Rivista Anarchica Online
Emarginazione ed handicap
di Giuseppe Gessa
Il servizio su emarginazione e handicap, che pubblichiamo in queste pagine, è costituito in gran
parte da materiale elaborato dal Comitato di lotta contro l'emarginazione, che raggruppa due
collettivi da tempo impegnati in questo «settore»: Marginopoli (c/o biblioteca di Affori, viale
Affori 21, 20126 Milano) ed Il Cuneo (c/o Centro Sociale, via Zuccoli, 20052 Monza). Il loro
impegno di lotta è diretto non solo contro le mille facce dell'emarginazione, ma anche contro le
istituzioni che la generano (e se ne servono): un approccio che si pone in netta antitesi con quello
meramente assistenziale e «di categoria» tipico delle associazioni cattoliche e di quelle «degli
invalidi» (grossi carrozzoni clientelar-politici). Chiude il servizio l'articolo/testimonianza di un
compagno che da vari anni opera come insegnante di sostegno a bambini ipoacustici. Questo servizio su handicap ed emarginazione intende dimostrare come una struttura sociale
trasformi in emarginazione uno svantaggio psichico o fisico. L'organizzazione sociale mette in atto
un processo che rende inaccessibile ai portatori di handicap oggetti e spazi, sia di carattere fisico
che psichico. Si tratta quindi di delineare la forma in cui si determina l'emarginazione e, in seguito,
di vedere come l'appartenenza a un ceto sociale svantaggiato contribuisca ad accrescere questa emarginazione. Il portatore di handicap incontra una serie di difficoltà oggettive che limitano i suoi desideri e le sue
possibilità di intessere relazioni sociali. L'habitat in cui si svolge la vita collettiva è stato infatti
realizzato per soddisfare le esigenze delle persone normodotate (i cosiddetti «normali»). I centri di
vita collettiva, i luoghi di svago e di lavoro, il sistema dei trasporti, i servizi, sono oggi inaccessibili
a tutti coloro che, a causa di determinati svantaggi, non possono usufruire in modo autonomo di
tutto ciò che l'habitat offre. Questo svantaggio colpisce l'handicappato in quanto tale, a prescindere dalla sua collocazione
sociale. Certo, il portatore di handicap appartenente a un ceto sociale privilegiato potrà limitare
questo tipo di svantaggi. Potrà usufruire di un accompagnatore o di un autista che lo porteranno nei
punti della città che desidera visitare. Rimane comunque un fatto inconfutabile: il trasporto non può
essere fatto in prima persona dal portatore di handicap, che viene inoltre escluso da tutta una serie
di rapporti sociali che si possono creare con l'utilizzo collettivo di un servizio di trasporto pubblico.
Lo stesso discorso vale per gli altri luoghi d'incontro sopra citati. Queste sono solo alcune tracçe delle diverse forme di emarginazione provocate da quelle che
vengono definite barriere architettoniche. Gli stessi ostacoli alla socializzazione sono posti dalla
struttura politica e culturale della società, che determinano i modi di funzionamento della scuola,
dell'organizzazione del lavoro e i modi in cui la collettività si rapporta con le questioni
dell'handicap. La necessità dello Stato di mantenere una diseguale ripartizione del potere sociale, di
separare quindi i momenti decisionali, dà vita a quella che è stata definita la società industriale,
nelle sue diverse forme. La società industriale, sia che si esprima nella forma di produzione capitalista, nella tecno-burocrazia statale o nel comunismo di stato, ha bisogno di soggetti sociali che si adattino e si
integrino con i suoi modelli di organizzazione. Ecco che quindi tutti coloro che non possono essere
integrati in un'organizzazione del lavoro, già disumana in se stessa, vengono collocati ai margini
del contesto sociale, ghettizzati, incarcerati in istituti assistenziali, sottoposti al disprezzo o alla
pietà della collettività. La scuola, luogo adibito alla trasmissione della cultura del potere, esprime metodi di insegnamento
e di comunicazione che non prevedono l'esistenza del portatore di handicap. Solo negli ultimi anni
c'è stata una certa inversione di tendenza, limitata comunque dall'inadeguatezza dei programmi,
dall'impreparazione del personale insegnante e dalla quasi inesistenza di spazi di apprendimento
collettivo per portatori di handicap e resto della collettività scolastica (illuminante ci pare, in
merito, l'articolo di Alessandro Scarpellini). Molto spesso non si tiene conto della particolare esperienza del bambino portatore di handicap.
