Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 159
novembre 1988


Rivista Anarchica Online

Laboratorio di trasformazione
di Cristina Valenti

A partire dal '64 all'incirca nascono un po' ovunque, o si fanno conoscere in forme più radicali, in Europa e in America, dei piccoli teatri, esperienze appartate, alcune un po' segrete, tutte sorte in spazi alternativi rispetto alle sedi del teatro istituzionale. Ma è proprio nel '68 che l'ondata di rottura teatrale investe decisamente il teatro ufficiale mettendone in crisi lo statuto culturale di teatro di "servizio" pubblico.

"La gente che insegna storia" diceva Judith Malina in una recente intervista "la vede in modo diverso da quelli che la vivono in prima persona. Il problema dell'insegnante o dell'artista che vuole trasmettere qualcosa della propria esperienza è di capire questo limite. Ognuno ha il suo Paradise Now, come ognuno che ha fatto la guerra vede la battaglia in cui si è trovato come il centro di quell'esperienza storica. Ma è anche uno sguardo distorto. Io ricordo il maggio a Parigi, quando abbiamo occupato l'Odeon, ma questo è un piccolo fatto nella grande cosa che è successa".
Premesso che parlare del Sessantotto a teatro significa sintetizzare in una data fortemente simbolica un insieme di esperienze che abbraccia in realtà un arco di tempo ben maggiore (che va grossomodo dall'inizio degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta), il discorso sul Sessantotto può essere fatto da due differenti punti di vista. Si può tracciare una storia "per eventi", un percorso segnato dalle pietre miliari dei grandi eventi teatrali che nel ricordo di chi vi ha partecipato si illuminano di valenze autorivelatrici, mentre nelle sistematizzazioni storiografiche esauriscono la sostanza di un'esperienza culturale di spessore profondissimo nell'evidenza delle sue manifestazioni fenomeniche. Ma, avverte Judith Malina, anche la più simbolica di quelle manifestazioni, l'occupazione dell'Odeon a Parigi, non è che un piccolo fatto nella grande cosa che è successa.
La grande cosa è l'altro punto di vista dal quale guardare il Sessantotto a teatro. È la vita del teatro che ha legato quelle esperienze al di sotto delle loro esplosioni manifeste, che ne ha costituito il tessuto connettivo alimentando la rivolta agli statuti estetico formali del fare teatro di contenuti culturali ed esistenziali di vasta portata.
Il primo punto di vista è quello celebrativo, che ripercorre delle tappe ormai mitiche e appunto per questo lontane ed irriproducibili: che riguardano il passato dell'esperienza teatrale, e che si prestano ad essere ripensate come momenti di un'intemperante avventura giovanilistica da coloro che hanno ormai abbandonato ogni etica del rifiuto.
Il secondo punto di vista, quello storico forse, è quello della tradizione profonda del teatro presente, ed è il punto di vista che contrappone all'incandescenza delle emergenze événementielles di filo rosso della lunga durata, della trasmissione di una serie di esperienze esistenziali, culturali, politiche, organizzative e produttive fino a un presente visto in rapporto di continuità e di relazione profonda con quel passato.
Ma le due storie devono farsi complementari e una cronaca orientata, oltre a restituire la densità degli eventi, ne può tracciare una geografia del tutto intrinseca al discorso.

