Rivista Anarchica Online
La lunga estate dell'anarchia
di Stefano Fabbri
C'è una cittadina del Sud in cui ancora oggi - nonostante ormai da tempo non esista più un'intensa
attività anarchica -la gente «conosce» gli anarchici, sa (più o meno) che cosa vogliano, quale ruolo
importante abbiano esercitato per decenni in quella zona. Parliamo di Canosa di Puglia, in provincia
di Bari. Dalle agitazioni proletarie del primo dopoguerra all'opposizione al fascismo, dalle occupazioni delle
terre agli scontri con le forze dell'ordine in questo secondo dopoguerra, dalle mille battaglie contro
l'invadente presenza clericale all'organizzazione sindacale del proletariato agricolo, gli anarchici sono
stati per decenni tra i protagonisti (spesso in primissima fila) delle lotte sociali e politiche a Canosa e
in molti centri agricoli dei dintorni. Non a caso, dunque, si è a volte parlato di Canosa come della
«Carrara del Sud». Come per la cittadina apuana, così per Canosa manca però, a tutt'oggi, uno studio organico ed
approfondito di questa grossa esperienza storica di segno libertario: uno studio che, tralasciando luoghi
comuni e mitizzazioni, sappia scavare nel passato alla ricerca delle ragioni per le quali in alcune zone
l'anarchismo è riuscito a trasformarsi da movimento prevalentemente ideologico in vero e proprio
movimento sociale, saldamente radicato nel tessuto cittadino. Solo una serie di studi, organicamente
portati avanti, potrà così aiutarci a capire anche le ragioni profonde che hanno portato alla progressiva
scomparsa di quell'anarchismo: non basta dire «ma i tempi sono cambiati», si tratta di conoscere e di
capire più in profondità, non tanto per recriminare sugli errori commessi (che certo non mancano mai),
quanto per contribuire anche con questo lavoro di dissezionamento della storia a delineare un nuovo
anarchismo, o meglio nuove concezioni e nuove strategie per far «attecchire» l'anarchismo nel sociale. E' con la coscienza di questo importante lavoro da stimolare e da compiere che pubblichiamo in queste
pagine l'intervista che Stefano Fabbri ha fatto a Sabino Minerva, un giovane che, dopo un breve
periodo di militanza a Canosa, qualche anno fa lasciò la sua cittadina rimanendo comunque legato
all'anarchismo canosino. Può sembrare curioso che a parlare del passato sia un giovane che quel
passato non ha vissuto e non uno degli anziani militanti, di quelli che hanno sofferto il confino, hanno
partecipato agli scioperi agrari, ecc .. Ma quest'intervista - che ha la sola pretesa di aprire un discorso
critico sul passato - non ha alcuna velleità di «ricostruire» la storia dell'anarchismo canosino: si limita
a registrare in che maniera questo passato sia stato «tramandato», grazie ai racconti dei vecchi, ad un
giovane. Più che alla completezza di un elenco di battaglie combattute, quest'intervista punta alla
riproposizione di quell'ambiente, di quel pathos, di quei problemi che hanno caratterizzato la lunga
estate dell'anarchismo canosino. Il testo dell'intervista (forzatamente riduttivo rispetto alle molte ore di dialogo tra Fabbri e Minerva)
è affiancato da una breve scheda di presentazione della situazione pugliese e da un'intervista a Cesare
Vurchio, anarchico canosino emigrato a Milano.
***
Oggi gran parte del Movimento Anarchico non conosce la storia di Canosa di Puglia. Eppure
questa località è stata per molti anni considerata la «Carrara del Sud» per la forte presenza
libertaria. Puoi tracciarne brevemente le linee? Conviene, per un discorso sintetico, considerare quest'esperienza dalla sua genesi. Ti premetto che non
sono in possesso di documenti storici e che il mio racconto sarà frutto di una «tradizione orale» appresa
negli anni di permanenza dalla viva voce dei compagni che vissero quanto ti dirò. Quindi non sarà
qualcosa da leggere con la «lente d'ingrandimento». Il movimento anarchico si andò costituendo nel primo dopoguerra attorno ad una figura che potremo
definire «carismatica», perché emerge prepotentemente nella realtà e per la sua capacità di radunare
intorno a sé persone e forze rivoluzionarie: Michele Damiani, morto nel 1977. Intorno al '20 lo
troviamo nella «Gioventù Socialista», quando entra in contatto casualmente con l'idea anarchica
attraverso un numero di «Umanità Nova» che un compagno tornato da fuori aveva portato. Con questa
lettura inizia a riscontrare un'identità di vedute tra le posizioni del giornale (allora quotidiano) e quelle
che lui andava assumendo: da qui la necessità di studiare, approfondire, saperne di più. Attorno a lui
si va costituendo un gruppo che assomma 40 persone, tutte provenienti dalla Federazione Giovanile
Socialista. Sono gli elementi, in maggioranza contadini, più politicizzati, e che più tardi saranno anche
i più preparati nelle lotte che seguiranno: da allora si iniziano a leggere e a discutere collettivamente
libri e scritti di propaganda tra i quali cito come esempio «Fra contadini» ed «Al caffè» di Malatesta. Comunque sia, essi non hanno, per una serie di ragioni storiche (la reazione degli agrari, la nascita
