quindi del teatro di
gruppo? E qual è il rapporto che il teatro a tutt'oggi non
omologato riesce a stabilire con il cuore della propria esperienza
storica, con il proprio sogno utopico originario, con i miti
generazionali, con l'effervescenza ribelle che venti anni prima ha
fatto credere di poter "mutare il teatro per mutare il mondo",
come disse Julian Beck?
Riformulata, questa domanda sarebbe:
quali sono stati i contenuti di lunga durata del '68 a teatro, quali
le pratiche, le forme organizzative e i modi produttivi che
consentono di rintracciare il filo storico che lega l'insieme delle
esperienze al di sotto della loro manifestazione événementie,
nelle strutture culturali ed esistenziali profonde?
Compaiono, nello spettacolo, due figure
mitiche della generazione: il Che, indicato quasi anonimamente nel
programma di sala come Ernesto Guevara, e Antonin Artaud. Il grande
rivoluzionario nelle cui gesta si è specchiata la generazione
che ha creduto che nel suo esempio l'individuo potesse farsi soggetto
della storia e il grande visionario del teatro le cui parole sono
state il verbo di una generazione che ha creduto di poter cambiare il
teatro per cambiare il mondo.
Ma a dispetto di ogni retorica
celebrativa e di ogni nostalgico appello ai fantasmi della propria
ancor pulsante utopia, Ernesto Guevara è un giovane ragazzo
affetto da forti crisi d'asma ed Antonin Artaud è intento a
pronunciare alla Sorbona la sua conferenza, Il teatro e la peste,
che sarà letta come testo profetico dalle generazioni
seguenti, ma che per il momento è un gesto accademicamente
irriverente e perciò irriso. Non sono più gli anni in cui
appendere sul letto il manifesto del Che e tenere sul comodino Il
teatro e la peste di Artaud. In loro nome non è più
possibile pensare alcuna rivoluzione, sociale o teatrale, avrà
forse voluto dire Eugenio Barba. Ma non per questo il presente della
nostra identità può prescindere da quanto i contenuti
trasmessi da quelle figure vi hanno sedimentato, né liquidarli
come immagini di un'infatuazione romantica e giovanile. Il rapporto
coi nostri miti di un tempo, e quindi con la nostra scelta etica
innanzitutto, non è più realizzabile al livello dei
grandi gesti, ma forse, questa sembra essere la scommessa di tutto lo
spettacolo, è realizzabile al livello della quotidianità
che ai grandi gesti era sottesa, che li ha segretamente preparati e
resi possibili.
Prima di poter vincere ogni altra
battaglia, Ernesto Guevara doveva scontrarsi quotidianamente con
l'asma e prima di diventare un profeta del teatro internazionale
Antonin Artaud dovette scontrarsi non con le argomentazioni, ma con
l'irrisione del sistema culturale francese.
Così il rapporto col proprio
passato incandescente non sarà possibile realizzarlo al
livello delle incandescenze, ma a quello di una prassi quotidiana
fatta di gesti privati di emancipazione e rottura, di fratture
esistenziali che di quelle incandescenze costituivano come la
precondizione biografica e la sorgente etica. Il '68 è, anche
a teatro, storia di biografie ribelli, e il tessuto del quotidiano
non è un livello minore rispetto all'emergenza degli eventi.
Lo sguardo va ribaltato pensando che l'occupazione dell'Odeon non è
stata che un piccolo fatto nella grande cosa. Pensato al livello della tradizione
profonda del teatro, il '68 è parte integrante del presente: e
la tradizione profonda è la prassi che ha legato e continua a
legare il filo rosso degli eventi di avanguardia e rottura.
Una microsocietà per stare
fuori
Il presente del '68 a teatro è
il teatro che sceglie di stare fuori, affermando il proprio diritto
ad abitare un territorio sottratto al sistema di potere del teatro
ufficiale, è il teatro che sceglie di essere nomade e di porre
le proprie esperienze all'interno di un sistema alternativo di
relazioni e di scambio. Ed è il teatro come microsocietà,
retto su norme comunitarie che ne riflettono l'identità
politica e culturale.
Al di là dell'aspetto di massa
del movimento politico generale, il '68 si è realizzato come
processo di autoliberazione individuale, in rapporto con la realtà
globale e non solo politica dell'individuo. E questo ha comportato
nel teatro alcune acquisizioni permanenti, dalle quali non è
possibile tornare indietro, che formano il presente della tradizione
di avanguardia; fino all'esperienza del teatro di gruppo, fondata su
rapporti di solidarietà orizzontale in grado di tradursi in
rete di circuitazione alternativa, sottratta ai tempi e alla logica
del mercato ufficiale; e fino all'emergenza attuale di un teatro che,
schiacciato dai condizionamenti e dalle strettoie del mercato, della
burocrazia e della partitocrazia, afferma la necessità di
essere minoranza scelta, rifiutandosi agli yuppismi trionfanti.
Riferendosi a questo presente profondo, forse, mi diceva Judith
Malina nel marzo scorso, nel corso di un'intervista, "non
dobbiamo pensare di essere vent'anni più distanti dal '68, ma
di essere vent'anni più vicini alla rivoluzione di quanto non
fossimo nel '68".
(relazione tenuta nell'ambito del
Convegno internazionale di studi "Il '68 tra rivolta, progetto
politico e trasformazione culturale" - Torino, 30 settembre / 2
ottobre 1988).
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