Satira, denuncia protesta
A partire dal '64 all'incirca nascono un po' ovunque, o si fanno conoscere in forme più radicali, in Europa e in America, dei piccoli teatri, esperienze appartate, alcune un po' segrete, tutte sorte in spazi alternativi rispetto alle sedi del teatro istituzionale, radicate in comunità e rivolte ad un pubblico in qualche modo partecipe delle stesse idealità di rottura e rinnovamento.
Nel '64 approda in Europa il Living Theatre esiliato dagli Stati Uniti e rappresenta a Parigi Mysteries and smaller pieces, uno spettacolo senza testo, invenzione collettiva del gruppo e basato sui metodi dell' improvvisazione creativa.
Si comincia a parlare di Grotowski, che lavora in Polonia, dapprima ad Opole, nel Teatro delle tredici file, un piccolo locale dove non entrano più di cento spettatori, poi a Wroclaw, dove fonda il Teatro laboratorio-Istituto per l'arte dell'attore ed inizia ad elaborare la sua poetica di teatro povero ed i principi di un nuovo tipo di lavoro dell'attore.
Sempre nel '64 Eugenio Barba, che ha lavorato tre anni in Polonia con Grotowski, fonda a Oslo l'Odin Teatret, che trasferisce l'anno seguente a Holstebro, un piccolo paese del nord della Danimarca, dove al lavoro laboratoriale sulle tecniche dell'attore si affianca una vasta attività seminariale ed organizzativa destinata a mettere in contatto la tradizione orientale e quella occidentale del lavoro dell'attore e a stabilire una rete internazionale di rapporti, scambi e legami di collaborazione fra esperienze diverse di teatro.
In America nasce un teatro di intervento diretto, di satira, di denuncia, di protesta. La san Francisco Mime Group radicalizza in senso politico il suo lavoro; si fonda il Teatro Campesino di Louis Valdez; l'Open Theatre dà vita a Viet-Rock,uno spettacolo elaborato collettivamente dal gruppo contro il coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam; negli anni seguenti si moltiplicano i gruppi di "teatro radicale" e gli spettacoli impegnati sui temi dei diritti civili, del pacifismo, di una diversa "way of life".
Col loro stesso esistere queste esperienze mettono in discussione l'establishment intellettuale e strutturale del teatro pubblico che, a partire dagli anni Cinquanta, si era configurato in tutta Europa come realtà stabile, articolata e sovvenzionata (si pensi agli esempi più significativi del Piccolo Teatro di Grassi e Strehler a Milano, del Berliner Ensemble in Germania, dell'Odeon e del Théàtre National Populaire di Jean Vilar in Francia, del National Theatre e della Royal Shakespeare Company in Inghilterra), realtà destinata a svolgere una funzione di "servizio" culturale e perciò sorretta e affiancata da centri, scuole, case della cultura, accademie di formazione (si pensi per tutte all'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico in Italia) e connessa al sorgere di Festival (nel '47 sorge il Festival di Avignone con Jean Vilar) che divengono luoghi in cui l'istituzione teatrale può consolidare, in senso assolutistico, la propria gestione dell'esistente a teatro, dimostrando di poter ospitare le più diverse esperienze e rappresentarle.
Alle forme organizzative e produttive di tipo alternativo fanno riscontro spettacoli che infrangono gli statuti estetico-formali del fare teatro. Alla Royal Shakespeare Company di Londra Peter Brook rappresenta nel 1964 il Marat-Sade di Peter Weiss a seguito di una subito leggendaria "stagione della crudeltà", progetto sperimentale che fondava su Artaud la volontà di restituire "necessità" al teatro investendolo di tutto quello che è "crimine, amore, guerra, o follia". Del 1966 è US dello stesso Brook, uno spettacolo sull'uso del napalm in Vietnam che, giocando sul bisticcio di significato del titolo (NOI, ma anche Stati Uniti) mette l'accento sulle responsabilità collettive della guerra.
Del '65 è Il Principe Costante di Grotowski, che è accolto come modello di teatro artaudiano.
Il Living realizza Le Serve nel '65 , Frankenstein nel '66 e Antigone nel'67, procedendo a incarnare il proprio pensiero rivoluzionario non solo nel contenuto dei testi ma anche nei principi che regolano l'organizzazione e le tecniche del gruppo.
Nel '67 esordisce Kaspariana dell'Odin Teatret, spettacolo che incontra le questioni allora dibattute nell'ambito della "nuova pedagogia" attraverso la vicenda storica di Kaspar Hauser, il giovinetto "selvaggio" apparso misteriosamente a Norimberga nel 1828, lì "educato", e trovato assassinato cinque anni dopo.
In Italia è l'anno del Convegno di Ivrea, dal quale esce un Manifesto comune del teatro d'avanguardia.