delle prima squadracce, che tra l'altro nel '24 uccisero il sindacalista Michele Speranza, l'avvento del
fascismo) la possibilità di organizzarsi alla luce del sole. Ma anche nel «periodo oscuro» continuano
gli incontri nei posti meno soggetti al controllo della polizia, spesso in aperta campagna. Si tenta
un'organizzazione nella clandestinità, attraverso il costituirsi di gruppi nelle varie categorie sociali
(muratori, contadini, artigiani): tali realtà esprimevano un loro rappresentante incaricato di portarne
le istanze nelle riunioni di intergruppi, questo per evitare infiltrazioni. E' sempre in questo periodo
quindi che si va consolidando la base culturale del movimento, che in seguito connoterà i suoi militanti
rispetto alla realtà locale ed alle altre forze politiche. Ma non si fa soltanto «propaganda orale», si
ricerca qualcosa di più: si prendono contatti con i paesi circostanti. E se da una parte è bene rilevare
che in paesi come Cerignola, che diede i natali a Di Vittorio (già scissionista dall'USI e passato dal
sindacalismo rivoluzionario alle fila del nascente Partito Comunista), vi furono ristrette possibilità di
svolgere propaganda, dall'altra troviamo ad esempio Minervino Murge ed Andria dove s'iniziano a
sviluppare contemporaneamente entità ad indirizzo libertario e dove gli anarchici otterranno poi un
largo seguito. Nel 1933 si tenta di organizzare nell'entroterra barese una grande manifestazione che, avendo come
parola d'ordine «Pane ai nostri bambini o la testa di Mussolini», prevede concentramenti nelle piazze
d'ogni paese. E' a questo punto che scatta l'arresto per le figure più rappresentative del movimento
anarchico di Canosa: questa località ebbe circa 20 confinati, la grande maggioranza dei quali furono
d'estrazione libertaria. Al confino questi compagni entrarono direttamente in contatto con le altre realtà
rivoluzionarie ed antifasciste italiane. Michele Damiani, a Ventotene, conobbe anche Sandro Pertini,
con il quale avrebbe intrattenuto poi, fino agli anni '70, un carteggio. Anche durante questo periodo
di segregazione continuano dunque le attività di studio unitamente alle lotte per migliori condizioni
per i deportati.
Quindi si desume che sotto il fascismo, a Canosa, l'influenza anarchica rimase pressoché intatta. Certamente, e quando v'era pericolo di retate si nascondevano materiali e libri nelle campagne
seppellendoli sotto terra per il terrore che tutti i fogli di propaganda, documenti, ecc., andassero in
mano ai nemici: per molti di loro avevano lo stesso valore del pane, era il pane dell'emancipazione.
Allo stesso tempo ogni spiraglio di libertà veniva sfruttato per diffondere l'idea e demistificare la
realtà ufficiale.
Quali erano i temi ed i toni della propaganda anarchica d'allora? I temi erano quelli di sempre ed attuali tutt'oggi: contro il potere, allora più manifestamente
violento e maggiormente personificato, contro lo sfruttamento sul lavoro, e in maniera
particolarmente salace contro l'istituzione religiosa. Ciò naturalmente si spiega sia col fatto che
questa polemica fu un cavallo di battaglia dell'anarchismo storico, sia considerando in particolare la
realtà del cattolicesimo meridionale, così retrivo da sfruttare il fondo di superstizione popolare per
costringere le masse all'ignoranza ed al regime di sfruttamento. Cattolicesimo alleato di fatto degli
interessi degli agrari, allora parte più retriva e reazionaria del padronato.
Cosa successe con la caduta del fascismo? Dopo la fine della guerra vi fu il ritorno delle persone dal fronte, una situazione profondamente
depressa dal punto di vista economico, esuberanza di manodopera, molta rabbia e qualche speranza.
In questa nuova realtà acquista incisività la forza degli anarchici: nei confronti della popolazione
agiscono come il lievito per il pane. S'iniziano occupazioni di terre in molte zone e la lotta per il lavoro: andavano tutti a lavorare,
volente o no il padrone, richiedendo alla sera la paga della giornata. In questo periodo si assiste
anche ad alcune fughe di agrari che abbandonano la proprietà. E' un momento fecondissimo dal punto di vista rivoluzionario: gli anarchici hanno la maggioranza
nella Camera del Lavoro sia a livello di «dirigenza» che a livello di base. Purtroppo però, fino al
'46, dovettero organizzarsi come gruppo specifico insieme ai socialisti, costretti a questa
collaborazione dal regime di occupazione anglo-americano.
Per quanti anni tennero la Camera del Lavoro? Per pochissimi anni. Questo non perché avessero perso la fiducia della base: si pensi che in quegli
anni a Canosa fra militanti e simpatizzanti il movimento contava migliaia di aderenti (su 30.000
abitanti). Il dato acquista una rilevanza sorprendente se si considera che la parte femminile
raramente si affacciava alla vita politica. Gli anarchici abbandonarono il sindacato perché si
trovarono nell'impossibilità di conciliare, dopo le prime brevi speranze, una attività specifica con
un'azione all'interno di questa struttura, già burocratizzata e lottizzata.
