Rivista Anarchica Online
Morire di naia (morire per niente)
di Marco Galliari
Bernardino
Bartocci, delegato milanese dell'Associazione nazionale assistenza
vittime arruolate nelle forze armate, fornisce cifre ed esempi delle
morti (centinaia ogni anno) dei soldati di leva: le comode menzogne
del ministero.
"Mio figlio è
morto il 4 agosto dell'anno scorso, a 19 anni. E non so ancora
adesso, dopo quasi un anno, di cosa è morto. Dicono per annegamento.
Annegato nell'acqua alta 30 centimetri! Io ne ho visti di annegati,
dopo anni di lago, ma mai in questo modo!" Chi parla è
Bernardino Bartocci, operaio sulla cinquantina, membro
dell'Associazione nazionale vittime arruolate delle Forze Armate
(Ana-Vafaf), di cui è il delegato milanese. Quest'Associazione, che
è costituita innanzitutto dai familiari delle reclute cadute e di
cui è presidente l'ex-socialista Accame (ora DP), è nata nel
novembre 1983 "per cercare di rimediare all'assoluta indifferenza dei
politici, al silenzio della stampa, alle archiviazioni della
magistratura". Il numero dei morti
sotto leva è mediamente di 200 ogni anno, ma i dati sono ambigui: ad
esempio Il Tempo del 9 giugno '85 parla di 340 morti nel 1982
(di cui 31 suicidi), 339 nel 1983 (21 suicidi) e 155 nei primo
trimestre '84 (14 suicidi), lo stesso giornale assicura l'ufficialità
delle fonti. Il demo-proletario Ronchi, in un'interrogazione
parlamentare del 17 giugno '85, parla di una cifra approssimata (per
difetto) fra gli 8.000 e i 12.000 morti dalla fine della guerra ad
oggi, e di almeno (dato minimale) 50.000 invalidi divisi in varie
categorie di gravità. Come reagisce il
ministero della difesa di fronte a queste cifre? Prima di tutto
negando l'attendibilità di questi dati (ovviamente), in secondo
luogo asserendo che una buona percentuale di quei morti sono "non
conteggiabili", in quanto non in servizio al momento del
decesso. Lo stesso Il Tempo suffraga questa tesi, all'interno
di un articolo di duro attacco alle tesi dell'Ana-Vafaf ("Livida
requisitoria antimilitarista..."), asserendo che, per esempio,
nell''82 su 340 militari morti, 184 erano fuori servizio. "Ma bisogna
vedere cosa significa fuori servizio! - salta su Bartocci - Bisogna
vedere dove sono le cause e le responsabilità di queste morti,
perché casi come quello di quel ragazzo, a Milano quest'inverno,
venuto a casa in libera uscita e morto dopo un'ora che era arrivato,
si verificano continuamente". In ogni caso,
sostiene il ministero della difesa, la media della mortalità
militare è statisticamente equivalente alla media nazionale. "Sì,
ma Spadolini si dimentica che la media nazionale è calcolata su
tutta la popolazione da 0 a 90 anni, mentre la media militare
riguarda ragazzi dai 18 ai 22 anni che passano almeno 2 visite
mediche". L'Ana-Vafaf ha
curato la pubblicazione di un libro bianco in cui sono indicati i
nomi di più di cento ragazzi morti in servizio militare nello spazio
di 4 anni (tra le pubblicazioni da cui sono tratte le informazioni
contenute nel libro vi è anche Senzapatria). Sono citati casi
nei quali il "comune mal di testa" rilevato in ospedale
militare era una meningite tubercolare, il "comune mal di pancia"
una emorragia interna, una peritonite non era stata neppure
intravista, certi disturbi psichici presi in considerazione soltanto
al loro esplodere in atti di violenza contro la propria persona o
l'altrui. ("Patologia del servizio di leva" del prof. Enzo
Cataldi - in Il Mondo Giudiziario, 11-18-25 febbraio '85).
L'articolo prosegue: "È
recente la notizia della recluta di Bergamo che "impazzisce e
uccide il suo ufficiale" (La Repubblica, 23 novembre '84)
ed è una tragica sequenza snodatasi in poche settimane quella che ha
registrato il soldato di Cremona che sequestra, armato di mitra,
l'intero corpo di guardia, la recluta di Novara, che squarcia a
coltellate il petto di un commilitone, il caporale di Merano che si
uccide nella propria stanza, la recluta di Remanzaccio (UD) che fa la
stessa cosa sparandosi col fucile". Se la mancata o
errata assistenza medica è una delle cause principali della
mortalità militare (ricordiamo altri due casi, come quello della
recluta di Cesano, che accusa nausea, viene trascurato, quindi
portato in ospedale ormai agonizzante dove muore; o il marinaio di La
Spezia curato con lassativi finché muore di polmonite tubercolare)
non bisogna dimenticare i vari incidenti di caserma dovuti
all'addestramento insufficiente o all'assoluta mancanza di misure di
sicurezza "sul lavoro". Addestramenti di guida appena
accennati producono continui incidenti che, per la loro frequenza e
per il numero di persone ogni volta coinvolte, sono tra i più gravi
casi di mortalità. Altri casi significativi sono poi quelli degli
incidenti d'arma da fuoco: esempi di questi "fucilati per
errore" ve ne sono a decine. Ma là dove la
responsabilità piena di queste morti da parte dell'apparato militare
è particolarmente evidente, è nelle morti per "nonnismo".
"Il nonnismo - dice Bartocci - è un vero e proprio comando
parallelo a quello ufficiale, non viene mai contrastato perché fa
comodo per controllare i soldati e per scaricare le tensioni".
