Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 115
dicembre 1983 - gennaio 1984


Rivista Anarchica Online

Argentina
di Eduardo Colombo

Un mattino dell'aprile 1982, l'esercito argentino «recupera le Malvine». Come tutti gli argentini sanno - l'hanno imparato alla scuola pubblica - queste isole sono sempre appartenute, di diritto, al territorio nazionale: territorio della Repubblica dove una giunta militare governa con la violenza un popolo martoriato. L'invasione sorprende gli argentini sul punto di mobilitarsi contro il regime. Ma ecco un nuovo nemico, e per di più straniero, come conviene, rappresentante del colonialismo e dell'imperialismo tradizionale.
Il leone britannico si agita e affronta una formidabile «armada» come al buon tempo antico. I conservatori sono al potere e le Falklands appartengono alla corona per le stesse ragioni per cui ogni territorio appartiene a uno stato. «Umiliati sotto la bandiera dell'occupante!» titola il Dally Mail a Londra, e a Buenos Aires il generale-presidente, dal balcone della Casa Rosada, grida alla folla: «Non ringraziatemi, perché non abbiamo fatto altro che interpretare i sentimenti più profondi della nazione argentina».
Lo spettacolo è pronto. Per qualche mese due popoli ritroveranno l'unione sacra, uno contro l'altro, folli sciovinisti, pronti a dare il proprio sangue. Vecchio riflesso che il mondo attuale amplifica e banalizza. Lo schermo della televisione ci mostra i successi dell'Exocet. «I gurkhas fanno meraviglie» trasmettono le agenzie di stampa, riportando le dichiarazioni di un portavoce militare. E i commentatori si accapigliano: una guerra in un fazzoletto. Una guerra da operetta, una guerra moderna, sofisticata e tradizionale.
Triste privilegio dell'Inghilterra e dell'Argentina quello di accentrare l'attenzione mondiale per una questione di sovranità nazionale. La guerra dell'Atlantico passò, e lasciò come tutte le guerre delle tracce negli individui e nei popoli. Le sue conseguenze hanno determinato la vita politica attuale in Argentina e prolungano la vittoria della «signora di ferro» e della politica dei conservatori sulla classe lavoratrice del Regno Unito. I morti della guerra sono ben morti, come tutti i morti della terra, come i torturati e gli scomparsi nelle caserme in Argentina, come i suicidati e gli assassinati in Irlanda. Noi, combattenti di un'altra battaglia, che non finirà mai, tiriamo le nostre conclusioni. Cerchiamo di collocare questi avvenimenti nel contesto di una riflessione eterodossa che non verrà condivisa da tutti, ma che è la nostra.

Anticlericalismo ed antimilitarismo
Un'avventura guerriera è una logica via d'uscita per un governo militare perfettamente coerente, non ci sono che i generali e gli imbecilli a poterlo negare. Tuttavia, Malvine e militari non sono soltanto delle lontane isole del sud e un corpo armato dello stato, essi sono anche parte del mito argentino, oggetti dell'immaginario sociale coi quali, nel corso di una storia, un popolo ha intessuto dei rapporti ambivalenti.
Parlare delle ambivalenze di un popolo è una metafora, un modo di dire, ma gli individui che condividono uno stesso immaginario collettivo selezionano, magnificano o minimizzano, fanno propri o combattono i valori o simboli comuni. Per certuni ciò che può apparire come ambivalenza in un sistema sociale, si realizza come contraddizione, come opposizione violenta al programma stabilito. Partiamo da questo.
Noi siamo obbligati, per parlare del nostro passato, a prendere i sentieri della storia immediata, a rifare cioè, ma all'incontrario, il cammino del vissuto. Richiamato col filo del ricordo, il passato si sdoppia - conseguenza dell'irreversibilità del tempo - e noi tutti ci sforziamo, con dolore, di integrare i significati che esso ha attualmente con quelli che ha avuto a suo tempo: lavoro inconscio che riesce generalmente al prezzo di amputazioni e il cui sforzo si trasforma nella coscienza in nostalgia. Tendenza unificatrice, totalitaria a riscrivere la storia o semplicemente a scriverla, a patto però di inscriverla nel presente, il solo tempo dell'azione, là dove i nostri valori e le nostre lotte, le nostre passioni, nuovamente multiformi, ci aprono il futuro. E qui i dimenticati, quelli che hanno perso, quelli che hanno avuto ragione troppo presto, agiranno di nuovo con noi. La rivoluzione è nella storia ma essa si fa contro la storia. Scendiamo sul terreno dei fatti.
