Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 130
estate 1985


Rivista Anarchica Online

Morire di naia (morire per niente)
di Marco Galliari

Bernardino Bartocci, delegato milanese dell'Associazione nazionale assistenza vittime arruolate nelle forze armate, fornisce cifre ed esempi delle morti (centinaia ogni anno) dei soldati di leva: le comode menzogne del ministero.

"Mio figlio è morto il 4 agosto dell'anno scorso, a 19 anni. E non so ancora adesso, dopo quasi un anno, di cosa è morto. Dicono per annegamento. Annegato nell'acqua alta 30 centimetri! Io ne ho visti di annegati, dopo anni di lago, ma mai in questo modo!" Chi parla è Bernardino Bartocci, operaio sulla cinquantina, membro dell'Associazione nazionale vittime arruolate delle Forze Armate (Ana-Vafaf), di cui è il delegato milanese. Quest'Associazione, che è costituita innanzitutto dai familiari delle reclute cadute e di cui è presidente l'ex-socialista Accame (ora DP), è nata nel novembre 1983 "per cercare di rimediare all'assoluta indifferenza dei politici, al silenzio della stampa, alle archiviazioni della magistratura".
Il numero dei morti sotto leva è mediamente di 200 ogni anno, ma i dati sono ambigui: ad esempio Il Tempo del 9 giugno '85 parla di 340 morti nel 1982 (di cui 31 suicidi), 339 nel 1983 (21 suicidi) e 155 nei primo trimestre '84 (14 suicidi), lo stesso giornale assicura l'ufficialità delle fonti. Il demo-proletario Ronchi, in un'interrogazione parlamentare del 17 giugno '85, parla di una cifra approssimata (per difetto) fra gli 8.000 e i 12.000 morti dalla fine della guerra ad oggi, e di almeno (dato minimale) 50.000 invalidi divisi in varie categorie di gravità.
Come reagisce il ministero della difesa di fronte a queste cifre? Prima di tutto negando l'attendibilità di questi dati (ovviamente), in secondo luogo asserendo che una buona percentuale di quei morti sono "non conteggiabili", in quanto non in servizio al momento del decesso. Lo stesso Il Tempo suffraga questa tesi, all'interno di un articolo di duro attacco alle tesi dell'Ana-Vafaf ("Livida requisitoria antimilitarista..."), asserendo che, per esempio, nell''82 su 340 militari morti, 184 erano fuori servizio.
"Ma bisogna vedere cosa significa fuori servizio! - salta su Bartocci - Bisogna vedere dove sono le cause e le responsabilità di queste morti, perché casi come quello di quel ragazzo, a Milano quest'inverno, venuto a casa in libera uscita e morto dopo un'ora che era arrivato, si verificano continuamente".
In ogni caso, sostiene il ministero della difesa, la media della mortalità militare è statisticamente equivalente alla media nazionale. "Sì, ma Spadolini si dimentica che la media nazionale è calcolata su tutta la popolazione da 0 a 90 anni, mentre la media militare riguarda ragazzi dai 18 ai 22 anni che passano almeno 2 visite mediche".
L'Ana-Vafaf ha curato la pubblicazione di un libro bianco in cui sono indicati i nomi di più di cento ragazzi morti in servizio militare nello spazio di 4 anni (tra le pubblicazioni da cui sono tratte le informazioni contenute nel libro vi è anche Senzapatria). Sono citati casi nei quali il "comune mal di testa" rilevato in ospedale militare era una meningite tubercolare, il "comune mal di pancia" una emorragia interna, una peritonite non era stata neppure intravista, certi disturbi psichici presi in considerazione soltanto al loro esplodere in atti di violenza contro la propria persona o l'altrui. ("Patologia del servizio di leva" del prof. Enzo Cataldi - in Il Mondo Giudiziario, 11-18-25 febbraio '85). L'articolo prosegue: "È recente la notizia della recluta di Bergamo che "impazzisce e uccide il suo ufficiale" (La Repubblica, 23 novembre '84) ed è una tragica sequenza snodatasi in poche settimane quella che ha registrato il soldato di Cremona che sequestra, armato di mitra, l'intero corpo di guardia, la recluta di Novara, che squarcia a coltellate il petto di un commilitone, il caporale di Merano che si uccide nella propria stanza, la recluta di Remanzaccio (UD) che fa la stessa cosa sparandosi col fucile".
Se la mancata o errata assistenza medica è una delle cause principali della mortalità militare (ricordiamo altri due casi, come quello della recluta di Cesano, che accusa nausea, viene trascurato, quindi portato in ospedale ormai agonizzante dove muore; o il marinaio di La Spezia curato con lassativi finché muore di polmonite tubercolare) non bisogna dimenticare i vari incidenti di caserma dovuti all'addestramento insufficiente o all'assoluta mancanza di misure di sicurezza "sul lavoro". Addestramenti di guida appena accennati producono continui incidenti che, per la loro frequenza e per il numero di persone ogni volta coinvolte, sono tra i più gravi casi di mortalità. Altri casi significativi sono poi quelli degli incidenti d'arma da fuoco: esempi di questi "fucilati per errore" ve ne sono a decine.