Tensioni dovute essenzialmente all'ambiente militare e,
contestualmente, dalla forzata inattività a cui sono spesso
costretti i militari. Il nonnismo è una pratica di costante
umiliazione e violenza nei confronti delle reclute più giovani e
sfocia spesso in episodi di vera e propria criminalità collettiva o
individuale. Tristemente note sono le vicende della caserma Col di
Lana o il caso dei cinque violentatori della caserma di Cremona,
oppure il caso del marinaio violentato e poi gettato dalla finestra
della camerata. Mi viene in mente,
a questo punto, la testimonianza di un genitore di un caduto,
durante la conferenza organizzata dall'Ana-Vafaf a Milano, due
settimane prima di questa intervista. Questo genitore faceva notare
come il servizio militare, soprattutto se uno l'ha svolto molto tempo
addietro, perde nel ricordo quella sua caratteristica essenziale di
disprezzo della dignità e della vita umana; caratteristica di fronte
alla quale ci si ritrova improvvisamente a scontrarsi quando si viene
colpiti in prima persona da lutti di questo genere. E certamente non
si capisce cos'altro potrebbe significare questa situazione "ad
alto rischio" se non disprezzo della vita umana. L'assoluta
precarietà del vivere (e le sue tragiche conseguenze) sono il
prodotto, non necessario ma nemmeno casuale, di un'istituzione in cui
gli uomini altro non sono che numeri, e rappresenta l'altra facciata,
apparentemente contraddittoria, in realtà complementare,
dell'efficientismo militarista. Anche questo, in fondo, fa parte
della funzione pedagogica dell'esercito, di quest'assurdo tributo
d'obbedienza, quasi una prova iniziatica, che rappresenta il servizio
militare. C'è di più, nel
momento in cui consideriamo il servizio di leva stesso come formatore
di patologie. "La scienza psichiatrica militare, ha da tempo
indicate come concause psicogene di sindromi, a cominciar dalle
schizofreniche, avvenimenti che non sempre hanno caratteristiche di
eccezionalità e di intensità straordinarie. Sono proprio i normali
fattori inerenti al servizio militare ad influire nel determinismo
dell'infermità: il brusco cambiamento di abitudini, il severo regime
disciplinare, le suggestioni dell'ambiente, l'allontanamento
dall'ambiente familiare e la nostalgia per esso, costituiscono
fattori favorevoli alla rivelazione di processi mentali che forse
sarebbero stati altrimenti silenti" (Cirrincione e Moreno,
Psichiatria Militare, 1961). Certo l'argomento è ambiguo, ma
cosa dire di fronte alle più tragiche conseguenze di questi
processi, i suicidi? Franco Ferrarotti, in un articolo su Il Tempo
(settimanale ) del dicembre '76, non esitava a definirli "suicidi
di stato", in quanto era riscontrabile, nella maggior parte dei
casi conosciuti, come concausa scatenante dell'atto l'ambiente e il
regolamento militare e la carica spersonalizzante che esprimono. Ecco
che forse i silenzi, le ammissioni, la ridda contraddittoria delle
versioni ufficiali - "il non sapere di cosa è morto il proprio
congiunto è una costante", assicura Bartocci - hanno un senso
che va al di là del "normale" far quadrato corporativo
(come si fa ad ammettere che un alpino è morto congelato per aver
fatto la guardia a -18°?). Il fatto è che nel
battere questi tasti, al di là delle intenzioni di chi lo fa ("noi
non siamo antimilitaristi, siamo per la democrazia nell'esercito"),
si va a toccare qualcosa di più che le disfunzioni delle forze
armate: la stessa essenza negatrice della dignità umana
dell'esercito, che quelle produce. Queste sono morti difficilmente
strumentalizzabili con medaglie e lapidi, non sono morti per la
difesa della patria o la conquista di una collinetta, ma per niente,
per l'esistenza stessa dell'esercito. E questo è molto più
difficile da giustificare, tanto che, per allontanare il più
possibile questi cadaveri ingombranti dal semplice aggettivo
"militare", si arriva al punto di negarne la pensione alle
famiglie "salvo che non siano fatti talmente grossi e allora si
spera, con 50 milioni, di mettere tutto a tacere". Il colloquio con
Bartocci poi continua toccando altri argomenti: i cappellani militari
("che sanno tutto e non dicono mai niente, è essere cristiani
questo?"), la democrazia in caserma ("si è arrivati
all'assurdo che un ammiraglio, direttore generale del personale,
venga eletto a capo della rappresentanza sindacale dei soldati!"),
l'antimilitarismo ("io non sono antimilitarista perché penso
che un paese per restare libero debba potersi difendere, certo che in
un momento in cui la guerra, se ci sarà, sarà nucleare, a cosa
serve un esercito? Per difenderci da Gheddafi? Prima gli forniamo le
armi e poi stiamo a vedere se le usa contro di noi?"), i partiti
("a nessuno interessa questa situazione. Io dopo 40 anni di
militanza socialista, è questo che devo vedere del mio ex
partito?"), le loro proposte (la carta dei diritti del soldato,
l'assicurazione obbligatoria, la regionalizzazione), l'obiezione
fiscale ("piuttosto che dare 10 lire alla difesa, le butto nel
tombino"). E quando ci lasciamo mi ribadisce, con convinzione e
commozione: "io, per mio figlio, voglio andare fino in fondo!
Voglio sapere di cosa è morto e voglio che i responsabili paghino".
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