E' giocoforza a questo punto constatare che durante tutto il secolo - e non soltanto a partire dal 1930 - si è creato in Argentina, ai margini del sistema costituzionale, un sistema istituzionale di potere formato da civili e militari che si combinano in proporzioni diverse a seconda delle epoche, ma che agiscono sempre come «compartecipi politici delle risorse evidentemente ineguali ma eminentemente complementari».
Ogni volta che l'opposizione al partito che governava si precipitò tra le braccia dei militari faziosi, nella fretta di conquistare il potere o riconquistarlo, nessuno della classe politica, né tra i liberali né tra i conservatori, gridò al tradimento, perché tutti, legati ad un partito che è stato al governo o che aspira a governare, sperano a loro volta di beneficiare del potere militare. Così, i politologi attuali più accorti possono dire che l'antimilitarismo non appare «né a destra né a sinistra dello schieramento politico». E l'immagine del politico che bussa alla porta delle caserme fa ormai parte integrante del patrimonio nazionale. E' così, è la superficie visibile del potere politico reale sostenuto dalla miriade di lacché che aspirano a comandare.
Tutto questo ribollire, visto da lontano, fa dimenticare (o forse sottovalutare) le opposizioni, le contraddizioni, le lotte nell'ombra di un popolo senza radici, né nel bene né nel male, spossessato anche della sua memoria, condannato a ripetere il gesto della rivolta senza un progetto che possa sostenerlo.
Ma contro l'unificazione dello spazio sociale pretesa dalle ideologie di cui si servono i politici e i militari, la vita vissuta insorge.
Immaginiamo qualcuno che era ancora nella culla quando Lugones proclamò «L'ora della spada» e Uriburu iniziò l'era dei colpi di stato militari. Il primo ricordo politico formale che gli verrebbe alla memoria potrebbe essere - perché no? - quello dell'immagine di un padre, furioso e umiliato, mentre rientra in casa il giorno in cui gli dissero: «ho votato», prima che potesse mettere la scheda nell'urna. Fu questa «la frode patriottica». Poi, una data, 1943, e qualche nome di generali, Rawson e Ramirez, le truppe di campo de Mayo e la sparatoria davanti alla scuola di Meccanica dell'Esercito.
La caduta di un regime conservatore tiene conto del consenso popolare, ma attenti ai militari!
Lasciamo pudicamente da parte gli anni che seguono, qualche episodio che il nostro personaggio immaginario avrebbe potuto vivere, come l'esaltazione adolescente delle lotte di strada, o l'assassinio di qualche suo compagno; comunque sia, potremo verosimilmente pensare che sono quegli anni che l'hanno reso profondamente antimilitarista, allo stesso modo come gli anni dell'infanzia l'avevano reso violentemente antireligioso. Così, non saremmo stupiti se ci si dicesse che lo si è visto nel carcere nel 1948 per aver fatto parte del giornale Paz (Pace), organo della commissione antireligiosa e antimilitarista della FORA del 5° Congresso.
L'alternativa al potere militare, in Argentina, era radicata nel movimento operaio rivoluzionario. Movimento senza compromessi, senza mediazioni con il sistema. Quando partiti e colonnelli si cercavano, in vista di un colpo di stato, il nemico era già designato ed era all'interno delle frontiere dello stato. In seno al movimento operaio esisteva una importante tradizione antimilitarista e antipatriottica. La FORA creò delle commissioni per diffondere la diserzione dall'esercito e sostenere con ogni mezzo la pratica del rifiuto del servizio militare. In un manifesto del 1914 contro la guerra, firmato dal Consiglio Federale, è detto: «la patria ha concepito un mostro che si è sviluppato all'ombra della bandiera: il militarismo». Questa critica non era ideologica o d'importazione, come avrebbero voluto farci credere la storiografia ufficiale e l'oligarchia prima, la borghesia nazionale poi, poiché l'esercito argentino, per non essere di meno degli altri eserciti della terra, si è distinto, ieri come oggi, nella repressione interna.

Tra colpi di stato e governi istituzionali
La continuità storica del potere militare in Argentina non può venir messa in dubbio.