Quali spazi allora vennero occupati? Furono tentate varie strade: l'informazione attraverso i giornali murali, comizi, volantinaggi,
conferenze. A livello più concreto venne messo in piedi uno spaccio di consumo, il «Carlo Cafiero»
(1945/50), per abolire i passaggi di mediazione che gonfiavano e gonfiano il prezzo del prodotto.
Gli anarchici erano comunque sempre il motore degli scioperi di quegli anni, ed in più esercitavano
un forte controllo di base sulla distribuzione del lavoro che veniva dato con l'apertura dei cantieri»:
si riusciva così a dare un'occupazione a centinaia di persone. Ma l'iniziativa economica più
interessante per finanziare il movimento fu la coltivazione collettiva gratuita di un terreno fino al
1972. Se non sbaglio, erano due quote della cooperativa «Filippo Turati», che il Comune aveva
ripartito fra i contadini. Questi tentativi furono encomiabili, perché di difficilissima riuscita in una
situazione di mercato capitalista, nonostante gli spazi di libertà che storicamente si andavano
aprendo.
Ed i contatti ocn l'esterno? Voglio ricordare che nel '48 Canosa ospitò un Convegno Nazionale della Federazione Anarchica
Italiana. Fu un'ennesima occasione per conoscere altre realtà operanti e molti militanti conosciuti,
tra i quali Masini, Failla, Turroni, Marzocchi, La Torre. Fra questi, quello che più spesso fu a
Canosa fu proprio Pio Turroni, che già durante l'occupazione alleata aveva svolto una valida opera
di collegamento fra i gruppi anarchici meridionali. Si cercava di mandare compagni ai congressi ed
agli altri incontri, sopportandone il non leggero onere economico, quando già si aveva difficoltà a
reperire il pane per la famiglia. Già nel '44 delegati di Canosa erano andati al Convegno anarchico
di Napoli. Inoltre il paese ospitò, dalla fine del conflitto al '72, la sede della Federazione Anarchica
Pugliese (per dovere di cronaca si ricorda che dalla fine degli anni '50 in poi non tutti i gruppi di
Canosa aderirono alla FAP).
Che succede dopo? Dopo l'abbandono del sindacato vediamo che a mano a mano, come d'altronde in molte altre realtà,
le forze «storiche» della sinistra riescono a prendere il sopravvento all'interno dei ceti sfruttati. La
cosa da discutere maggiormente sarebbe dunque la giustezza o meno della scelta di abbandonare il
sindacato e di parteciparvi solo come semplici militanti. Nonostante ciò il movimento anarchico
mantenne una fortissima carica, i suoi comizi erano sempre più ascoltati: una grande realtà d'azione
e propaganda che incide numericamente nella partecipazione agli scioperi del 1962 /65 /67 /69,
durati spesso più di 10giorni e che videro scontri a volte anche gravi fra dimostranti e polizia. Ma
in questo periodo già si va notando una crescente difficoltà nel trovare strumenti idonei di
aggregazione delle masse rurali sui problemi concreti. Ciò è dovuto non soltanto a difficoltà
nell'estrinsecare le idee anarchiche, nel mutato contesto sociale, ma anche nel fatto che un
movimento forte in un'unica realtà sociale doveva operare contro tutto un flusso storico opposto. Canosa è, fra i paesi della zona, quello dove s'è mantenuta la presenza più alta: sebbene i militanti
veri e propri vanno diminuendo, tutto un mondo di persone che conducono un'esistenza ritirata
dall'impegno sociale conserva però un modo di pensare e considerare la realtà marcatamente
libertario. Diciamo che questa forma d'educazione ha lasciato la sua impronta anche su quelli che,
andando via o cambiando referente politico, hanno smesso di operare. Questa è una cosa che si
tocca con mano, si sente nell'aria: è raro incontrare paesi nel meridione ove sia così viva la
polemica pro o contro gli anarchici, e già questo è positivo. Per comprendere la realtà locale si deve considerare che nel 1965 fu quasi totale l'adesione dei
gruppi locali ai GIA (Gruppi di Iniziativa Anarchica) staccatisi dalla FAI, scissione di cui molti
compagni di Canosa furono in parte protagonisti. La frattura avvenne perché la maggioranza della
Federazione accettò un patto associativo nel quale essi vedevano un «tradimento» dell'autonomia
del singolo, pilastro del loro concetto dell'idea anarchica. L'organo di stampa a cui fecero
riferimento da allora fu «L'Internazionale». E' da questi anni che inizia l'allontanamento dalle realtà
giovanili, con tutto quello che di nuovo possono contenere. Il quadro che in breve ci si pone
davanti è questo: mancato ricambio, adesione alla tendenza più «tradizionalista», mutato contesto
sociale, isolamento, difficoltà nel coniugare un grandissimo ideale con una strategia che tenesse
conto della «piccola lotta politica quotidiana». Un abisso storico separa il presente dalla realtà del '20, del fascismo, del periodo post-bellico, in cui
la propaganda orale si svolgeva nei luoghi di lavoro tra una classe rurale quasi completamente
