Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 144
marzo 1987


Rivista Anarchica Online

Dietro lo stupro
di Fausta Bizzozzero

La vicenda della giovane inglese violentata in caserma da tre CC ha riproposto, con il clamore che l'ha accompagnata, il dramma dello stupro. Ma quell'episodio non è che la punta dell'iceberg di un'infinita serie di violenze subite dalle donne.

Svegliarsi di notte con una gran voglia di camminare nella città deserta e sapere che non puoi farlo. Tornare a casa la sera, sentire dei passi che ti seguono e il cuore che batte sempre più forte, provare l'impulso di mettersi a correre e sapere che non puoi farlo, che non devi mostrare la tua paura. Essere donna significa anche questo, imparare a convivere con questa paura senza farsene limitare, controllandola e controllandosi continuamente; significa mettere in conto ogni possibile forma di violenza - psicologica o fisica - dai "complimenti" pesanti, alle proposte oscene, agli esibizionisti, alla violenza carnale. Ogni donna lo sa - chi più lucidamente, chi meno - ogni donna ha "provato" l'umiliazione di qualche tipo di violenza.
Molte, molte di più di quanto si pensi, hanno subito - subiscono - la violenza estrema, lo stupro, e si portano dentro per tutta la vita il peso di questa ferita sanguinante inferta alla loro dignità, sole, in silenzio. Non passa quasi giorno senza che sui giornali appaiano notizie su casi di violenza sessuale ma i casi resi pubblici sono pochi, pochissimi, rispetto a quelli taciuti per un assurdo senso di "vergogna" o per paura delle conseguenze. Rompere il muro del silenzio, mettersi in piazza, accusare, non è facile: presuppone coscienza di sé, rispetto di sé, coraggio di infrangere la legge non scritta per cui tutto ciò che riguarda la sfera sessuale è tabù e non se ne deve parlare, presuppone rischiare di trasformarsi da accusatrice in accusata - come tanti processi hanno ampiamente dimostrato, tra cui quello esemplare a Popi Saracino - presuppone darsi in pasto alla belva morbosa della morale pubblica e cercare di reggere uno scontro impari.
Il recente ennesimo caso della ragazza inglese violentata da tre carabinieri nella caserma di Lentate sul Seveso, a questo proposito, si presta a diverse considerazioni illuminanti. Innanzitutto sul tipo di violenza. È stato detto a più riprese nel corso del processo che non si è trattato di "violenza carnale" in senso proprio, bensì di "violenza psicologica": la ragazza non ha riportato contusioni od ecchimosi, non si è ribellata (come avrebbe potuto, da sola, in una caserma e con tre carabinieri?), è semplicemente stata indotta con minacce e intimidazioni varie a subire i rapporti con loro. La domanda sorge spontanea: la violenza psicologica non può forse essere a volte ancora peggiore della violenza brutale? Chi può permettersi di giudicare l'entità della violenza subita se non la diretta interessata?
La sentenza di condanna, in questo specifico caso, sembra aver creduto alla ragazza (come sembrano averle creduto giornalisti e opinione pubblica), ma quanto ha giocato il fatto che gli imputati fossero carabinieri, cioè proprio coloro a cui teoricamente per definizione la gente comune dovrebbe rivolgersi per essere difesa? Quanto si è voluta salvare in questo modo l'immagine dell'Arma?