Lasciamo da parte, perché troppo lontani, i precedenti del diciannovesimo secolo. E' sufficiente citare la manforte che prestò l'esercito al governo di Yrigoyen per reprimere lo sciopero di Vasena, per soffocare nel sangue il movimento degli operai rurali della Patagonia, per farla finita con l'agitazione dei lavoratori delle grandi foreste nel nord del paese.
In generale, tutti gli osservatori e gli storici del processo argentino prendono come punto di partenza per le loro analisi il colpo di stato del 1930, perché è il momento visibile, la cerniera, di un cambiamento strutturale, profondo, del paese. Ma erano già presenti in seno all'esercito argentino non solo le ideologie nazionaliste ed autoritarie, ma anche gli uomini che, passando da giovani capitani a vecchi generali, vanno a rappresentare, attraverso il susseguirsi di colpi di stato e di governi istituzionali, il nefasto potere dell'esercito sul popolo argentino.
L'abolizione, da parte di Uriburu, del regime costituzionale delude i giovani ufficiali che cercano un progetto politico che sia loro proprio e che non si sentono soddisfatti con la restaurazione conservatrice ed oligarchica. Tuttavia possiamo scoprire in questo settembre 1930 i germi che più tardi svilupperanno il sistema politico del potere reale e che possono essere classificati in tre gruppi ben definiti: una classe politica disposta al compromesso con chiunque pur di accedere al potere; un settore militare the cerca di imporre una politica coerente e durevole di fronte al pericolo dell'azione popolare ed operaia; e una nascente burocrazia sindacale accoppiata alla frazione dominante nelle lotte per il potere. Sarà il golpe militare del giugno 1943 che metterà in moto un lungo processo di conquista delle masse lavoratrici da parte del potere militare.
Il colonnello Peron, figura dominante di un gruppo di ufficiali uniti, gruppo in origine segreto, assumendo la carica della Segreteria del trabajo y prevision, farà i primi passi verso il potere. Il progetto politico che si mette in moto in quel momento (e le cui conseguenze sono ancora visibili) si appoggia su tre aspetti della congiuntura argentina nella seconta metà degli anni quaranta: in primo luogo, la prosperità economica permette di colmare l'enorme ritardo che i governi conservatori hanno imposto alla «integrazione sociale» del proletariato urbano in espansione ed allo stato di quasi-schiavitù del proletariato agrario; nuove leggi sociali sono istituite come la pensione, i contratti collettivi che garantiscono la sicurezza del posto di lavoro, l'aumento dei salari, con un conseguente aumento reale del potere di acquisto. A questo si aggiunge una serie di nazionalizzazioni, quali quelle delle ferrovie, dei telefoni e altre che concernono la regolazione della moneta e del credito.
Il secondo aspetto è l'ottenimento di un sostegno di massa dell'ideologia peronista da parte delle classi lavoratrici, con una simbiosi profonda tra gli operai e l'immagine del loro «leader» che li sottomette alla «conduzione» verticalista di un capo che rappresenta al tempo stesso lo stato. La mobilitazione concomitante di una parte del movimento operaio e della sua direzione riformista determina un considerevole aumento del potere «simbolico» della classe operaia, potere di cui i lavoratori stessi si sentono investiti, ma che a sua volta, di riflesso, gli è accordato dalla borghesia; mentre le classi medie nel loro insieme non comprendevano, malgrado gli sforzi di Peron, il discorso populista.
Quanto al terzo aspetto, esso consiste, certamente, nell'aumento considerevole del peso dello stato, non solamente nell'allargamento del campo repressivo ma e soprattutto nella sua funzione «paternalista» (identificazione dello stato nel «leader»).

Peron ed il peronismo
Con l'elezione di Peron alla presidenza della repubblica nel 1946, la Confederazione Generale del Lavoro (CGT) si integra negli apparati dello stato, in quanto sindacato unico, l'iscrizione al quale è obbligatoria. Proclamato «primo lavoratore» Peron non dimentica, nella fase di transizione tra il vecchio movimento operaio e il nuovo «condotto» da lui, l'utilizzazione di certe immagini del passato rivoluzionario. E' così che in un discorso dell'epoca, in occasione di un Primo Maggio, egli rievoca i martiri di Chicago e generalizza la denominazione di «descamisados» (scamiciati) per i suoi partigiani, riprendendo forse senza saperlo il titolo del primo periodico anarchico del paese, El descamisado (1879).