analfabeta. Tempi che non conoscevano i «mass-media», poca la gente in grado di leggere un
giornale, tempi nei quali ad una moltitudine di sfruttati si opponeva un'élite di possidenti. Grandi
masse umane si concentravano nei medesimi luoghi di fatica, ove nascevano i canti di lavoro (il
cosiddetto «folklore progressivo»). Gli anni '60, con l'ormai avvenuto intervento dei mezzi di
comunicazione di massa con le loro tecniche di persuasione mistificanti, sbarrano il passo alla
propaganda orale, comunicata di bocca in bocca, che traeva linfa dalle discussioni serali nella
piazza, nel Corso, mentre si cercava la giornata lavorativa per il domani con l'ansia di non trovarla,
in cui parole di liberazione brillavano come faville al buio, «comunicazione antagonista» che traeva
esempio dagli echi dei piccoli, quotidiani avvenimenti locali. L'oggi è diverso: diversificazione lavorativa e di reddito, frazionamento della proprietà,
rafforzamento delle classi intermedie. La miseria allora svolgeva un ruolo «ugualitario» che creava
omogeneità e coesione fra gli oppressi. Soltanto poveri e ricchi: poche le eccezioni. Lo spostarsi
stagionale di masse enormi nei vari paesi del foggiano in tempi legati ai cicli lavorativi del grano,
che affollavano le piazze delle varie località, la sera con enormi distese di corpi umani; la croce
d'olio sulla minestra fatta sempre più veloce: tutto questo oggi non esiste più. Alla miseria più nera
faceva riscontro una speranza più luminosa, più radicale, a tratti, forse, redentrice. Questo cambiamento di paesaggio situa, a mio parere, il luogo dove si pone l'ostacolo della
congiunzione fra idea e realizzazione. Perciò la vicenda di Canosa ha più valore sul piano storico e
degli insegnamenti ricavabili, che non come strumentalizzazione esemplificatrice dell'agire nel
presente.
Si trattava di un movimento che aveva travalicato i confini del paese estendendo la sua
influenza, come abbiamo visto, fino a Castelnuovo, S. Marco in Lamis, Molfetta, Bisceglie,
Minervino, Bari, Grottaglie, Altamura. Vorrei chiederti ancora qualcosa su questo panorama
d'intervento. Il movimento si diffuse e per propria iniziativa e perché spontaneamente erano sorte strutture
libertarie in altri paesi: per esempio ad Andria erano assai incisivi i Gruppi di Difesa Sindacale. E'
chiaro che i canosini, essendo i più forti, furono il motore della situazione: più disponibili a fare
volantinaggi, conferenze, contraddittori, dal Salento al basso Lazio. Sempre pronti ad intervenire il
1° Maggio con fogli e comizi «diversi», rivolti ad un vasto auditorio, per infrangere la «pace
sociale»: per loro non fu mai una «festa» istituzionale, ma un'ennesima giornata di lotta e di
confronto/scontro con le istanze riformiste, in cui si ribadiva che «altra» era la via
dell'emancipazione. Molte volte distribuivano all'esterno opuscoli, fra i più il «Testamento di Garibaldi»,
paradossalmente causa di noie con la «giustizia». Molti subirono persecuzioni sia per le azioni che
per la propaganda e bisogna pensare quanto fosse difficile in quegli anni esprimere posizioni
conflittuali, anche dal solo punto di vista ideologico. Numerosissimi gli alibi della repressione:
spesso venivano invocati gli articoli riguardanti il vilipendio alla religione, allo stato, alle forze
armate.
Passiamo ora all'annosa questione dei rapporti con il resto della sinistra. La situazione post-guerra richiedeva nei momenti di lotta, a causa della sua gravità, «l'unità» delle
sinistre. Gli anarchici sempre seppero distinguere fra «base» e vertice e con la prima sentirono e
sentono prima di tutto l'uguaglianza in quanto lavoratori. Ma tutto ciò non li ha mai distolti dal
marcare una forte autonomia sul piano ideologico, spesso a costo di aspre polemiche. Resta
scontato che non ci fu e non c'è una visione monolitica a questo riguardo. Molto spesso ci sono
state lacerazioni provocate più da discorsi personalistici, che di fatto hanno creato una
polverizzazione delle forze in campo, che non da divergenze ideologiche di fondo e questo è
sicuramente cosa da biasimare. In ogni caso, nonostante il loro atteggiamento, hanno comunque
subito dall'esterno una serie di attacchi, anche questi di carattere personalistico, la qual cosa si
inquadra benissimo nella logica della «guerra fra poveri» fomentata volentieri da quelle forze che
invece di perseguire realmente una logica di cambiamento sociale si accontentano, anche a livello
locale, di cercare essenzialmente di rimanere egemoni e padroni del campo.
Come si comportarono quei compagni verso le istituzioni quando queste gli offrirono
onoreficienze per il loro impegno antifascista? Nonostante potessero essere fonte di prestigio, molti lo rifiutarono, come atto di estrema coerenza
verso il proprio ideale.
Puoi dirmi qualcosa sull'emigrazione: che effetti ha avuto a Canosa? E' un fenomeno che ha inciso in maniera profondissima nel meridione e Canosa non vi sfugge.
