Rivista Anarchica Online
Dietro lo stupro
di Fausta Bizzozzero
La vicenda della
giovane inglese violentata in caserma da tre CC ha riproposto, con il
clamore che l'ha accompagnata, il dramma dello stupro. Ma
quell'episodio non è che la punta dell'iceberg di un'infinita serie
di violenze subite dalle donne.
Svegliarsi di notte
con una gran voglia di camminare nella città deserta e sapere che
non puoi farlo. Tornare a casa la sera, sentire dei passi che ti
seguono e il cuore che batte sempre più forte, provare l'impulso di
mettersi a correre e sapere che non puoi farlo, che non devi mostrare
la tua paura. Essere donna significa anche questo, imparare a
convivere con questa paura senza farsene limitare, controllandola e
controllandosi continuamente; significa mettere in conto ogni
possibile forma di violenza - psicologica o fisica - dai
"complimenti" pesanti, alle proposte oscene, agli
esibizionisti, alla violenza carnale. Ogni donna lo sa - chi più
lucidamente, chi meno - ogni donna ha "provato" l'umiliazione
di qualche tipo di violenza. Molte, molte di più
di quanto si pensi, hanno subito - subiscono - la violenza estrema,
lo stupro, e si portano dentro per tutta la vita il peso di questa
ferita sanguinante inferta alla loro dignità, sole, in silenzio. Non
passa quasi giorno senza che sui giornali appaiano notizie su casi di
violenza sessuale ma i casi resi pubblici sono pochi, pochissimi,
rispetto a quelli taciuti per un assurdo senso di "vergogna" o
per paura delle conseguenze. Rompere il muro del silenzio, mettersi
in piazza, accusare, non è facile: presuppone coscienza di sé,
rispetto di sé, coraggio di infrangere la legge non scritta per cui
tutto ciò che riguarda la sfera sessuale è tabù e non se ne deve
parlare, presuppone rischiare di trasformarsi da accusatrice in
accusata - come tanti processi hanno ampiamente dimostrato, tra cui
quello esemplare a Popi Saracino - presuppone darsi in pasto alla
belva morbosa della morale pubblica e cercare di reggere uno scontro
impari. Il recente ennesimo
caso della ragazza inglese violentata da tre carabinieri nella
caserma di Lentate sul Seveso, a questo proposito, si presta a
diverse considerazioni illuminanti. Innanzitutto sul tipo di
violenza. È stato detto a più riprese nel corso del processo che
non si è trattato di "violenza carnale" in senso proprio,
bensì di "violenza psicologica": la ragazza non ha
riportato contusioni od ecchimosi, non si è ribellata (come avrebbe
potuto, da sola, in una caserma e con tre carabinieri?), è
semplicemente stata indotta con minacce e intimidazioni varie a
subire i rapporti con loro. La domanda sorge spontanea: la violenza
psicologica non può forse essere a volte ancora peggiore della
violenza brutale? Chi può permettersi di giudicare l'entità della
violenza subita se non la diretta interessata? La sentenza di
condanna, in questo specifico caso, sembra aver creduto alla ragazza
(come sembrano averle creduto giornalisti e opinione pubblica), ma
quanto ha giocato il fatto che gli imputati fossero carabinieri, cioè
proprio coloro a cui teoricamente per definizione la gente comune
dovrebbe rivolgersi per essere difesa? Quanto si è voluta salvare in
questo modo l'immagine dell'Arma?
Un corpo da
usare
Un'altra
considerazione a cui questo caso si presta riguarda "chi"
compie atti di violenza. Secondo l'opinione comune si tratta sempre
di individui psichicamente disturbati, insomma non "normali",
e in questo modo, rifugiandosi dietro una comoda definizione di
anormalità, si esorcizza il problema, lo si pone in una sfera
inconoscibile e imprevedibile estranea alla società e di cui questa
non ha responsabilità alcuna. Ma sono forse "anormali" i tre
carabinieri in questione? O gli infermieri che violentano sulle
autoambulanze? O le migliaia di buoni "padri di famiglia" che
sistematicamente per anni violentano le loro figlie? Non mi sembra
proprio. Questo tipo di violenza come quella sui bambini o sui
vecchi, è parte integrante - che piaccia o no - della "normalità"
sociale più bieca e retriva, di cui anzi è una logica conseguenza
perché frutto della cultura e degli archetipi che la permeano: una
cultura in cui convivono "buoni sentimenti", egoismo,
sopraffazione dei più deboli, la doppia morale del non-si-deve-fare
ma si-fa-e-non-si-dice; una cultura e un immaginario che sono ancora
purtroppo diffusi e radicati e che vedono nella donna un corpo da
usare e sottomettere e nella "virilità" un valore
costitutivo dell'essere uomo. Una cultura tutta maschile purtroppo
condivisa dalla società intera, donne comprese. Certo esistono poi
anche livelli di violenza "patologici", casi estremi come
il "mostro di Firenze" o come il violentatore del
bellissimo film "Oltre ogni limite", patetici Mr. Jeckill e
Mr. Hyde in cui gli elementi essenziali del substrato culturale
vengono portati al parossismo e convivono con comportamenti
normalissimi nella vita quotidiana. Raul, il personaggio del film, è
infatti il classico buon marito e buon padre: la moglie è al sicuro,
il suo ruolo e la sua funzione sono sacri, la pongono al di sopra di
ogni tentazione o desiderio (déjà vu, no?, siamo sempre ai soliti
schemi culturali); sono le altre che lo fanno impazzire e che deve
avere, come Marjorie (l'altra protagonista), non tanto bella, non
tanto giovane, ma libera e indipendente. Questa volta, però, le cose
non vanno secondo i suoi piani. Spiata nella sua casa e sorpresa da
sola (lei vive con due amiche in campagna), Marjorie reagisce e dopo
ore di violenze di ogni tipo riesce ad avere la meglio e a legarlo.