L'introduzione del sindacalismo di stato non è sufficiente però ad impedire l'apparizione dei primi grandi scioperi a partire dal 1949. Le leggi eccezionali fanno anch'esse la loro apparizione e l'attività repressiva si accresce. Nel 1951, tutte le sedi della FORA che restavano in attività vengono chiuse così come le loro pubblicazioni. L'anno dopo sei operai portuali della FORA anarchica vengono torturati, arrestati a causa di un manifesto in cui questa organizzazione si oppone alle deliberazioni costrittive emanate dalla CGT. E se noi parliamo di nuovo qui di ciò che restava del movimento operaio rivoluzionario, è a causa di alcune ragioni sulle quali diremo due parole più tardi.
Se ci attardiamo sui primi passi del peronismo, è perché questo movimento, di tipo populista, costituisce la prima sintesi ben riuscita, in Argentina, tra il potere militare e la partecipazione popolare. Il peronismo, unificando lo spazio immaginario del potere, occulta in maniera significativa le origini militari di questo potere, perché Peron incarna il progetto politico del '43. Simultaneamente, in questo stesso spazio simbolico, si identificano l'uno con l'altro il generale e il leader operaio, la rappresentazione dello stato-nazione e il carisma personale, la Casa Rosada e «la casa di Peron come la chiamano i descamisados» (secondo le parole di Peron stesso, il 25 luglio 1949). Non c'è da sorprendersi, dunque, se la vecchia guardia del sindacalismo riformista effettuò senza contrasto il passaggio del potere ai nuovi dirigenti operai eletti dall'alto. E' in questo processo che la CGT acquisisce la sua potenza passando, secondo calcoli approssimativi, dagli 80.000 affiliati che aveva nel 1943 ai 3 milioni del '51.
Il progetto politico che sottende alla mobilitazione popolare del peronismo nasce (anche se ciò può sembrare paradossale) da un'ideologia corporativista, autoritaria e nazionalista in seno alle forze armate - in «questo paese formato dai suoi generali, liberato dai suoi generali, guidato dai suoi generali e oggi riabilitato dai suoi generali (...)» (Peron, 4 giugno 1950). Esso si propone il controllo generale della società e in particolare della classe operaia attraverso la sua integrazione e la sua unificazione nello stato paternalista.
Noi non ci occuperemo qui delle ragioni del fallimento del progetto peronista. Con come sfondo una nuova crisi economica, la penetrazione imperialista crescente e l'aumento dell'opposizione delle classi medie che si sentono «proletarizzate» e in più il voltafaccia della Chiesa che aveva appoggiato il peronismo in cambio dell'ottenimento dell'insegnamento religioso (legge del 1947), l'esercito interviene nuovamente con il colpo di stato del 1955 lasciando a nudo dopo di allora la «repubblica pretoriana»: brevi periodi di «democrazia limitata», la cospirazione costante di settori politici che cercano l'intervento militare e di militari che cercano una legittimazione politica, il degrado brutale del livello di vita, il tutto seguito da nuovi putsch militari con le loro sequele di stati d'assedio e di aumento della repressione (golpe militari del 1962 e 1966).

Lotte, rivolte, scioperi, occupazioni
All'ombra del veritcalismo peronista, la burocrazia sindacale si sviluppò mostruosamente e partecipò, dietro le quinte, a tutti gli intrighi ai quali la invitarono politici e militari. I suoi precedenti risalgono lontano e fanno parte della storia del movimento operaio riformista e particolarmente della CGT. Ma non solo il peronismo conta nel suo seno dei burocrati sindacali: alcuni fiancheggiano il golpe militare del 1955, chiamato «Revolución Libertadora», e tutti uniti, peronisti e antiperonisti, saranno presenti alla salita al potere del generale Ongania manifestando così la loro adesione alla «Rivoluzione Argentina» nel 1966. Che questo basti come esempio, non possiamo fare tutta la storia.
