Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 115
dicembre 1983 - gennaio 1984


Rivista Anarchica Online

Anche i morti votano
di Fernando Ainsa

Appunti di viaggio a Buenos Aires

Nelle elezioni di molti paesi dell'America latina non è strano che i morti votino. Le liste elettorali non aggiornate e le schede di elettori morti fanno parte dei mezzi che molti candidati utilizzano per salire al potere. Strano nelle elezioni in Argentina non è il fatto che i morti votino, bensì che i morti siano votati.
Nessuno avrebbe potuto immaginare questa campagna elettorale, basata su slogan come «Peron vive» e «Evita è sempre viva», slogan che sono stati dipinti sui muri della città con grossi tratti di catrame ed urlati da moltitudini che agitavano le immagini sorridenti di due spettri: uno morto circa nove anni fa e l'altra trasformata in un mito da quasi trenta. «I morti continuano a comandare» potrebbero commentare coloro che osservano le masse per le strade, masse che accompagnano il grido «Peron, Peron, Peron» al ritmo di «bombos» sbattuti con energia e cantano con entusiasmo l'inno peronista.
Fino alla vigilia delle elezioni il processo sembrava irreversibile: dopo sette anni di dittatura militare, terrorismo, sparizioni ed esecuzioni ad opera di generali messianici e paranoici, il peronismo sembrava destinato a conquistare il potere per la terza volta. Cacciato nel 1955 con un colpo di stato sanguinario, tornato al potere nel 1973 per essere nuovamente cacciato nel 1976, tutto sembrava indicare che «il peronismo senza Peron» sarebbe stato il vincitore delle elezioni del 30 ottobre. In effetti, dai sondaggi di opinione fatti, tenendo d'occhio il fronte sindacale, osservando le manifestazioni per le strade, tutti gli indicatori erano favorevoli al peronismo.
Senza dubbio, partendo dallo svantaggio di essere un partito che ha smesso di essere popolare da molti anni - il Partito Radicale - e di avere come candidato un personaggio conosciuto da pochi - Raul Alfonsin - la alternativa al partito giustizialista si andò affermando, prima come una sfida ed alla fine attraverso una vittoria che non ha lasciato dubbi: quasi due milioni di voti di differenza a suo favore su un totale di 17 milioni di votanti.
Cosa è successo in Argentina dove il passato sembrava avere tanto peso? In che cosa consiste il cambiamento, se ci sarà, in un paese che appena due mesi prima si presentava «finanziariamente insolvibile», che decideva la sospensione delle retribuzioni da parte dello Stato e viveva al ritmo pazzesco di un'inflazione del 30% ... mensile? Nei giorni precedenti le elezioni ho potuto raccogliere personalmente a Buenos Aires alcune impressioni che ci aiutano a capire ciò che sta succedendo e aprono una parentesi interessante per il futuro.
Immediatamente ho potuto percepire il ripudio unanime delle dittature: tutti concordano nel dire che il periodo che va dal golpe del 1976 al dopoguerra delle Malvine è uno dei più sinistri ed oscuri della storia argentina, con la sua sequela di morti, di scomparsi e successivi scandali finanziari di una classe militare che ha usato ed abusato il potere. Nella stampa, che si è liberalizzata negli ultimi mesi, si possono già leggere le denunce di questi scandali e delle loro ramificazioni internazionali: dalla loggia P2 alla mafia, passando attraverso la fortuna rapidamente accumulata in questi «torbidi» affari.
Questo rifiuto totale di un periodo, nel quale vi è stato anche l'inganno collettivo di un popolo che si è mobilitato a favore di una guerra «patriottica» strepitosamente persa (come appunto la battaglia delle Malvine) non ha significato un'automatica rivalutazione del periodo precedente, con il governo di Maria Estela Martinez de Peron dal 1974 al 1976. Se si rifiutava la dittatura militare, un simile rifiuto appariva evidente anche per il disordine, lo sfascio e i non meno gravi scandali finanziari dell'ultimo governo peronista, specialmente quando il «clan» di Lopez Rega era il più influente.
La connessione fra questi due periodi era evidente per molti. L'eccesso degli uni provocò la reazione senza misura degli altri, ma nell'essenza tutti e due furono corrotti e permisero al potere di accumulare fortuna. Sul piano economico uno fu la continuazione dell'altro, relegando in secondo piano le differenze politiche, anche se in esse si includono migliaia di morti e di scomparsi.
