Rivista Anarchica Online
Tra storia e
utopia
di Patrizia Lorenzi (psicologa volontaria nel manicomio di Reggio Calabria, membro dell'Associazione "L'altra pazzia")
II bisogno più
grande per un sofferente mentale è quello di andare a ritroso per
ritrovarsi, per cercare le radici che qualcuno gli ha amputato e
poter ricomporre il mosaico della sua storia. Il senso della nostra
lotta politica è tentare di rendere possibile il futuro, l'utopia
che la storia di ogni folle esige.
Trovarmi di fronte
al disagio mentale ha significato per me confrontarmi, più che con
la "malattia", con la sofferenza. È
molto più chiarificante parlare di sofferenza, perché ogni
espressione di un soggetto psichiatrico esprime un soffrire intenso,
continuato, che volutamente il soggetto tiene sempre dinanzi a se
stesso, lo "ricorda", lo vive in maniera a volte drammatica,
amplificata, radicalizzandolo come nei casi di delirio o nello stato
acuto della crisi. Qualcosa ha profondamente sconvolto la persona, un
"qualcosa" vissuto in modo così intenso da diventare l'unico
perno intorno a cui ruota l'intera esistenza, i ricordi, le parole a
volte per noi incomprensibili, seppellendo sotto di sé tutto il
mondo cosciente della persona e costringendola a rompere le "normali"
relazioni col mondo, i "normali" modi di comunicare con gli
altri, le "normali" abitudini quotidiane. Uno andava a
scuola, poi all'improvviso non ha voluto più continuarla. L'altra
era una donna tutta dedita al marito e ai figli finché un giorno
scappa di casa e la si ritrova trasformata. Chi usciva con amici ora
non esce più. Chi si esprimeva in modo chiaro e comprensibile, ora
usa un linguaggio indecifrabile e parla di figure fantastiche, di
Madonne con gli occhi da bambina, dice di voler volare, di essere
diventato piccolo come un fiore e così via. Naturalmente non parlo
di persone quali Giuliana, che ha un lieve ritardo, o di Pasqualino,
epilettico. Parlo dei vari Bertino, Elisabetta, Maria, ecc., schedati
da una prassi psichiatrica che, inserendoli nella voce
"schizofrenici" se ne è tranquillamente lavata le mani perché i
primi a non credere che la follia possa esprimersi liberamente - e
quindi guarire - sono proprio loro, i nostri psichiatri. Da bravi
medici hanno espletato il solo ufficio di dispensare medicinali a
piene mani - un po' come qualcuno fa con i poveri del Terzo Mondo:
una ciotola di riso e per oggi la fame è passata. Credo che la loro
sfiducia nella liberazione del sofferente mentale dal suo disagio si
leghi alla incapacità di vedere il senso della follia: se la follia
è una risposta priva di senso, priva di significato ai
problemi che ci affliggono, se è solo un insieme di sintomi assurdi,
esagerati, indecifrabili, un "uscire fuori di senno", deviare
dalla vera e giusta rotta al di là della quale ci si può solo
smarrire, allora è chiaro che la follia è una strada senza ritorno. Ma c'è un altro
modo di guardare alla follia: cioè comprendere che essa è stata,
per quella persona, la sola possibile via d'uscita a una situazione
d'angoscia, di confusione, di oppressioni subite, un rifugiarsi in sé
stessi per non subire più una realtà vissuta come pericolo, ansia,
disperazione. Siano tensioni accumulate per anni, traumi che
affondano le loro radici nell'infanzia più lontana, choc improvvisi
o situazioni relazionali vissute come false e angoscianti, dietro
ogni "folle" si cela una storia di sofferenza. Questa storia il
manicomio l'ha completamente occultata, cancellata, messa da parte, e
la persona sofferente si è vista così espropriata, oltre che dei
suoi oggetti e dei legami personali, anche del suo vissuto, perché
la "malattia mentale" è stata concepita e "curata"
come fosse un male organico, staccato dalla storia del soggetto, un
male oscuro dentro il cervello, una valvola cerebrale che non
funziona più, una ciste nella testa che non si può neanche
estirpare. E invece il bisogno
più grande per un sofferente mentale, è proprio quell'andare a
ritroso per ritrovarsi, per cercare le radici che qualcuno gli ha
amputato, e poter ricomporre il mosaico della sua storia. Non tutti formulano
esplicitamente questa richiesta, alcuni lo fanno in maniera traslata:
c'è chi, come Sina, è convinta che tu sia sua figlia, chi ti chiama
moglie, chi rimane incantata a fissarti il volto, la barba,
ricordando chissà quale padre, chissà quale fratello. C'è chi,
come Elisabetta, ha un bisogno diretto di parlare di sé, del suo
bambino mai nato che lei crede nel Limbo, delle "suore cattive"
della sua adolescenza.