Ma bisogna segnalare che la combattività della classe lavoratrice non cessa mai di manifestarsi, anche contro i «suoi» dirigenti, anche contro il «suo» leader. Il movimento di lotta della base operaia assume caratteristiche allarmanti per il potere militare che, malgrado tutti i suoi sforzi, non viene a controllarlo, fino ad arrivare, alla fine del periodo inaugurato da Ongania, a situazioni decisamente insurrezionali, quali la ribellione delle città di Cordoba e di Rosario nel 1969 e di Mendoza nel 1972. Il governo si trova di nuovo in una via senza uscita e il potere militare rimette a galla il progetto peronista. Peron si offre ai militari disuniti come l'ultima risorsa di fronte alla violenza rivoluzionaria. Nonostante il fatto di avere vinto le elezioni del 1973, il peronismo politico non domina la situazione. Peron ritorna a Buenos Aires, ripetendo «Dalla casa al lavoro e dal lavoro alla casa» ma ciò non impedisce che gli operai respingano il patto sociale, occupino le fabbriche e sfidino i burocrati e la polizia.
Durante un breve periodo, il potere militare si colloca in posizione secondaria rispetto al potere politico, ma ciò è solo per mettere in atto la repressione semiclandestina più sanguinosa di tutta la storia argentina. Dopo i massacri di Trelew e di Ezeiza, i sequestri e gli assassini commessi da bande paramiliatri si generalizzano.
L'agitazione operaia, l'azione spettacolare della guerriglia, il caos economico e l'attività sotto gli occhi di tutti: i gruppi armati, che godono di una impunità totale, saranno la giustificazione e il pretesto del golpe militare del marzo 1976. La giunta si lancia in una repressione senza limiti instaurando un vero e proprio terrorismo di stato, articolato su una politica che si era cominciata ad esperimentare in grande scala nel Guatemala a partire dal 1954: i sequestri e le sparizioni. Ma il fine reale è la stroncatura della classe operaia e di una nuova generazione sensibile alla necessità di cambiamenti strutturali che permettano di sfuggire alla tutela interna delle classi dominanti ed allo stato di dipendenza imposto dall'imperialismo americano. Il potere militare, allineato sulle tesi di Washington, segue una politica economica ultra-liberale e collabora all'estero al mantenimento dell'ordine americano: invio di assistenti militari in America centrale, in Bolivia, ecc.

Il cemento nazionalista
Una volta passato lo stato di choc prodotto dalla follia omicida della repressione, il popolo argentino si ritrova di fronte alle conseguenze del regime che già gli sono famigliari: catastrofe economica, inflazione galoppante, disoccupazione, diminuzione della produzione interna lorda, diminuzione dei salari, diminuzione del consumo. La dittatura della Giunta, nell'eterna ripetitività cui la condanna la realtà del potere e la ricerca di una impossibile legittimazione, non vede altra via d'uscita se non quella di restituire il governo ai civili e ritornare ad una democrazia «accettabile». Ma ci sono i militari e le migliaia di morti, di torturati, di scomparsi. Che fare? Inoltre, l'agitazione operaia ricomincia. Le madri della Piazza di Maggio non si lasciano imbavagliare. Si era già sfiorata una guerra con il Cile, che non galvanizzò abbastanza la popolazione. Allora qualcuno ha dovuto ricordarsi che c'erano le «Malvinas».
Le isole Malvine sono un prodotto tipico del mito nazionale argentino. Esse sono là per consolidare le frontiere della patria, per dimostrare agli argentini che l'integrità territoriale e la sovranità dello stato devono essere difese contro la cupidigia delle potenze straniere. I nazionalisti di questo paese avrebbero potuto dire: «se non esistessero si sarebbe dovuto inventarle». Con i padri della patria, il sole della bandiera e il ricordo dell'invasione inglese (nel 1805 e 1806), le Malvine hanno contribuito - attraverso la scuola pubblica, che per il fatto di essere nello stesso tempo la scuola di stato, trasmette i miti della patria - alla creazione di questo sentimento diffuso di appartenenza a uno stato nazionale.
Il controllo delle Malvine apparve come una necessità strategica per il possesso di grandi distese di Antartico, del petrolio potenziale, del Krill e altri prodotti del mare. Ma questi argomenti di real-politik servono tanto all'una come all'altra delle parti in lite.
Bisogna dunque passare agli argomenti di valore, quelli della sovranità legittima. Tuttavia, gli argomenti sulla sovranità hanno, nelle democrazie occidentali (con le quali, colmo del paradosso, si identificano i militari argentini) un difetto di origine. A partire dalla Grande Rivoluzione la sovranità risiede nel popolo, ma contemporaneamente, la borghesia effettua uno spostamento carico di conseguenze: la sovranità viene fatta passare dal popolo alla nazione. Gioco di prestigio filosofico che, nella bocca di Sièyes si esprime così: «La volontà nazionale...è l'origine di ogni legalità». Il suffragio universale occulta una parte del transfert, giacché il popolo, credendo di eleggere un rappresentante di se stesso, elegge tra un campionario già determinato della classe politica, un rappresentante della nazione. E oggi, nei corpi politici costituiti, nazione equivale a stato.