Votare per il peronismo per la terza volta, ai limiti dell'anacronismo, era votare per il passato e sotto il simbolo dei morti, presupponeva nuovamente l'apertura delle porte ad una delle dirette cause del golpe del 1976. Per rompere il circolo infernale di governi civili che conducono inevitabilmente a dittature militari, niente di meglio che provare qualcosa di nuovo, anche se il nuovo è situato in un vecchio partito i cui anni di gloria sembrano essere terminati verso gli anni '30.
Inoltre la formula non sembrava molto convincente. Il candidato alla presidenza per il partito Justicialista era un professore ed avvocato di 60 anni, Italo Luder, eletto attraverso laboriose trattative fra le diverse correnti peroniste, senza alcun carisma popolare e che, soprattutto, si presentava fiancheggiato dai più discutibili rappresentanti del peronismo: personaggi come Lorenzo Miguel, Herminio Iglesias e Deolindo Bittel. Basta guardarli con le loro larghe basette «mafiose», le loro cicatrici risultato di lotte a coltello e la loro aria di padroni di case da gioco, postriboli e reti di allibratori clandestini nelle gare di cavalli e del totocalcio - dicevano gli osservatori più imparziali - basta vederli per rendersi conto che se saranno eletti il «casino» continuerà ad essere all'ordine del giorno.
Una certa stanchezza per quella che è stata la ruota ciclica della storia argentina degli ultimi 40 anni era percettibile. Dobbiamo uscire da questo circolo, dicevano altri. Da qui la polarizzazione finale dell'elettorato: più del 92% dei voti è stato accaparrato dai due candidati, Alfonsin e Luder, il restante 8% si è distribuito in mille rivoli dall'estrema destra (principalmente con Alvaro Alsogaray) ad una sinistra divisa ancora una volta fra correnti e sottocorrenti (sei candidati alla presidenza). Così anche la classica divisione di stampo europeo fra destra e sinistra non può aiutare a spiegare il fenomeno di queste elezioni in Argentina.
Il peronismo è stato votato da operai sindacalizzati delle due grandi confederazioni sindacali recentemente unificatesi per presentare un unico fronte elettorale, però con serie ferite che l'attuale sconfitta riaprirà con certezza. Però essere un operaio sindacalizzato è già un privilegio in un paese con quattro milioni di disoccupati, una popolazione rurale che vive nella povertà e molti lavoratori che non possono avere un sindacato e devono accontentarsi di una misera retribuzione alla fine del mese. L'operaio peronista tutelato dal sindacato appartiene ad una casta economica quasi privilegiata: gli altri lavoratori e impiegati formano una massa cui manca questa forza. Non è strano che fra quest'ultimi molti abbiano deciso di votare per Raul Alfonsin, un candidato che incarna anche fisicamente il prototipo dell'argentino della classe media, capace di utilizzare un linguaggio comprensibile anche ai settori popolari. Alla sua calvizie, alle sue guance alla «gaucho», al ventre prominente tipico dell'uomo sedentario al quale piace il buon cibo e il bere, Alfonsin aggiunge l'immagine di «uomo onesto ma deciso» in grado di mettere un poco di ordine nell'attuale situazione, garantendo allo stesso tempo le libertà fino ad oggi negate. Che chiedere di più in un momento come questo, quando si sta appena emergendo dal tunnel oscuro nel quale il paese è stato per più di sette anni?
Persino alcuni operai e impiegati stanchi della prepotenza sindacale peronista ed ai margini del sindacato, capaci di esercitare una forte pressione sul governo, hanno votato Alfonsin più che Partito Radicale (distinzione molto importante per capire ciò che succederà in Argentina nei prossimi mesi). Lo hanno votato anche professori universitari, professionisti e coloro che in senso lato si possono definire «intellettuali». Se nel 1983 ha votato in massa Raul Alfonsin, non possiamo dimenticarci che questa classe è stata un valido supporto all'elezione del peronismo nel 1973, specialmente nel periodo di Campora, che aprì le porte al ritorno dalla Spagna di Juan Domingo Peron. Anche se le indicazioni di partiti come il socialista, il comunista ed anche il democratico-cristiano erano quelle di ripetere nel 1983 il voto per il peronismo, erano notorie le fughe verso il Partito Radicale e la mancanza di entusiasmo in questi partiti.
