Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 159
novembre 1988


Rivista Anarchica Online

Un muro di gomma
di Corrado Stajano

"Compresi subito che era accaduto qualcosa che andava oltre la tragica morte di un uomo. Quella di Pinelli, ancora oggi, è una morte simbolo: il castello dello Stato, dalle fondamenta così potenti e robuste, rivelava tutta la sua miseria e fragilità, ma anche la sua boriosa strafottenza. Quella notte mi resi conto che...". La testimonianza di Corrado Stajano.

Corrado Stajano, giornalista e saggista, collabora con il Corriere della Sera e con Linus. Ha seguito con particolare attenzione, fin dal dicembre 1969, le vicende politico-giudiziarie legate alla strage di Stato. Tra i suoi libri: Il sovversivo (un'efficace ricostruzione della vicenda umana e sociale dell'anarchico Franco Serantini), Africo, L'Italia nichilista, Il terremoto (con Giovanni Russo), Un paese in tribunale (con Giovanna Borgese).
Per la RAI ha curato numerose trasmissioni giornalistiche, tra le quali ricordiamo - per l'ampio spazio dedicato alla vicenda di Pinelli – La forza della democrazia. Da tempo segue con particolare attenzione il fenomeno mafioso: in questo contesto ha curato il volume Mafia, l'atto di accusa dei giudici di Palermo.


È difficile da dimenticare, quella notte del 15 dicembre 1969. L'ospedale, la casa di Pinelli, Licia sulla porta e poi la stanza del questore Guida. Stava uscendo l'avvocato Malagugini, quando arrivammo, Camilla Cederna, Giampaolo Pansa ed io.
Aveva una faccia disperata, Malagugini, sconvolto per le bugie appena ascoltate, fece in tempo a dirci.
Ricordo nitidamente quella conferenza stampa del questore e quel che chiesi. Qual è stata l'ultima domanda fatta a Pinelli? Quali sono state le ultime cose dette, esistono i verbali degli interrogatori? Nessuno rispondeva, né Guida né gli altri poliziotti, né il tenente dei carabinieri che erano nella stanza, nessuno mostrava imbarazzo. Domandai anche se il fermo di Pinelli, che aveva abbondantemente superato le 48 ore, era stato convalidato dalla magistratura. Il questore rispose di sì e anche questo non era vero. Poi seguitò a parlare dell'alibi caduto, un'altra bugia.
Un funzionario, secondo il questore, aveva rivolto a Pinelli delle contestazioni e lui era sbiancato in volto: "Il dottor Calabresi aveva allora momentaneamente sospeso l'interrogatorio per andare a riferire ai superiori. Nella stanza si stava parlando d'altro, una pausa, quando il Pinelli ebbe uno scatto improvviso, si gettò verso la finestra socchiusa perché il locale era pieno di fumo, e si slanciò nel vuoto". Il suicidio, secondo Guida, era una evidente autoaccusa.
Compresi subito che era accaduto qualcosa che andava oltre la tragica morte di un uomo. Quella di Pinelli, ancora oggi, è una morte simbolo: il castello dello Stato, dalle fondamenta così potenti e robuste, rivelava tutta la sua miseria e fragilità, ma anche la sua boriosa strafottenza. Quella notte mi resi conto - non ci voleva molto dopo avere ascoltato Guida - che si tentava di coprire una vergognosa verità riguardante anche la strage di piazza Fontana.
Mi dissi: vedremo se questo Stato avrà il coraggio di riscattarsi, se avrà il coraggio di processare se stesso secondo il costume di certe grandi democrazie. Ma il processo è stato grottesco e doloroso e non ha portato a nulla. E qui bisogna fare un'osservazione. Manca la prova giuridica del delitto, si dice. Ma la prova politica dell'omicidio di Pinelli esiste, eccome, e ha un doppio valore.
Perché non è da cercare solo nella ricerca e nell'interpretazione di chi non ha mai creduto alla verità ufficiale dei fatti, ma anche nelle parole degli uomini dello Stato che quella notte si trovarono nella stanza dove Pinelli entrò vivo e uscì morto.
Se tutto, infatti, fosse avvenuto come ci è stato raccontato, che bisogno c'era di dir bugie, continue, ossessive, che bisogno c'era di contraddirsi in modo così spudorato davanti ai giudici? Ricordo la testimonianza del brigadiere Panessa - basta rileggerla nel libro di Camilla Cederna - ricordo quel che disse il presidente del tribunale: "signor Panessa, lei parla troppo". Sì, aveva detto tutto e il contrario di tutto, ma non fu ammonito, spinto a dire finalmente la verità, arrestato in aula, come sarebbe successo a chiunque di noi avesse detto un decimo delle cose ripetute dal brigadiere. Fu solo tutelato: parli di meno Panessa.
Sono passati quasi vent'anni e siamo ancora qui a discutere e questo è un fatto positivo, la memoria non è mai caduta, Pinelli non è stato dimenticato.
Con un senso di impotenza, però, in chi tante volte ha scritto e pronunciato il nome di Pinelli; con la consapevolezza di battere contro un muro di gomma.
La morte dell'anarchico Pinelli vale un trattato di scienza della politica per le conoscenze insegnate: mi ha fatto capire infatti come funzionano i meccanismi del potere che non è affatto una parola astratta, ma è ben corposa, invece; mi ha insegnato anche quanta generosità di persone limpide esista e forza di libertà e di giustizia, al di là delle idee e degli schieramenti. Vent'anni fa ci furono non pochi giornalisti che sul caso di piazza Fontana e sulla morte di Pinelli seppero fare il loro mestiere, con pochi mezzi, spesso contro i giornali dove scrivevano, nella costernazione degli uomini delle questure che non sapevano capacitarsi come mai quelle persone che consideravano naturali alleati fossero passate dall'altra parte. Scrivevano articoli, inchieste, bollettini, mettevano in discussione tutto, chiedevano i conti.
La morte di Pinelli ruppe steccati, schemi, schieramenti, appartenenze, portò a un esame di coscienza collettivo. Che cosa succederebbe adesso?