Ma là dove la responsabilità piena di queste morti da parte dell'apparato militare è particolarmente evidente, è nelle morti per "nonnismo". "Il nonnismo - dice Bartocci - è un vero e proprio comando parallelo a quello ufficiale, non viene mai contrastato perché fa comodo per controllare i soldati e per scaricare le tensioni". Tensioni dovute essenzialmente all'ambiente militare e, contestualmente, dalla forzata inattività a cui sono spesso costretti i militari. Il nonnismo è una pratica di costante umiliazione e violenza nei confronti delle reclute più giovani e sfocia spesso in episodi di vera e propria criminalità collettiva o individuale. Tristemente note sono le vicende della caserma Col di Lana o il caso dei cinque violentatori della caserma di Cremona, oppure il caso del marinaio violentato e poi gettato dalla finestra della camerata.
Mi viene in mente, a questo punto, la testimonianza di un genitore di un caduto, durante la conferenza organizzata dall'Ana-Vafaf a Milano, due settimane prima di questa intervista. Questo genitore faceva notare come il servizio militare, soprattutto se uno l'ha svolto molto tempo addietro, perde nel ricordo quella sua caratteristica essenziale di disprezzo della dignità e della vita umana; caratteristica di fronte alla quale ci si ritrova improvvisamente a scontrarsi quando si viene colpiti in prima persona da lutti di questo genere. E certamente non si capisce cos'altro potrebbe significare questa situazione "ad alto rischio" se non disprezzo della vita umana. L'assoluta precarietà del vivere (e le sue tragiche conseguenze) sono il prodotto, non necessario ma nemmeno casuale, di un'istituzione in cui gli uomini altro non sono che numeri, e rappresenta l'altra facciata, apparentemente contraddittoria, in realtà complementare, dell'efficientismo militarista. Anche questo, in fondo, fa parte della funzione pedagogica dell'esercito, di quest'assurdo tributo d'obbedienza, quasi una prova iniziatica, che rappresenta il servizio militare.
C'è di più, nel momento in cui consideriamo il servizio di leva stesso come formatore di patologie. "La scienza psichiatrica militare, ha da tempo indicate come concause psicogene di sindromi, a cominciar dalle schizofreniche, avvenimenti che non sempre hanno caratteristiche di eccezionalità e di intensità straordinarie. Sono proprio i normali fattori inerenti al servizio militare ad influire nel determinismo dell'infermità: il brusco cambiamento di abitudini, il severo regime disciplinare, le suggestioni dell'ambiente, l'allontanamento dall'ambiente familiare e la nostalgia per esso, costituiscono fattori favorevoli alla rivelazione di processi mentali che forse sarebbero stati altrimenti silenti" (Cirrincione e Moreno, Psichiatria Militare, 1961). Certo l'argomento è ambiguo, ma cosa dire di fronte alle più tragiche conseguenze di questi processi, i suicidi? Franco Ferrarotti, in un articolo su Il Tempo (settimanale ) del dicembre '76, non esitava a definirli "suicidi di stato", in quanto era riscontrabile, nella maggior parte dei casi conosciuti, come concausa scatenante dell'atto l'ambiente e il regolamento militare e la carica spersonalizzante che esprimono. Ecco che forse i silenzi, le ammissioni, la ridda contraddittoria delle versioni ufficiali - "il non sapere di cosa è morto il proprio congiunto è una costante", assicura Bartocci - hanno un senso che va al di là del "normale" far quadrato corporativo (come si fa ad ammettere che un alpino è morto congelato per aver fatto la guardia a -18°?).
Il fatto è che nel battere questi tasti, al di là delle intenzioni di chi lo fa ("noi non siamo antimilitaristi, siamo per la democrazia nell'esercito"), si va a toccare qualcosa di più che le disfunzioni delle forze armate: la stessa essenza negatrice della dignità umana dell'esercito, che quelle produce. Queste sono morti difficilmente strumentalizzabili con medaglie e lapidi, non sono morti per la difesa della patria o la conquista di una collinetta, ma per niente, per l'esistenza stessa dell'esercito. E questo è molto più difficile da giustificare, tanto che, per allontanare il più possibile questi cadaveri ingombranti dal semplice aggettivo "militare", si arriva al punto di negarne la pensione alle famiglie "salvo che non siano fatti talmente grossi e allora si spera, con 50 milioni, di mettere tutto a tacere".
Il colloquio con Bartocci poi continua toccando altri argomenti: i cappellani militari ("che sanno tutto e non dicono mai niente, è essere cristiani questo?"), la democrazia in caserma ("si è arrivati all'assurdo che un ammiraglio, direttore generale del personale, venga eletto a capo della rappresentanza sindacale dei soldati!"), l'antimilitarismo ("io non sono antimilitarista perché penso che un paese per restare libero debba potersi difendere, certo che in un momento in cui la guerra, se ci sarà, sarà nucleare, a cosa serve un esercito? Per difenderci da Gheddafi? Prima gli forniamo le armi e poi stiamo a vedere se le usa contro di noi?"), i partiti ("a nessuno interessa questa situazione. Io dopo 40 anni di militanza socialista, è questo che devo vedere del mio ex partito?"), le loro proposte (la carta dei diritti del soldato, l'assicurazione obbligatoria, la regionalizzazione), l'obiezione fiscale ("piuttosto che dare 10 lire alla difesa, le butto nel tombino"). E quando ci lasciamo mi ribadisce, con convinzione e commozione: "io, per mio figlio, voglio andare fino in fondo! Voglio sapere di cosa è morto e voglio che i responsabili paghino".