Il partito comunista, che si era sbagliato nella sua interpretazione del peronismo dal 1946 al 1955, assimilandolo senza sfumature al fascismo europeo, aveva modificato la sua posizione dal 1973. Per questo motivo ora lo si poteva veder appoggiare negli atti Italo Luder, nonostante il linguaggio di uomini come Lorenzo Miguel fosse di un anticomunismo viscerale.
Secondo uno schema politico di tipo europeo si poteva individuare uno spettro politico che andava dall'estrema sinistra alla destra classica, spettro che si poteva notare dietro la formula di ogni candidato. L'unica profonda divisione che li separava e li separa si può comprendere solo se si analizza la recente storia politica in Argentina.
Oltretutto vi erano i giovani. In queste elezioni, la cui partecipazione di massa non è spiegabile se si considera solo il fattore dell'obbligatorietà del voto, quasi un terzo del totale. Le loro opinioni, anche se non erano facilmente prevedibili, erano più disponibili ad una promessa futura che ad uno sguardo nostalgico al passato, passato del quale hanno sentito parlare solo da terze persone. Se il peronismo è stato più uno «stato d'animo» che un'ideologia, difficilmente questo stato d'animo poteva diventare ereditario, specialmente negli ultimi mesi quando le denunce di un accordo tra peronisti e militari «uscenti» erano diventate qualcosa di più che una semplice affermazione elettorale.
Il giovane argentino vorrebbe un taglio netto tra la realtà attuale e quella futura. Accordi per non revisionare drasticamente quello che è successo durante la repressione, la auto-amnistia decretata dai militari per assolversi dalle loro colpe, i contatti tra i dirigenti sindacali e i rappresentanti della dittatura militare, apparivano poco limpidi. Raul Alfonsin, apparendo in questi punti molto chiaro e avendo denunciato più volte sia la repressione che gli accordi fra sindacati e militari, ha dato certamente un'immagine più seduttrice.
Ad ogni modo gli osservatori più razionali non si fanno molte illusioni, anche se l'Argentina sembra vivere in un clima di euforia. La conquista della libertà è già qualcosa che tutti, peronisti e radicali, sembrano voler conservare anche di fronte a future e quasi prevedibili «avventure» militari. Per queste ragioni si desidera garantire una libertà democratica essenziale, il cui godimento comincia a dar luogo ad una certa allegria infantile.
E' curioso, nel paese delle migliaia di desaparecidos, osservare grandi code di persone che vogliono vedere il film «Missing» di Costas Gravas, che si proietta con molto successo a Buenos Aires. E' stupefacente notare come, in pochi mesi, riappaiano alcuni desaparecidos che denunciano l'esistenza di centri di tortura e di carceri clandestine in alcuni rispettabili edifici delle forze armate, dove sono stati imprigionati per cinque anni senza la possibilità di far avere o di ricevere alcuna notizia od informazione ai familiari. Questi fatti oggi si possono leggere sulla stampa argentina e non solo su settimanali di sinistra. Queste notizie sono preziose per le riviste scandalistiche, che ora vendono di più con un «desaparecido» in copertina che con una bella ragazza in abiti succinti.
La merda sta per volare in tutte le direzioni, dicono molti fregandosi le mani con soddisfazione e non necessariamente con spirito di rivalsa e con desiderio di vendetta. E' solamente e semplicemente la gioia di sentir dire finalmente la verità, l'allegria per una libertà che si vuole godere fino in fondo, «finché dura», anche se all'entusiasmo di oggi l'argentino oppone un certo relativismo per il futuro.
L'ombra dei militari, in strepitosa ritirata dal potere, ci segue stagliandosi con nitidezza sopra il paese. Non si può dimenticarla facilmente né soprattutto non immaginarla nel futuro mentre ordina.
Il golpismo è una malattia che, se c'è ricaduta, diventa cronica, mi disse una volta un politico uruguayano. Se si osserva la recente storia argentina e si contano i quattro colpi di stato (1955, 1962, 1966 e 1976), si può facilmente diagnosticare il peggiore dei mali cronici. Però, nel frattempo, la parentesi che si è aperta il 30 ottobre non smette di essere il «minore male possibile», frutto dell'alternativa polarizzata di queste elezioni.
Perché, dopo un incubo, la cosa più importante è non rimanere addormentati anche se, rimanendo svegli, è un peccato non poter sognare.