Un corpo da usare
Un'altra considerazione a cui questo caso si presta riguarda "chi" compie atti di violenza. Secondo l'opinione comune si tratta sempre di individui psichicamente disturbati, insomma non "normali", e in questo modo, rifugiandosi dietro una comoda definizione di anormalità, si esorcizza il problema, lo si pone in una sfera inconoscibile e imprevedibile estranea alla società e di cui questa non ha responsabilità alcuna. Ma sono forse "anormali" i tre carabinieri in questione? O gli infermieri che violentano sulle autoambulanze? O le migliaia di buoni "padri di famiglia" che sistematicamente per anni violentano le loro figlie? Non mi sembra proprio. Questo tipo di violenza come quella sui bambini o sui vecchi, è parte integrante - che piaccia o no - della "normalità" sociale più bieca e retriva, di cui anzi è una logica conseguenza perché frutto della cultura e degli archetipi che la permeano: una cultura in cui convivono "buoni sentimenti", egoismo, sopraffazione dei più deboli, la doppia morale del non-si-deve-fare ma si-fa-e-non-si-dice; una cultura e un immaginario che sono ancora purtroppo diffusi e radicati e che vedono nella donna un corpo da usare e sottomettere e nella "virilità" un valore costitutivo dell'essere uomo. Una cultura tutta maschile purtroppo condivisa dalla società intera, donne comprese.
Certo esistono poi anche livelli di violenza "patologici", casi estremi come il "mostro di Firenze" o come il violentatore del bellissimo film "Oltre ogni limite", patetici Mr. Jeckill e Mr. Hyde in cui gli elementi essenziali del substrato culturale vengono portati al parossismo e convivono con comportamenti normalissimi nella vita quotidiana. Raul, il personaggio del film, è infatti il classico buon marito e buon padre: la moglie è al sicuro, il suo ruolo e la sua funzione sono sacri, la pongono al di sopra di ogni tentazione o desiderio (déjà vu, no?, siamo sempre ai soliti schemi culturali); sono le altre che lo fanno impazzire e che deve avere, come Marjorie (l'altra protagonista), non tanto bella, non tanto giovane, ma libera e indipendente. Questa volta, però, le cose non vanno secondo i suoi piani. Spiata nella sua casa e sorpresa da sola (lei vive con due amiche in campagna), Marjorie reagisce e dopo ore di violenze di ogni tipo riesce ad avere la meglio e a legarlo. Nessuno le crederebbe se si rivolgesse alla polizia, non ci sono segni di violenza carnale, sarebbe la sua parola contro la parola di lui. E il verme, ridotto all'impotenza ma non vinto, sa benissimo - e se ne vanta - che crederebbero a lui, alla sua versione. E Marjorie sa altrettanto bene che una volta libero lei non potrebbe più vivere. Con l'arrivo delle amiche si innesca una dinamica allucinante quanto rivelatrice: preoccupazione per lei, ma lei sta bene; preoccupazione per la salute di lui (che non ci vede perché Marjorie gli ha spruzzato negli occhi una bomboletta di pesticida), pena per lui, recriminazioni del tipo "vai sempre in giro per casa mezza nuda anche quando vengono i nostri amici" per cui - sottinteso - te le vai a cercare. Anche le amiche, quindi, che le vogliono bene, che la conoscono, non le credono sino in fondo e cercano di giustificare il poveretto. Marjorie non ha scampo e solo quando si trasformerà in carnefice vestendo i panni di lui, usando i suoi metodi, riuscirà a fargli confessare la verità e i suoi delitti precedenti. Certo si tratta, l'abbiamo già detto, di una caso limite. Ma nei casi che rientrano invece in quella che prima abbiamo definito "normalità" come reagiscono le donne?
Un'amica, che l'estate scorsa ha purtroppo vissuto un tentativo di violenza, mi raccontava la sua incredulità, la sua rabbia e disperazione nel non sentirsi trattata come una persona, nel non vedere rispettato il suo diritto di dire "no". Mi raccontava la sua reazione violenta istintiva (si è difesa con un coltello) di fronte a una situazione oggettivamente pericolosa - luogo isolato, due conoscenti maschi che fingevano di dormire malgrado gli urli - e la terribile sensazione di non esistere, di essere cancellata, di essere strappata fuori da se stessa. Ma lei era una persona ed ha continuato ad esserlo riflettendo, analizzando, maturando se stessa.
Quante donne, invece, meno consapevoli di sé, con meno strumenti culturali, subiscono simili esperienze in modo traumatico con pesanti ripercussioni su tutta la loro vita?
Nella maggior parte dei casi non se ne parla con nessuno, si tiene la "cosa orribile" chiusa dentro di sé, si cerca di cancellarla dalla memoria per non soffrire e perché, in fondo, ci se ne vergogna per quel meccanismo perverso di condivisione della cultura dominante che vuole le donne sempre e comunque tentatrici e quindi co-responsabili. Una piccola, piccolissima parte ricorre alla denuncia (e sono solo questi i casi di cui si viene a conoscenza) per disperazione e per vendicare in qualche modo l'umiliazione subita.
Ma può forse esistere una qualche forma di risarcimento di un danno che è enorme ma d'ordine morale?
È forse ipotizzabile che la pena - quando poi di pena si tratta - possa servire come deterrente per impedire altri simili delitti contro la dignità personale?
Non credo proprio, e tutta la storia giudiziaria - non solo in questo campo - sta lì a dimostrare che le sanzioni penali non impediscono certo il commettere reati.
Che si può fare allora?
Forse nell'immediato - quando è possibile e ci si riesce - reagire, non darsi per vinte, combattere per affermare la propria esistenza (loro non se lo aspettano, si aspettano invece paura e passività e una reazione diversa può disorientarli); se non si può o non si riesce a reagire al momento forse si può reagire dopo, organizzando a freddo una "lezione" che li faccia riflettere perbene prima di provarci con qualcun'altra. Ma qualunque cosa si faccia nella contingenza difficilmente riuscirà a modificare realmente e profondamente la cultura di cui queste e molte altre azioni sono il frutto. Serve ben altro. Serve un ribaltamento completo dei valori su cui questa società si fonda e che non si darà finché non sarà la collettività intera - o gran parte di essa - a volerlo. Ma qualcosa si può cominciare a fare, già da ora, in questa direzione e le donne - non solo ma soprattutto - possono cominciare a fare.

Da una prigione all'altra
Qualcuno ha detto che le donne sono le peggiori nemiche di se stesse. Costa fatica e sofferenza doverlo ammettere, ma è vero. Da sempre rinchiuse nella dorata prigione di simboli della cultura maschile, di questa stessa cultura esse si sono sempre fatte portatrici e trasmettitrici, incapaci di individuarne e negarne l'asse portante - il potere - anche quando frange minoritarie come il movimento femminista ci hanno provato. Al massimo da una prigione simbolica sono passate in un'altra prigione. Come se non riuscissero ad immaginarsi senza gabbie.
Eppure si può, si deve pur cominciare a pensarsi e a vivere fuori da ogni gabbia, da ogni schema, da ogni modello precostituito. Sarà difficile, sarà doloroso, ai primi tentativi di volare cadremo malamente, magari ci spezzeremo un'ala o una zampa, ma prima o poi impareremo a volare, ad usare e gestire una libertà conquistata poco a poco faticosamente.
Sarà difficile, ma solo così, contrapponendo un modo nuovo non codificabile di essere donne e persone ed esigendo la sua accettazione potrà finire questo gioco atroce della vittima e del carnefice dove spesso la vittima è, inconsciamente e culturalmente, consenziente.
Sarà difficile com'è difficile ogni processo di auto-liberazione. Ma se riusciremo a volare ne sarà valsa la pena, no?