Il diritto ad un
futuro
Io credo che il
momento da privilegiare nel nostro rapporto con loro, sia proprio
questo scoprire discretamente il loro passato, per conoscere e
ristoricizzare la loro esistenza. Ecco che anche in noi avviene una
trasformazione: non più l'incontro con volti anonimi di folli, ma
con volti di donne e uomini che hanno un nome, una storia importante,
esperienze molto più complesse delle nostre, e che quindi incutono
un profondo rispetto. Non più quindi persone da inscrivere
nell'eterno presente della vita manicomiale, come esseri che quasi
esistono solo perché esiste un manicomio e vivono solo degli atti
quotidiani che il manicomio permette, da trattare come minorate, come
bambini bisognosi delle nostre moine o delle nostre espressioni più
puerili e scherzose, ma come persone che per una grave ingiustizia
sono state sradicate dalla società e che, anche se obbligate a
fermare la loro vita, le relazioni, il lavoro, hanno emozioni,
sentimenti, bisogni, e molti anche speranze. Riconoscere il
senso e comprendere il valore dell'esperienza che queste donne e
questi uomini hanno vissuto e vivono, significa confermare il loro
diritto ad un futuro, un futuro di autonomia, di liberazione, di
possibilità piena di espressione e di decisione. Il senso della
nostra lotta politica è così tentare di rendere possibile questo
futuro, questa utopia che la storia di ogni folle esige. Concludendo, il
percorso del nostro lavoro è un processo circolare che va
dall'incontro con l'individuo e il suo vissuto, alla
collettivizzazione della nostra esperienza, per poi ritornare
nuovamente all'individuo e al suo sogno/bisogno di futuro.
L'altra pazzia si
presenta
L'Altra Pazzia è
un'associazione che si propone di contribuire alla nascita di un
atteggiamento culturale diverso nei confronti del sofferente mentale,
che gli consenta di riappropriarsi dei suoi diritti civili e della
sua dignità di soggetto e che apra la collettività ad una autentica
comprensione della follia. Recentemente questa
associazione, che ha la sede in Via Borrace Crocevia 59, 89100 Reggio
Calabria, ha promosso una campagna per il superamento del manicomio
di Reggio Calabria e per la creazione di adeguati servizi e strutture
sul territorio. L'iniziativa si propone di richiamare l'attenzione
dell'opinione pubblica, delle forze politiche e sociali, e degli
amministratori su questa istituzione segregante, anti-terapeutica e
disumana. L'ospedale
psichiatrico di Reggio Calabria è ubicato nel rione Modena, uno dei
quartieri periferici più poveri della città. Costruito nel 1933, è
formato da 8 reparti (4 maschili e 4 femminili), ambienti fatiscenti
e squallidi, in cui vivono ancor oggi 440 persone. La grande area in
cui sorge il manicomio - da sempre comodo pascolo di greggi - è
delimitata da un recinto murario, tipica espressione del rifiuto
sociale che da secoli grava sul folle. Da sempre i
ricoverati hanno subito condizioni materiai e psicologiche di
esistenza disumana, conseguenze di una violenza che non è solo
ideologica, ma si concretizza in un attentato continuo alla salute e
alla vita della persone. L'Unità Sanitaria
Locale competente, ha cercato di trovare soluzioni parziali ai
problemi pratici più eclatanti, senza dimostrare un'effettiva presa
in carico responsabile e politicamente credibile del problema
psichiatrico, nonostante la legge 180 e la legge ragionale n.20 del
1981. Pertanto
l'Associazione L'Altra Pazzia ha lanciato un appello, sul quale sta
raccogliendo le adesioni di tutti i cittadini sensibili al problema.
L'iniziativa ha preso l'avvio con una manifestazione tenutasi a
Reggio Calabria, nei giorni 10, 11, e 12 ottobre 1986 nel corso della
quale si è tenuta una mostra fotografica sul manicomio di Reggio
Calabria. L'iniziativa si è venuta estendendo ad altri ambiti
(scuole, gruppi, ecc.) e l'appello sta ora circolando a livello
regionale, coinvolgendo forze politiche, associazioni, movimenti,
riviste, personalità della cultura ed operatori sociosanitari.
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