Accade così di assistere a episodi, come quello descritto da S. Orio e G. Rossi (Diversi: Perchè?,
Emme Edizioni). Mi è capitato di vedere un insegnante che aveva ottenuto di tradurre in braille un
testo di prima elementare, e faceva tranquillamente leggere al suo alunno cieco di prima
elementare, che così era alla pari con gli altri, frasi come: «la luna è alta nel cielo scuro», frase
che per lui risultava priva di significato, ancorché la leggesse docilmente. Esistono poi una serie di motivazioni di carattere religioso, etico ed esistenziale che limitano più di
quanto non si creda la lotta dei portatori di handicap contro le discriminazioni. La paura del
«diverso», di colui che mette in crisi la quotidianità di un sistema sociale, è stata utilizzata
dall'istituzione per alimentare l'emarginazione dei soggetti che non poteva fare rientrare nella sua
logica. Le ragioni di questa paura sono troppo complesse per essere trattate in questa sede, certo
essa è presente in culture e società completamente diverse tra loro e, in ogni caso, non può essere
solo determinata dalla forma della gestione dei mezzi di produzione, sia capitalista che comunista. Rimane comunque il fatto, e qui ci riallacciamo all'assunto iniziale, che l'appartenenza del portatore
di handicap a un ceto sociale economicamente svantaggiato determina un notevole aggravamento
della sua emarginazione. E' evidente che esistono anche cause sociali che determinano la nascita di
un bambino handicappato. Esse sono da ricercarsi nelle disumane condizioni di lavoro, nei ritmi,
negli ambienti tossici e nell'insalubrità degli ambienti domestici. Tutti questi elementi possono
causare un grande numero di anomalie nei genitori e sul corso della gravidanza determinano molte
malformazioni del bambino. Questi fattori, anche quando sono scientificamente accertati, non sono
quasi mai denunciati quali cause delle minorazioni e così non si individua come colpevole il
sistema socio-economico in cui viviamo. Il disagio economico determina una serie di situazioni che aggravano la situazione del portatore di
handicap. Una situazione economica svantaggiata può indurre la famiglia a isolare il figlio/a in un
istituto con il fine di garantirgli il sostentamento. Un ambiente domestico piccolo e spesso malsano
limita le possibilità di movimento e limita quindi le spinte creative del bambino. Ecco che si
moltiplicheranno gli stimoli passivizzanti (radio, televisione) che possono tenerlo «buono», ossia
inerte ed instupidito. Un ulteriore disagio, e non è certo l'ultimo, è determinato dal tempo che i
genitori del bambino trascorrono fuori casa per motivi di lavoro, tempo sottratto alle esigenze del
piccolo portatore di handicap. A tutto ciò si aggiunge un'assistenza sanitaria perlopiù inefficace e
legata anche'essa a pregiudizi e mistificazioni sulla natura e il significato dell'handicap. Bisogna poi
considerare il grande numero degli infortuni sul lavoro, anch'essi determinati da un'organizzazione
del lavoro autoritaria. A conclusione di queste brevi e non certo esaustive note, bisogna rilevare come la questione
dell'handicap sia legata alle altre diseguaglianze che sono presenti in questo sistema sociale. Il
portatore di handicap subisce una discriminazione determinata da un sistema sociale che
corrisponde in modo diseguale alle aspirazioni dei soggetti che lo compongono. Il lavoratore handicappato si troverà così a sommare la disuguaglianza subita dalla sua presenza
nello spazio subordinato all'attività produttiva alla discriminazione che la sua condizione subisce
nei rapporti sociali .. La donna portatrice di handicap si troverà anche coinvolta nello sfruttamento
derivato da una società ancora legata alla supremazia dell'uomo. Tutto questo non può comunque esentarci da una lotta che punti ad eliminare o ad attenuare le
determinazioni che impediscono una presenza dei portatori di handicap nelle dinamiche sociali.
Con una consapevolezza irrinunciabile, però: che appunto il portatore di handicap non è soltanto un
soggetto di diritti che la società deve soddisfare, ma una persona portatrice di desideri; e che fra
questi desideri è anche presente la volontà di lottare per una modifica globale del sistema in cui
viviamo, sistema che annienta ed emargina lui come gli altri.
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