L'emigrazione nel dopo-guerra non è più rivolta soltanto verso l'America, ma si canalizza
maggiormente, negli anni '50, verso le realtà industriali del Nord, la Svizzera, la Francia, la
Germania: anno nero per l'emigrazione fu il '56 a causa delle abbondanti nevicate. Non vi fu
emigrazione verso gli stabilimenti di Taranto perché assorbirono la disoccupazione fortissima della
zona di Taranto stessa ed in parte della Basilicata e della Calabria. Questa «diaspora» ha portato ad
una dispersione del proletariato canosino nelle realtà più disparate: alcuni sono tornati, altri hanno
continuato a mantenere agganci con il paese, seppur tenui. Gli anarchici hanno conservato il legame con l'idea mandando contributi alla stampa e aderendo ai
circoli libertari italiani all'estero. L'emigrazione ha svolto il ruolo che la valvola ha nella pentola a
pressione e d'altro canto ha privato il movimento, materialmente, dei suoi agenti di trasformazione.
A migliaia se ne sono andati, nel corso degli anni, e la generazione nata fuori spesso non ha più
rapporti con la realtà d'origine.
Puoi dire ora del tuo impatto, come giovane, con questa realtà? La storia è abbastanza semplice: sono arrivato nell'ottobre del '78 per via di un'eredità che
comportava una piccola azienda agricola, e quindi paradossalmente il contatto con gli anarchici è
nato quando io ero datore di lavoro, fatto piuttosto insolito. Come estrazione famigliare provengo
dalla borghesia rurale, quindi puoi benissimo capire cosa in molta gente del paese questo incontro
abbia suscitato ed è spiegabilissima una certa diffidenza, se tu pensi che il movimento qui è stato
quasi esclusivamente contadino e non ha conosciuto agganci con una realtà culturale che potesse
fungere da raccordo fra le esigenze espresse nel sociale ed una conquista di terreno delle idee
libertarie nel mondo della cultura. Per me è stata soprattutto una possibilità di approccio con la storia, quella non mediata dai libri, che
spesso prediligono l'avvenimento eccezionale all'indagine della quotidianità, indispensabile per
«comprendere» determinate realtà. La possibilità di ascoltare è stata un dono: sentire le voci dei
«protagonisti collettivi» è stato qualcosa che mi ha segnato ed attratto al di là delle mie rimostranze
critiche. Contemporaneamente ho incontrato anche una certa realtà giovanile del paese, quando con altri si
formò, nello stesso periodo, un piccolo collettivo, non specificatamente anarchico, che se da una
parte ha avuto scarsissimo valore politico, dall'altra ha fortemente inciso su alcuni di noi,
sicuramente su di me. Ognuno d'altronde potrebbe raccontarti la propria storia in maniera diversa
ma penso che per tutti sia stato un momento di formazione e, perché no, anche di felicità,
d'esperienze e sensazioni nuove. Va da sé che non sempre ho vissuto armonicamente questo essere
partecipe di una «duplice cultura». Oggi sono rimasto con molti compagni in ottimi rapporti
personali ed anche se non milito più in alcuna organizzazione, vedo sempre, anche a distanza di
anni, quest'incontro come valido e tutt'ora fecondo, perché ha segnato la mia evoluzione personale
e culturale anche in relazione ad altre tematiche.
Te la sentiresti ora di dare un taglio «antropologico» a queste considerazioni? In questo movimento d'emancipazione avviene una sorta di saldatura fra «l'idea» ed il mondo
tradizionale contadino: sincretismo non sempre lineare e indolore, perché la presa di coscienza
politica esprime valori di rottura rispetto alla «Weltanschauung» dell'antico mondo rurale che,
accanto alla concezione fatalista e ciclica conosce soltanto rivolte violente e improvvise simili a
bufere che possono distruggere, ma nulla mutano. L'emancipazionismo rurale può accettare
ideologicamente la «contestazione globale», ma non è toccato internamente perché la sente estranea
alla sua «esistenzialità quotidiana». Il suo strumento di diffusione è la «propaganda orale»: si pensi
alla comunicazione del progetto rivoluzionario avvenuto nell'800 nel meridione spagnolo per
averne un'immagine. Ma questa rottura non è netta, violenta, cristallina; segue un percorso tortuoso,
mai completamente conchiuso. Il luogo maggiore della frattura è il processo di acculturizzazione
che vede il passaggio dalla concezione magica-protezionista familista all'autodifesa politica
collettiva. L'interazione che occorre fra le due è la stessa che avviene fra magia e religione, ove con
la nascita della seconda non si ha la morte della prima «tout court». A Canosa la nascita della «coscienza» fa sentire i militanti persone e non più cose da comprare per
poco al mercato delle braccia, con il dovere di diffondere questa verità. L'abito dell'anarchismo
locale usa la stessa stoffa che veste il contadino, seppur con finalità diverse: l'opuscolo «Fra
contadini» è in questo caso assai indicativo. Se viene frantumata la concezione magica, non così
quella «profana rurale».
