Rivista Anarchica Online
Felicino dei boschi
di Fausta Bizzozzero
Una dozzina d'anni fa, quando l'ho conosciuto, l'ho soprannominato «il folletto dei boschi» e per me
è sempre rimasto tale. Costretto dalla vita a trasferirsi a valle e ad andare a lavorare in fabbrica, tutti
i giorni di tutti i mesi di tutti gli anni lui doveva tornare ai suoi boschi, al suo paese ormai disabitato:
con la pioggia o col sole, con la neve o col ghiaccio, lui doveva immergersi, almeno per qualche ora,
nel suo ambiente naturale per rigenerarsi e per poter affrontare un'altra giornata in fabbrica, un'altra
notte in un anonimo appartamento di una squallida cittadina industriale. Felicino (non è forse un nome «giusto» per un folletto?) non è acculturato (non ha studiato, non legge
quasi nulla, non è in grado di fare o di comprendere grandi elaborazioni o astrazioni), non è certo un
rivoluzionario e per di più crede in dio, non in modo fanatico, ma così come ci crede, senza troppa
convinzione, moltissima gente: per educazione, per tradizione, senza porsi troppi problemi. Ma a me
ha insegnato, e continua ad insegnarmi, un sacco di cose: conosce una quantità incredibile di alberi e
piante e fiori e animali e uccelli, conosce le malattie degli alberi, riconosce i mille rumori ed odori dei
boschi. Del suo territorio sa tutto perché lui ne è parte integrante. Lui non lo sa, e probabilmente se
cercassi di spiegarglielo non mi capirebbe, ma la sua «religione» vera non è poi molto diversa da quella
di Alce Nero, uno sciamano dei Sioux Oglala, che pregava così: «Ascoltatemi o quattro angoli del
mondo: sono un fratello. Datemi la forza di camminare sulla soffice terra, che di tutti è parente. Datemi
gli occhi per vedere e la forza per capire che io posso essere come voi. O montagne antiche, voi siete
ora qui con me; il grande spirito ha fatto la terra e vi ha posto vicino ad essa. Su di voi cammineranno
le future generazioni e i loro passi non saranno tentennanti. O montagne, voi non avete né occhi né
bocca; voi non vi muovete; ma ricevendo il vostro sacro respiro, il nostro popolo sarà rinfrescato a
lungo mentre percorre il sentiero della vita. Il vostro respiro è il soffio stesso della vita. E tu popolo
sempre in piedi, che ti spingi in alto attraverso la terra, tu popolo degli alberi che sei così numeroso;
voi, alberi, siete i protettori delle creature alate, che su di voi costruiscono i nidi e nutrono la loro
famiglia; e sotto di voi vi sono molte creature a cui date alloggio. Possano tutte queste creature e tutte le loro generazioni camminare insieme fraternamente». La profonda consapevolezza di Alce Nero di far parte di un universo armonico dove ogni cosa ha
un senso e una funzione probabilmente nasce da una duplice esigenza umana: un'esigenza di
razionalità, che si esprime nell'osservare e classificare tutto il conoscibile, e un'esigenza «magica»,
per cui tutti i dati vengono elaborati in un complesso sistema simbolico, in una visione del mondo
che abbraccia tutto l'esistente e spiega il passato. Ma si tratta di una concezione del mondo e
dell'esistenza umana cosi lontana dalla nostra cultura da apparire spesso ai nostri occhi un po'
ciechi come mistica e ingenua. Felicino non lo sa, ma stare vicino a lui mi ha fatto scoprire, dolorosamente, il «sentimento
dell'assenza» e il desiderio fortissimo di riconquistare un'armonia perduta. Che mi sia venuto un
attacco di misticismo tardivo? D'altro canto credo che proprio questo «sentimento dell'assenza», seppure a diversi livelli, sia
all'origine di quei fenomeni indicatori di un riaffermarsi del religioso e del magico di cui parla
Luciano Lanza nell'articolo «Il magico e il politico» su A n. 112. Che cosa esprime l'interesse
sempre più diffuso per oroscopi e tarocchi se non il rifiuto inconscio di una vita povera e squallida
nella sua dimensione individuale e sociale? Chi ha una vita piena e soddisfacente non desidera
conoscere il futuro, anzi, l'imprevedibile, il non conoscibile diventa elemento piacevole e
stimolante, diventa l'occasione di mettersi alla prova, di saggiare le proprie capacità/possibilità. Ma
quanta gente oggi può dire di avere una vita simile? Siamo seri! C'è chi si rivolge ai tarocchi, ai maghi nostrani, agli oroscopi cinesi e no: c'è chi va in
India alla ricerca di quella parte di sé che ha perduto tentando di ritrovarla attraverso una cultura
che non è sua e che non potrà mai esserlo; c'è chi sente l'«assenza» soprattutto a livello della
dimensione sociale e tenta di ritrovarla attraverso le varie sette religiose che garantiscono felicità e