Chi può negare che in Argentina i militari siano i rappresentanti di fatto dello stato? Di fatto e non di diritto? Ma, forse che il popolo argentino, riconoscendo loro il diritto di occupare le Malvine, non dà loro al tempo stesso la legittimità di rappresentare la sovranità nazionale? Legittimità impossibile per l'usurpatore militare. Ma siamo nella logica degli stati. Non nella nostra. Ritorniamo ai fatti.
Il 30 marzo 1982 è il giorno scelto dalla CGT per chiamare alla mobilitazione popolare sotto la parola d'ordine: «Pace, pane e lavoro». Grandi manifestazioni a Buenos Aires e Mendoza vengono represse violentemente dalla polizia. La folla gridava: Se va acabar, se va acabar la dictadura militar («sta per finire la dittatura militare»). C'è un morto, e poi numerosi feriti e picchiati, centinaia di prigionieri tra i quali tutti i membri della «conduzione» della CGT. Tre giorni dopo, con una operazione combinata, l'esercito, la marina e l'aviazione occupano le isole. Dal balcone del palazzo presidenziale, il generale-presidente Galtieri saluta la folla riunita per celebrare la sovranità ritrovata.
Di nuovo unito (anche se solo per un momento) sotto le bandiere della patria e dietro le forze armate, il popolo argentino sente che tutte le sue parti battono all'unisono come un solo cuore: poveri e ricchi, civili e militari, preti e sindacalisti, grandi e piccoli. Gli imprigionati del martedì 30 vengono liberati e un charter parte per la capitale delle Malvine con i dirigenti dei principali partiti di opposizione e dei sindacati, tra i quali il segretario della CGT, che presentano i loro ossequi al nuovo governatore generale Benjamin Menendez, conosciuto da tutti per le sue gesta nella repressione.
Tutto il fervore nazionalista è espresso negli assembramenti di folla dove malgrado la diversità degli slogan patriottici e politici, e senza dimenticare le critiche e gli insulti ai militari della dittatura, sorse, imperiosa, l'umanità davanti al nemico straniero. La gente grida: uno, dose, tres, el que no salta es un ingles («uno, due, tre, chi non salta è un inglese»). E bisogna saltare, non c'è tempo per pensare.
L'unione sacra non resiste alla disfatta. Per fortuna degli argentini (e per disgrazia degli inglesi), l'avventura guerriera finisce male per quelli che l'avevano cominciata, essa riuscì a dividere i militari e trasformarli da campioni della sovranità in responsabili del fallimento. La disfatta riunì, in una stessa immagine, oggetto di odio e di riprovazione, gli autori di nuovi dolori con i colpevoli delle vecchie umiliazioni e servitù. Ed impedì, speriamolo, che i morti della guerra seppellissero i morti della repressione.
Anche se, mai esorcizzato, sussiste lo spettro di un nuovo golpe militare da parte della frazione dura dell'esercito, l'Argentina entra poco a poco in una relativa libertà di espressione orale e scritta e si avvia verso l'insediamento di un governo costituzionale: sensibile miglioramento, che fa dimenticare la sensazione deprimente di un eterno ricominciare.

Cosa c'è dietro la logica della guerra
Come trovare un rifugio per la speranza? Bisognerebbe sapere che nella struttura del politico, lo stato è vissuto come la perpetua riproduzione dell'originaria legittimità della dominazione: le frontiere dello stato nazionale rinchiudono l'uomo nel mito della fatalità politica, dell'eterno ritorno.