Un esempio di ciò si potrebbe ricavare dalla partecipazione quasi esclusivamente maschile al
movimento a Canosa. Nella stessa chiave potresti tracciare le «linee di demarcazione» fra
mondo maschile e mondo femminile? Se il luogo del «femminile» era la casa, lo spazio interno, quello del «maschile» era ed è il lavoro,
lo spazio esterno. Nel sociale, rifugio della donna spesso diveniva automaticamente la Chiesa, che
si poneva come momento di aggregazione sociale. Anche con ciò, forse, si può spiegare
l'atteggiamento più conservatore, non solo a livello politico, seguito dalle donne. Si potrebbe fare
un tentativo di lettura parziale (perché una molteplicità di fattori concorrono nel fenomeno) che usi
come strumento d'analisi la divisione del lavoro, che da una parte aveva la possibilità di essere
socializzato e di mettere in contatto realtà diverse, mentre dall'altra questa socializzazione non
avveniva. Ed il «referente» principale per le donne erano i parenti e le vicine di casa. Come
esempio, basti pensare a ciò che avveniva tra marito e moglie allorché l'uno non voleva battezzare
il figlio e l'altra sì e spesso lo faceva di nascosto. Ciò fa comprendere quanto i due mondi fossero
separati, quasi che anche vivendo nello stesso luogo vi fosse una distinzione di ruoli così forte da
lasciare raramente spazio alla possibilità di condividere la stessa esperienza nelle stesse modalità. E
se oggi questo si va attenuando, perché nemmeno un paese meridionale sfugge naturalmente alla
dinamica degli avvenimenti, in passato era validissimo. Quindi molti «istituti culturali tradizionali»
non venivano toccati dal «vento nuovo», che però quella volta non arrivava dal nord. Oggi anche
Canosa vive lo «smarrimento collettivo dell'identità perduta» che pervade l'intero meridione.
Quale è la differenza fra gli anarchici ed i figli? Perché il «vento del '68» non toccò i giovani
di Canosa? Il padre è rimasto sempre il padre: nella sfera privata non è avvenuto quello smussarsi dei ruoli o
quando è avvenuto non è stato così significativo. Forse i figli hanno visto nei padri, figure a volte
molto belle e precise, essenzialmente qualcosa di «datato, ideologico, morale». Un'altra
spiegazione, più fondata, va cercata nel cambiamento di scenario che ha costretto i giovani a subire
una progressiva spoliticizzazione. D'altra parte il '68 ha toccato molto di più le realtà industriali ed i grossi agglomerati urbani:
persino a Bari la contestazione non fu così forte come in altri luoghi.
Puglia / Emigrazione, lotte, repressione
La retorica fascista così «cantava» la terra pugliese: terra dominata dall'olivo dove gli uomini
portano scolpito sulla fronte il segno del sole. Più realisticamente si poteva descriverla come la
terra del latifondo, dove il corpo è scolpito dalla fatica. Questa regione emerge dal fondo
meridionale, insieme alla Sicilia, perché fìn dai primi del '900 partorisce forti organizzazioni
sindacali che sanno andare oltre «l'assalto ai forni e al Municipio». Le due provincie dove ciò
sarà più marcato sono il foggiano ed il barese. Storiche le lotte del 1905/8 che videro in molti
paesi portare la giornata di lavoro a 6 ore, orario che è inferiore a quello nazionale ancor oggi
previsto per i lavoratori agricoli (conquista tutelata dai contratti integrativi provinciali). Il
fascismo con la sua reazione agraria anticipata (6 morti a Gioia del Colle) spezza violentemente
le prime organizzazioni. Durante il ventennio il bracciante che denunciava il padrone per il
mancato ingaggio veniva multato nella stessa misura del primo. La situazione nel dopoguerra è, in queste zone, incandescente: mercato delle braccia, caporali più
arroganti degli stessi padroni, disoccupazione endemica, fame di terra, paghe bassissime, forte
analfabetismo, paesi con altissima densità di popolazione. La prima lotta è quella per il lavoro, si
fanno «scioperi alla rovescia» costringendo i padroni a pagare le giornate. I livelli di scontro
sono altissimi. Brutale è la repressione dell'esercito e della polizia. Nel '45 Minervino insorge per
più di 10 giorni, nel '46 ad Andria intervengono addirittura i carri armati che lasciano 4 morti
sulla piazza, moti che videro una forte partecipazione degli anarchici. Il potere cerca di porre
sotto controllo la situazione, ma è chiaro che la repressione non basta. Sono strutturalmente economici i motivi delle proteste, si aprono «cantieri di lavoro» con lo
scopo di lenire la disoccupazione e sempre per lo stesso motivo, con decreto prefettizio del '47
s'impone obbligatoriamente alle aziende agricole di assumere manodopera in relazione alla
quantità di terreni ed alla coltivazione ivi praticata. Nel referendum fra monarchia e repubblica la
Puglia si situa al penultimo posto per le preferenze accordate alla seconda. Alla fine degli anni
'40 si fanno sempre più dure le lotte per l'occupazione di terre. La riforma agraria che seguirà non
soddisfa né la fame di terra, né muta la coscienza politica dei contadini. Fu un fallimento anche in
virtù della marginalità degli ettari espropriati. Dal 1951 al 1971 la Puglia perde più di 350 mila unità, falcidiate dall'emigrazione. Nel 1962
viene dichiarato anticostituzionale l'ingaggio presunto. I braccianti sono divisi per categoria a
seconda delle giornate effettuate tramite collocamento. Ogni categoria ha una diversità di
trattamento sia per la parte economica (sussidio) che per quella riguardante l'assistenza sanitaria.