amore oggi, e senso di appartenenza a una comunità: quanti «reduci» del '68 sono finiti arancioni et
similia? C'è chi si pensa incapace di comunicare con gli altri, di socializzare, e allora ricorre agli
«specialisti» dell'anima per capire se stesso o a pratiche psicoanalitiche di gruppo per imparare ad
accettare gli altri. Non sono fenomeni solo negativi. Sarebbe troppo facile bollarli di ridicolo con
una delle solite battute ironiche, ci assolverebbe ancora una volta dal compito di capire. Se la molla che spinge le persone a tentare queste soluzioni è l'infelicità, la non comprensione o la
non accettazione del mondo che vivono come ostile, contrario ad aspirazioni sconosciute a livello
razionale ma non per questo meno significative, se il minimo comune denominatore di tutte queste
esperienze è il desiderio inconfessato di colmare quel «sentimento dell'assenza», di raggiungere una
dimensione più umana e sociale, allora dovremo cominciare a considerare questi fenomeni come
indicatori di uno stato di disponibilità al cambiamento, di desideri inespressi che, chissà!,
potrebbero anche coincidere con i nostri. In una società complessa, divisa, atomizzata, come quella in cui viviamo non può stupire che gli
esseri umani soffrano sempre più di complessi, disturbi psichici, carenze di personalità, incapacità
ad affrontare i problemi della vita. Se l'aiuto di uno psicanalista, di un moderno stregone, può
servire a ritrovare se stessi, ad alleviare l'infelicità, a capire quali sono le cose che realmente si
vogliono, allora ben venga lo stregone, non potrà che esserci alleato. Il rischio piuttosto è che lo
stregone o il viaggio in India o tutto il resto funzionino solo come strumenti per rendere più
accettabile la realtà, come valvola di sicurezza attraverso cui scaricare tensioni eccessive
potenzialmente pericolose. D'altra parte le tecniche di terapia di gruppo non sono invenzione della società avanzata, come
illustra il seguente caso tratto dai Ndembu africani: «Un paziente lamentava debolezza, palpitazioni
e dolori dorsali. Egli era anche convinto che altri abitanti del villaggio nutrissero rancore verso di
lui e si era ritirato dalla vita sociale. Lo sciamano cominciò il suo trattamento discutendo sulla
storia del villaggio, sui motivi di lagnanza del paziente e su quelli degli altri abitanti del villaggio; a
questa attività ognuno era invitato a partecipare. Infine, dopo un tempo notevolmente lungo di
discussioni, lo sciamano tolse un po' di sangue al paziente e quindi, secondo il costume, estrasse un
dente «criminale» che era all'origine di tutti i guai. Alla fuoruscita del sangue, tutti si raccolsero
gioiosamente intorno al paziente che stava svenendo complimentandosi vivamente per la sua
guarigione». La differenza è che ricomporre conflitti e allentare tensioni, curare il corpo e curare
l'anima, sia del singolo che della collettività, ha un senso in una società in cui tutti i suoi membri si
riconoscono, ma ne ha, forse, molto meno nella nostra in cui la coesione sociale è, ad essere
generosi, ridotta al minimo. Non è quindi né strano né preoccupante questo ripresentarsi dell'elemento magico-religioso come
esigenza umana. Basta pensare alla storia dell'uomo per accorgersi che, ovunque e in qualunque
momento, l'uomo ha cercato risposte alle sue domande nell'ambito del sacro. La storia delle
religioni e dei loro «successi» ne è indiscutibile dimostrazione, così come lo è la storia del
movimento di emancipazione che ha funzionato anche come catalizzatore delle tensioni individuali
e collettive verso un «mondo migliore» promettendo un mitico «paradiso» in terra equivalente del
ben più mitico «paradiso» in cielo di cristiana memoria. Se, come io credo, il magico-religioso è un elemento costante ed ineliminabile della natura umana,
perché gli anarchici, i rivoluzionari dovrebbero esserne esenti? Di fatto non lo sono. Al contrario di
Lanza, la cosa non mi preoccupa affatto. Sono perfettamente cosciente del fatto che la mia scelta
anarchica non è solo razionale: essa risponde anche ad una profonda esigenza emotiva, rende meno
doloroso quel «sentimento dell'assenza», informa e dà un senso a tutta la mia vita. Attraverso una
operazione di classificazione e attraverso l'elaborazione di un universo simbolico complessivo ho
trovato parziali risposte alle mie domande, partendo dalle stesse esigenze e utilizzando lo stesso
metodo di un qualunque «selvaggio». La differenza, ahimé, è che il «selvaggio» vive in funzione
del passato, del presente e del futuro, mentre io vivo solo in funzione del futuro.
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