La morte di una Cultura
Ma è proprio nel '68 che l'ondata di rottura teatrale investe decisamente il teatro ufficiale mettendone in crisi lo statuto culturale di teatro di "servizio" pubblico. Alcuni episodi eclatanti sembrano segnare simbolicamente la fine di un'epoca, la "Morte di una Cultura", come scriverà Julian Beck riferendosi alla ribellione antiartistica del '68.
In Italia Strehler lascia il Piccolo Teatro, che lui stesso ha contribuito a fondare nel '47 come modello di "teatro pubblico" e "per poter sperimentare nuove tecniche", come egli dichiara, dà vita a un gruppo indipendente, il Teatro Azione, con il quale mette in scena Il canto del fantoccio Lusitano di Peter Weiss, un'opera sulle atrocità portoghesi in Angola. Dario Fo, che fino all'inizio del '68 non ha ancora abbandonato gli spazi del teatro borghese e presenta nei più grandi teatri di Roma e di Milano le sue satire corrosive e surreali (La Signora è da buttare, in appoggio alla guerra di liberazione del Vietnam e Grande pantomima..., sul trasformismo della classe politica italiana), esce dal teatro ufficiale dando vita al gruppo di Nuova Scena e spostandosi nel circuito alternativo delle fabbriche occupate, delle case del popolo, dei luoghi di lotta.
In Francia Jean-Louis Barrault è licenziato da direttore del Theatre de France in seguito all'occupazione dell'Odeon e va a lavorare sotto un tendone da circo che si inaugura con lo spettacolo Rabelais.
Contestazioni avvengono al XXII Festival di Avignone, dove un'ordinanza di polizia impedisce al Living di proseguire le repliche di Paradise Now, spettacolo manifesto della rivoluzione non violenta ed espressione massima dell'utopia teatrale. Jean Vilar, direttore del Festival, si dimette.
In Inghilterra Peter Brook pubblica Il teatro e il suo spazio lanciando, dal tempio stesso del teatro classico, la Royal Shakespeare Company, l'accusa più radicale a quello che egli chiama teatro "mortale" ossia il teatro della noia propinato dal mercato.
Sono episodi destinati in gran parte ad essere riassorbiti, ma che rappresentano comunque l'impossibilità da parte del teatro ufficiale di mantenere le posizioni mentre l'ondata del nuovo teatro ne ha investito, oltre agli statuti formali e linguistici, l'intero sistema produttivo e di valori.
Gli spettacoli che siglano il biennio '68-'69 sono Paradise Now del Living, Apocalipsis cum figuris di Grotowski, Il grido del popolo per la carne del Bread and Puppet , Ferai dell'Odin, Orlando Furioso di Luca Ronconi, Mistero Buffo di Dario Fo.
Ma al di sotto della cronologia degli spettacoli c'è la realtà di un territorio in rivolta, dove la ribellione non riguarda semplicemente le forme, l'estetica del fare teatro, ma investe piuttosto esperienze umane ed esistenziali di portata più generale.
Il '68 è stato, in tutta Europa, il momento in cui si sono realizzate forme di organizzazione alternative, che non si limitavano alla sfera dell'attività politica in senso stretto, ma andavano ad investire anche nuovi modi di organizzare la vita culturale e sociale: da questo punto di vista il teatro ha consentito un livello di sperimentazione ulteriore, almeno rispetto alle altre arti, a partire dalla dimensione esistenziale che gli è specifica. Il teatro ha potuto produrre, cioè, esperienze esistenziali e comunitarie alternative nella misura in cui ha consentito ai gruppi che facevano teatro di trovarvi il luogo in cui vivere una diversa situazione di vita e rapporti originali ed antagonisti rispetto all'esistente.
In questo senso il teatro si è configurato, nella tradizione di rottura che si è soliti far risalire al '68, come laboratorio del cambiamento, non solo delle tecniche attoriche e rappresentative, ma in senso più vasto delle forme associative, dei rapporti produttivi e delle modalità creative.

L'esperienza del Dioniso
Questo è stato maggiormente ed esemplarmente vero nel caso del Living, che ha formulato il proprio progetto di rivoluzione delle forme e dello statuto del fare teatro non in subordine al progetto politico ma come parte integrante di quello. I principi che hanno ispirato gli spettacoli del Living negli anni di cui ci stiamo occupando (Mysteries and smaller pieces nel 1964; Frankenstein nel 1965; Antigone nel 1967 e Paradise Now nel 1968), principi di autonomia creativa dell'attore, di ribellione alla preminenza registica, di improvvisazione e creazione collettiva, di responsabilità dell'interprete e coinvolgimento della totalità dei mezzi espressivi, di uscita dagli spazi tradizionali e infrazione del confine attore-spettatore, trovavano le proprie motivazioni originarie nel progetto di liberazione globale che animava il gruppo e che era alla base della sua pratica teatrale ed esistenziale. [Al Living Theatre "A rivista anarchica, ha recentemente dedicato un ampio dossier, realizzato da Cristina valenti, nel numero 157, agosto/settembre 1988; n.d.r.]
In Italia, un teatro di partecipazione, di animazione e decentramento si è inoltre irradiato nel territorio senza teatro delle campagne, delle zone suburbane, dei luoghi di conflittualità sociale a partire dal '68 e dalle esperienze culturali e politiche che hanno preceduto quella data. Giuliano Scabia ha portato il suo teatro partecipativo sia nei contesti urbani politicizzati, sia nelle comunità contadine; Carlo Cecchi ha lavorato a Torino fra gli immigrati calabresi del quartiere Lingotto; Leo De Berardinis si è spostato nel sud, lavorando coi sottoproletari di Marigliano a un progetto di "teatro dell'ignoranza", "utile alla lotta".
Ma, accanto all'attività del Living, pochi altri incontri davvero significativi si sono avuti fra teatro e militanza rivoluzionaria ed antiautoritaria.
Soprattutto, vale la pena di ricordare l'attività del Dioniso Teatro Club, il gruppo anarchico di Giancarlo Celli, Roberto De Angelis e Dino Giaccalone fondato nel 1966 e ancora attivo, ma ormai in forme extra-teatrali, dieci anni dopo. Non abbastanza ricordato allora e troppo presto rimosso dalle successive ricostruzioni di quella stagione di rivolte teatrali, il Dioniso Teatro ha condotto le esperienze più estremiste nell'ambito della ricerca per una ridefinizione in senso libertario del ruolo dell'attore, e per il superamento dei confini attore-pubblico, autore-spettatore, regista-attore nel lavoro di teatro.