Per impedire la nuova esplosione il governo blocca gli elenchi anagrafici. Blocco tuttora in
vigore. In parole povere chi è già inserito nell'elenco per aver fatto già più di 51 giornate non ha
bisogno di rifarle tramite collocamento per gli anni che seguono. Gli anni '60 vedono il rinascere
di un forte movimento sindacale, nel '62 avviene il primo grande sciopero che dura circa 3 giorni:
ne parleranno gli organi d'informazione a carattere nazionale. Ancora nel '65 le pensioni non
superano le ventimila lire, la giornata le 200 lire. In questi anni, accanto alla vecchia guardia
contadina, si rafforza il proletariato industriale sulla costa adriatica e nel concentramento
siderurgico tarantino, rompendo l'omogeneità della classe subalterna pugliese. Si consolida il
ceto medio, declina fortemente il numero in percentuale degli addetti in agricoltura. Inizia a
deperire la figura del bracciante puro. Proprio ora che ne viene riconosciuto il valore di
protagonista politico nelle lotte per l'emancipazione, pagato con morti, condanne, persecuzione.
Sabino Minerva / Stefano Fabbri
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Ma la donna a Canosa dov'è?
Quest'intervista sul movimento anarchico a Canosa rispecchia nell'insieme la realtà. Su
alcune valutazioni, però, non sono d'accordo. Cesare Vurchio, 52 anni, la realtà di Canosa la
conosce bene: vi è nato, rimanendovi fino all'età di 16 anni. Poi via, come tanti altri, a lavorare al
Nord: anni di lavoro duro, dodici/tredici ore al giorno, lavoro nero, niente libri né sabati né
domeniche. Poi, nel '65, la conoscenza con gli anarchici milanesi che da qualche mese hanno aperto
una sede anarchica in città: il circolo «Sacco e Vanzetti». Tra gli altri c'è Pinelli, di cui diventa
l'amico più stretto. Cesare inizia a fare militanza e naturalmente, al successivo rientro a Canosa,
contatta i compagni del posto: scopre così che anche alcuni dei suoi amici d'infanzia sono
anarchici. La sua vita è a Milano, qui ha lavoro, famiglia, attività militante. Ma ogni estate torna come tanti emigrati - in paese ed i legami con i compagni canosini si rinsaldano. Prima di
pubblicare quest'intervista sulla «sua» Canosa, gliel'abbiamo proposta in lettura ed ora siamo qui a
parlarne. Uno dei punti centrali dell'intervista a Sabino Minerva è la crisi dell'anarchismo canosino, o meglio
la ricerca dei suoi perché. Cesare sottolinea l'importanza decisiva di due fattori: la forte
emigrazione ed il diffuso analfabetismo (ancora oggi - precisa - ci sono molti che non sanno né
leggere né scrivere, o sanno solo o leggere o scrivere). Per quanto riguarda l'emigrazione, cita
solo un dato, estremamente significativo: la popolazione canosina era di 35.000 unità intorno al '50;
trent'anni dopo era calata a 22.000 unità. Un 30% secco in meno. Non c'è stata solo un'emorragia
di militanti - sottolinea Cesare -, si può dire che sono venute a mancare almeno due
generazioni, per cui non è stato possibile alcun ricambio. Nel nostro movimento erano rimaste
solo le vecchie generazioni, che grazie a dure lotte avevano ottenuto un relativo benessere
economico. Sono pochi quelli che oggi non hanno almeno un pezzettino di terra di loro
proprietà. Ed anche il lavoro nero, che pure è una realtà, si configura oggi spesso come
secondo lavoro. Questo miglioramento della condizione sociale, realizzato evidentemente non
in un contesto rivoluzionario, è stato sufficiente a frenare la spinta emancipatrice e, in
assenza di nuove spinte generazionali, il movimento ha dovuto segnare il passo.
Probabilmente ciò non sarebbe avvenuto se il contesto generale del movimento (e, più in
generale, della società) non fosse caratterizzato dal semi-analfabetismo. Eppure il movimento anarchico, nel secondo dopoguerra, a Canosa raccoglieva adesioni di massa.