Gli stati senza i loro militari, senza la forza delle armi, sarebbero a tutti i venti della libertà, non resisterebbero all'autodeterminazione dei popoli, all'autogestione della vita. La guerra dell'Atlantico del sud ha delle cause circostanziali che la spiegano sia da parte argentina che da quella del Regno Unito. Ma le cause profonde della guerra - che si manifestano quotidianamente nell'enorme sperpero della produzione costante di armamenti, in un mondo soffocato dall'inquinamento dei paesi ricchi e incapace di nutrire più della metà dei suoi abitanti - sono nella pretesa egemonica del potere di stato. E ci conducono inesorabilmente alla distruzione atomica. Ma la potenza dello stato non esisterebbe se non fosse alimentata dall'obbedienza, dalla servitù volontaria. Anche se questo non ci piace, lo stato è in ciascuno di noi e la ribellione deve coprire parecchi fronti (ah! la metafora militare).
E' così che in Argentina, come diceva un nostro amico immaginario che avrebbe oggi più di 50 anni, con la morte del vecchio movimento operaio, la gente fu spossessata di un progetto rivoluzionario che dava senso e prospettive al gesto di rivolta. Il popolo si abbandonò ai suoi dirigenti politici e sindacali, reclamò un leader, un condottiero, un «uomo forte». Si è sentito unito in una Centrale Operaia potente e incatenata allo stato. Credette che la collaborazione di classe lo difendesse dall'imperialismo. Lasciò ad altri il compito di elaborare i progetti, di pensare al suo posto.
Niente sfugge al conflitto: neppure il popolo. Certuni continuarono a predicare nel deserto contro la sintesi conquistatrice dell'ideologia dominante, unendo le loro voci a quelle dei vecchi lottatori che la storia lasciava nell'oblio. Numerosi furono gli abitanti di queste terre d'America Latina che la violenza militare dello stato spinse verso l'esilio: una parte ripercorse all'incontrario il cammino dei suoi antenati. E cominciarono a guardare da sopra le frontiere.
All'alba del socialismo, gli emigrati e i proscritti che si riversavano in diversi paesi di Europa e dell'America Latina, a partire dal 1830, obbligati a vivere con delle genti che parlavano un'altra lingua e avevano altri costumi, cominciano a capire che lo sfruttamento è lo stesso e così per l'oppressione. Ed essi scrissero rivolgendosi ai loro fratelli di miseria: E' nell'interesse dei signori della terra e della finanza di mantenere la divisione tra le nazioni; ma è nell'interesse dei proletari dovunque oppressi dagli stessi tiranni e privati dei frutti del loro lavoro dalla stessa specie di ladri, è nel loro interesse di unirsi. Ed essi si uniranno.
In un meeting internazionale in quegli anni delle origini, qualcuno ha detto che la parola «straniero» non dovrebbe figurare nel dizionario, aggiungendo: i proletari nel loro insieme sono, per natura, liberi da ogni pregiudizio nazionale, il loro completo sviluppo è fondamentalmente umanitario e antinazionale. Solo i proletari possono distruggere le nazionalità.
Perseguitati della Comune, refrattari e proscritti d'Italia e di Spagna, immigrati del mondo intero, si unirono col giovane proletariato d'America agli inizi del secolo, per formare un movimento operaio rivoluzionario, internazionalista e antiautoritario sulle due rive del Rio de la Plata. Ma nell'ultimo quarto di questo stesso secolo, di fronte ad una guerra imposta da una dittatura militare, il popolo, antimilitarista per la ragione sufficiente della sua situazione sociale, si trova stretto nel giogo della patria, condannato a ripetere il ciclo della ribellione e della sottomissione. Perché non c'è antimilitarismo coerente che non sia al tempo stesso internazionalista, antiautoritario, antistatalista.
Alcuni compagni d'Inghilterra hanno potuto dar vita in piena guerra ad una manifestazione pacifista. Ma la maggioranza della gente si precipitò a bruciare la bandiera argentina. A Buenos Aires, naturalmente, accadde la stessa cosa con la bandiera inglese. Può darsi, anche se non è che un simbolo, che le cose cominceranno a cambiare quando gli argentini bruceranno la bandiera argentina e gli inglesi la loro.
In attesa, pensiamo che l'aspirazione umana verso la libertà, malgrado le sue eclissi, anche quando è condannata alla clandestinità, risorga qua e là nel solco delle rivoluzioni. Le masse umane che fanno la storia non sono un corpo omogeneo, potenzialmente rivoluzionario. Esse sono divise in categorie, opposte dai loro interessi e dai loro pregiudizi. Ma quando l'azione e le idee si incontrano, sgorgano i momenti rivoluzionari «nei quali - come scrisse Berneri - le masse sono una enorme leva».

(trad. di Gianfranco Bertoli)