Che Guevara e Antonin Artaud
Il Dioniso club ha praticato l'esperienza comunitaria, si è prefisso la creazione di un circuito alternativo di produzione e organizzazione spettacolare e ha via via sperimentato un teatro di "rapporto diretto", ossia di partecipazione attiva degli spettatori, realizzando, a partire dal '68, una ventina di "strutture collettive" per un coordinatore e l'"interpretazione" dei presenti (Da zero, nelle sue varie versioni realizzate a Roma e, nell'estate, nei camping della Campania); un teatro-assemblea (Dioniso scuola, intervento per le strade nei quartieri romani, e Dioniso Test, gioco-test politico effettuato nei paesi del nuorese); un "teatro con scenografia totale" (Uomo massa, adattamento da Ernst Toller in sette quadri dislocati nel quartiere Bovisa di Milano); e un teatro guerriglia (Cerimonia propiziatoria per il traffico, intervento in mezzo all'autostrada per Terracina); fino ad infrangere definitivamente i confini della forma teatro, dapprima nel lavoro in Sardegna (Poesie in casa, intervento nelle case di pastori e braccianti dei paesi del nuorese , e Pittura murale con partecipazione popolare, intervento per le strade del nuorese), poi nell'esperienza extrateatrale di un negozio del libero scambio (Negozio a lire zero), realizzato come "intervento" nel quartiere Tiburtino fra il 1972 e il 1976.
Nelle sue esperienze più consapevoli, e laddove ha realizzato un rapporto di non sudditanza né di strumentalità rispetto al politico, il teatro ha saputo sperimentare, nel concreto delle forme sociali ed organizzative cui ha dato vita, i contenuti eversivi della rivoluzione culturale ed esistenziale in atto.
In questo ventennale del '68 ha esordito uno spettacolo sulla generazione che aveva vent'anni nel '68, sui diversi percorsi di presa di coscienza e rivolta che hanno portato i giovani di allora a rifiutare i valori dei loro padri, per scegliere e creare nuove forme di vita e di cultura. Lo spettacolo, che si chiama Talabot, è l'ultimo spettacolo dell'Odin Teatret, il gruppo diretto da Eugenio Barba, che proprio negli anni '60 è stato, come abbiamo visto, al centro del movimento che si è prefisso di cambiare il teatro mutandone i fondamenti esistenziali e culturali.
Trattandosi di uno spettacolo che, al fondo della straordinaria complessità dei riferimenti e delle metafore, presenta una sostanza fortemente autobiografica, è possibile allora rintracciarvi dei fili di comprensione.
Cosa è stato, alla luce di Talabot, il '68 di Eugenio Barba, e quindi del teatro di gruppo? E qual è il rapporto che il teatro a tutt'oggi non omologato riesce a stabilire con il cuore della propria esperienza storica, con il proprio sogno utopico originario, con i miti generazionali, con l'effervescenza ribelle che venti anni prima ha fatto credere di poter "mutare il teatro per mutare il mondo", come disse Julian Beck?
Riformulata, questa domanda sarebbe: quali sono stati i contenuti di lunga durata del '68 a teatro, quali le pratiche, le forme organizzative e i modi produttivi che consentono di rintracciare il filo storico che lega l'insieme delle esperienze al di sotto della loro manifestazione événementie, nelle strutture culturali ed esistenziali profonde?
Compaiono, nello spettacolo, due figure mitiche della generazione: il Che, indicato quasi anonimamente nel programma di sala come Ernesto Guevara, e Antonin Artaud. Il grande rivoluzionario nelle cui gesta si è specchiata la generazione che ha creduto che nel suo esempio l'individuo potesse farsi soggetto della storia e il grande visionario del teatro le cui parole sono state il verbo di una generazione che ha creduto di poter cambiare il teatro per cambiare il mondo.
Ma a dispetto di ogni retorica celebrativa e di ogni nostalgico appello ai fantasmi della propria ancor pulsante utopia, Ernesto Guevara è un giovane ragazzo affetto da forti crisi d'asma ed Antonin Artaud è intento a pronunciare alla Sorbona la sua conferenza, Il teatro e la peste, che sarà letta come testo profetico dalle generazioni seguenti, ma che per il momento è un gesto accademicamente irriverente e perciò irriso.
Non sono più gli anni in cui appendere sul letto il manifesto del Che e tenere sul comodino Il teatro e la peste di Artaud. In loro nome non è più possibile pensare alcuna rivoluzione, sociale o teatrale, avrà forse voluto dire Eugenio Barba. Ma non per questo il presente della nostra identità può prescindere da quanto i contenuti trasmessi da quelle figure vi hanno sedimentato, né liquidarli come immagini di un'infatuazione romantica e giovanile. Il rapporto coi nostri miti di un tempo, e quindi con la nostra scelta etica innanzitutto, non è più realizzabile al livello dei grandi gesti, ma forse, questa sembra essere la scommessa di tutto lo spettacolo, è realizzabile al livello della quotidianità che ai grandi gesti era sottesa, che li ha segretamente preparati e resi possibili.
Prima di poter vincere ogni altra battaglia, Ernesto Guevara doveva scontrarsi quotidianamente con l'asma e prima di diventare un profeta del teatro internazionale Antonin Artaud dovette scontrarsi non con le argomentazioni, ma con l'irrisione del sistema culturale francese.
Così il rapporto col proprio passato incandescente non sarà possibile realizzarlo al livello delle incandescenze, ma a quello di una prassi quotidiana fatta di gesti privati di emancipazione e rottura, di fratture esistenziali che di quelle incandescenze costituivano come la precondizione biografica e la sorgente etica. Il '68 è, anche a teatro, storia di biografie ribelli, e il tessuto del quotidiano non è un livello minore rispetto all'emergenza degli eventi. Lo sguardo va ribaltato pensando che l'occupazione dell'Odeon non è stata che un piccolo fatto nella grande cosa.
Pensato al livello della tradizione profonda del teatro, il '68 è parte integrante del presente: e la tradizione profonda è la prassi che ha legato e continua a legare il filo rosso degli eventi di avanguardia e rottura.