Gli anarchici erano molto attivi in molti campi - dice Cesare - per esempio, ad organizzare i
braccianti, a portarli nelle campagne ed a pretendere che «la giornata» fosse pagata
comunque, erano proprio gli anarchici. Per questo erano amati e seguiti dalla gente, e al
contempo temuti dai latifondisti e dai loro alleati. Molti vedevano negli anarchici quelli che
potevano «garantire» qualcosa. Michele Damiani mi raccontava che spesso si trovò nella
necessità di spiegare alla gente che l'anarchismo non era un movimento che dava, ma
piuttosto che insegnava a prendere: il che portò molti ad allontanarsene. Era quella l'epoca in cui Damiani era capo della Camera del Lavoro e l'influenza degli anarchici sul
terreno sindacale era poderosa a Canosa. Certo, era così. Ma è anche vero che con il passare del
tempo si rafforzavano le correnti partitiche nel movimento sindacale e si restringevano
sempre più gli spazi per un'attività sindacale di segno libertario, slegata dai partiti e dai loro
giochi. Cosciente di questo, Damiani lasciò quell'incarico alla Camera del Lavoro, anche se
per lungo tempo la sua influenza personale (e tramite lui, dei gruppi anarchici) nelle lotte
contadine rimase notevole. Sull'importanza del ruolo esercitato da Damiani nel movimento anarchico canosino Cesare non ha
dubbi. Uomo d'azione deciso, oratore vivacissimo, sempre disponibile a spostarsi dove lo
richiedevano le esigenze della lotta e della propaganda, Damiani ha saputo dare un impulso
eccezionale al movimento anarchico e, in generale, alla conflittualità sociale. Inevitabilmente il discorso cade anche sul temperamento polemico di Damiani, sull'aggressività
con la quale spesso affrontava le discussioni anche dentro il movimento anarchico. Cesare
sottolinea che il gusto della discussione, della polemica, del dibattito anche accesissimo, che era
una delle caratteristiche di Damiani, è ancor oggi una caratteristica della gente di Canosa - forse
retaggio degli antichi modelli culturali della vita contadina. Alla sera il corso si riempie ogni giorno di gente, di giovani, e si parla, si discute anche fino a
tardi. La polemica, da noi, è un fatto di costume. Nei paesi come Canosa, differentemente da
quanto avviene nelle metropoli tipo Milano, l'uomo è innanzitutto ciò che fa, non quello che
dice di essere o di volere: la dimensione personale è ancora importantissima. E questa è una
delle ragioni per cui spesso dalla polemica politica si passa al personalismo. Questa
degenerazione del dibattito è naturalmente un fatto negativo, a monte del quale sta spesso
l'incapacità di portare avanti il dibattito nei suoi termini politici, ideologici. Ma, pur
rifiutando l'esasperazione personalistica, è necessario comprendere questa dimensione
personale, così lontana dal modo di vita metropolitano. Aldilà di questo tipo di polemiche, Cesare osserva che i rapporti tra gli anarchici e le altre forze di
sinistra (la base, naturalmente, non i vertici) sono sostanzialmente buoni: rapporti di buon
vicinato, testimoniati anche dal fatto che, essendo vicine le sedi, spesso alcuni compagni si
ritrovano alla sera davanti alla sede socialista, a discutere. Sul superamento della propaganda orale, accennato da Sabino Minerva nell'intervista, Cesare non è
d'accordo: l'impatto dei mass-media non gli pare aver determinato delle modificazioni cosi radicali
nei costumi della gente: delle donne certo sì - precisa Cesare - ed anche nei giovanissimi, ma gli
uomini dedicano alla TV pochissimo tempo: cenano molto tardi, poi subito vanno a letto
perché all'indomani mattina ci si deve levare presto per andare a lavorare nei campi. Lo
spazio per una propaganda orale c'è ancora, quella che manca è una strategia politica per
l'intervento quotidiano. Cesare ci tiene poi a precisare che, a suo avviso, l'adesione degli anarchici canosini (in gran parte)
ai Gruppi di Iniziativa Anarchica, cioè al filone per cosi dire più «tradizionalista» dell'anarchismo,
non ha di per sé condizionato negativamente l'anarchismo a Canosa. Essa è stata la conseguenza
delle scelte - più o meno «obbligate» - fatte dagli anarchici di Canosa in questo depoguerra. Altrove
vanno ricercati i limiti ed i problemi che tanto pesantemente hanno condizionato l'anarchismo
canosino, riducendone progressivamente le dimensioni come movimento e l'influenza sociale. Un punto dell'intervista con il quale Cesare è sostanzialmente daccordo - e in merito al quale
aggiunge nuovi elementi - è quello del profondo stacco tra il pubblico ed il privato nella vita degli
anarchici canosini. E cita, per esempio, da una parte l'importanza che ha sempre rivestito la
battaglia antireligiosa ed anticlericale (con episodi clamorosi di denunce e processi per vilipendio
alla religione, divieti di parola, piazze «riconsacrate» dopo le presunte «blasfemità» pronunciate da
Damiani in comizi infuocati), mentre d'altra parte nelle loro famiglie non dico questa battaglia, ma
nemmeno questa tematica è stata affrontata. Il fatto - sottolinea Cesare - è che in famiglia non c'è
mai stato dialogo. E così capitava che appena entrati nelle loro case si ritrovavano un bel
crocefisso bene in vista. E' questo del «privato» uno dei discorsi più importanti, ma anche dei più difficili. Si intreccia con
quello sul ruolo (pubblicamente quasi inesistente, anche tra gli anarchici) della donna. In pratica -
dice Cesare - hanno continuato a convivere due culture: quella patriarcale contadina e quella
libertaria: la prima predominante nel privato, la seconda nel pubblico. Ma questo, a ben vedere, non succede solo a Canosa.
Paolo Finzi
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