Nessuno le crederebbe se si rivolgesse alla polizia, non ci sono
segni di violenza carnale, sarebbe la sua parola contro la parola di
lui. E il verme, ridotto all'impotenza ma non vinto, sa benissimo - e
se ne vanta - che crederebbero a lui, alla sua versione. E Marjorie
sa altrettanto bene che una volta libero lei non potrebbe più
vivere. Con l'arrivo delle amiche si innesca una dinamica allucinante
quanto rivelatrice: preoccupazione per lei, ma lei sta bene;
preoccupazione per la salute di lui (che non ci vede perché Marjorie
gli ha spruzzato negli occhi una bomboletta di pesticida), pena per
lui, recriminazioni del tipo "vai sempre in giro per casa mezza
nuda anche quando vengono i nostri amici" per cui - sottinteso -
te le vai a cercare. Anche le amiche, quindi, che le vogliono bene,
che la conoscono, non le credono sino in fondo e cercano di
giustificare il poveretto. Marjorie non ha scampo e solo quando si
trasformerà in carnefice vestendo i panni di lui, usando i suoi
metodi, riuscirà a fargli confessare la verità e i suoi delitti
precedenti. Certo si tratta, l'abbiamo già detto, di una caso
limite. Ma nei casi che rientrano invece in quella che prima abbiamo
definito "normalità" come reagiscono le donne? Un'amica, che
l'estate scorsa ha purtroppo vissuto un tentativo di violenza, mi
raccontava la sua incredulità, la sua rabbia e disperazione nel non
sentirsi trattata come una persona, nel non vedere rispettato il suo
diritto di dire "no". Mi raccontava la sua reazione
violenta istintiva (si è difesa con un coltello) di fronte a una
situazione oggettivamente pericolosa - luogo isolato, due conoscenti
maschi che fingevano di dormire malgrado gli urli - e la terribile
sensazione di non esistere, di essere cancellata, di essere strappata
fuori da se stessa. Ma lei era una persona ed ha continuato
ad esserlo riflettendo, analizzando, maturando se stessa. Quante donne,
invece, meno consapevoli di sé, con meno strumenti culturali,
subiscono simili esperienze in modo traumatico con pesanti
ripercussioni su tutta la loro vita? Nella maggior parte
dei casi non se ne parla con nessuno, si tiene la "cosa orribile"
chiusa dentro di sé, si cerca di cancellarla dalla memoria per non
soffrire e perché, in fondo, ci se ne vergogna per quel meccanismo
perverso di condivisione della cultura dominante che vuole le donne
sempre e comunque tentatrici e quindi co-responsabili. Una piccola,
piccolissima parte ricorre alla denuncia (e sono solo questi i casi
di cui si viene a conoscenza) per disperazione e per vendicare in
qualche modo l'umiliazione subita. Ma può forse
esistere una qualche forma di risarcimento di un danno che è enorme
ma d'ordine morale? È
forse ipotizzabile che la pena - quando poi di pena si tratta - possa
servire come deterrente per impedire altri simili delitti contro la
dignità personale? Non credo proprio,
e tutta la storia giudiziaria - non solo in questo campo - sta lì a
dimostrare che le sanzioni penali non impediscono certo il commettere
reati. Che si può fare
allora? Forse
nell'immediato - quando è possibile e ci si riesce - reagire, non
darsi per vinte, combattere per affermare la propria esistenza (loro
non se lo aspettano, si aspettano invece paura e passività e una
reazione diversa può disorientarli); se non si può o non si riesce
a reagire al momento forse si può reagire dopo, organizzando a
freddo una "lezione" che li faccia riflettere perbene prima
di provarci con qualcun'altra. Ma qualunque cosa si faccia nella
contingenza difficilmente riuscirà a modificare realmente e
profondamente la cultura di cui queste e molte altre azioni sono il
frutto. Serve ben altro. Serve un ribaltamento completo dei valori su
cui questa società si fonda e che non si darà finché non sarà la
collettività intera - o gran parte di essa - a volerlo. Ma qualcosa
si può cominciare a fare, già da ora, in questa direzione e le
donne - non solo ma soprattutto - possono cominciare a fare.
Da una prigione
all'altra
Qualcuno ha detto
che le donne sono le peggiori nemiche di se stesse. Costa fatica e
sofferenza doverlo ammettere, ma è vero. Da sempre rinchiuse nella
dorata prigione di simboli della cultura maschile, di questa stessa
cultura esse si sono sempre fatte portatrici e trasmettitrici,
incapaci di individuarne e negarne l'asse portante - il potere -
anche quando frange minoritarie come il movimento femminista ci hanno
provato. Al massimo da una prigione simbolica sono passate in
un'altra prigione. Come se non riuscissero ad immaginarsi senza
gabbie. Eppure si può, si
deve pur cominciare a pensarsi e a vivere fuori da ogni gabbia, da
ogni schema, da ogni modello precostituito. Sarà difficile, sarà
doloroso, ai primi tentativi di volare cadremo malamente, magari ci
spezzeremo un'ala o una zampa, ma prima o poi impareremo a volare, ad
usare e gestire una libertà conquistata poco a poco faticosamente. Sarà difficile, ma
solo così, contrapponendo un modo nuovo non codificabile di essere
donne e persone ed esigendo la sua accettazione potrà finire questo
gioco atroce della vittima e del carnefice dove spesso la vittima è,
inconsciamente e culturalmente, consenziente. Sarà difficile
com'è difficile ogni processo di auto-liberazione. Ma se riusciremo
a volare ne sarà valsa la pena, no?
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