Una microsocietà per stare fuori
Il presente del '68 a teatro è il teatro che sceglie di stare fuori, affermando il proprio diritto ad abitare un territorio sottratto al sistema di potere del teatro ufficiale, è il teatro che sceglie di essere nomade e di porre le proprie esperienze all'interno di un sistema alternativo di relazioni e di scambio. Ed è il teatro come microsocietà, retto su norme comunitarie che ne riflettono l'identità politica e culturale.
Al di là dell'aspetto di massa del movimento politico generale, il '68 si è realizzato come processo di autoliberazione individuale, in rapporto con la realtà globale e non solo politica dell'individuo. E questo ha comportato nel teatro alcune acquisizioni permanenti, dalle quali non è possibile tornare indietro, che formano il presente della tradizione di avanguardia; fino all'esperienza del teatro di gruppo, fondata su rapporti di solidarietà orizzontale in grado di tradursi in rete di circuitazione alternativa, sottratta ai tempi e alla logica del mercato ufficiale; e fino all'emergenza attuale di un teatro che, schiacciato dai condizionamenti e dalle strettoie del mercato, della burocrazia e della partitocrazia, afferma la necessità di essere minoranza scelta, rifiutandosi agli yuppismi trionfanti. Riferendosi a questo presente profondo, forse, mi diceva Judith Malina nel marzo scorso, nel corso di un'intervista, "non dobbiamo pensare di essere vent'anni più distanti dal '68, ma di essere vent'anni più vicini alla rivoluzione di quanto non fossimo nel '68".

(relazione tenuta nell'ambito del Convegno internazionale di studi "Il '68 tra rivolta, progetto politico e trasformazione culturale" - Torino, 30 settembre / 2 ottobre 1988).