Rivista Anarchica Online
«Sciopèn» e la politica del favore
di Giulio Manieri
Si sa che questo non è un momento esaltante per il cinema italiano. Consumata la stagione
dell'impegno politico, la commedia all'italiana ha vieppiù attinto alla sua vena macchiettistica e
pecoreccia, sì che il risultato ne sono stati Abatantuono, Pierino e i fratelli Vanzina. I nuovi comici,
dal canto loro, saranno forse nuovi, ma di comico hanno solo l'insistenza con cui pretendono di
appropriarsi di una tale qualifica. Cosa ci sia di comico, ad esempio, in Ecce Bombo non mi è mai
riuscito di capire. Quel film mi provocava altri moti dell'animo che non l'ilarità: tristezza per una
generazione che, bene o male, nella sua insipienza vi si specchia, e per una maniera di comunicare
che si risolve nel soliloquio. Nello squallore, quindi, nel deserto, qualche piccola opera senza troppe pretese spicca come un
inatteso regalo a chi voglia passare due ore intelligenti dinanzi ad uno schermo cinematografico. A
queste, a mio parere, appartiene a pieno titolo Sciopèn, opera prima di Luciano Odorisio, il quale si
è distinto in precedenza come sceneggiatore e non è nuovo al lavoro cinematografico: un'opera
prima, ma non del primo arrivato. Prima di indugiare sui pregi e difetti del film in questione fa
conto accennare alla trama. Questa è estremamente semplice. Siamo a Chieti nella provincia abruzzese, e un ente pubblico non meglio identificato ha deciso di
ridare vita ad un'antica istituzione cittadina: la banda, che è in verità una vera e propria orchestra
(centoventi elementi). «Centoventi elementi», si ripete compiaciuto il maestro Michele Placido, che
- grazie anche ai favori che la moglie (Giuliana De Sio) dispensa ad un facoltoso e maturo uomo
politico locale (Lino Troisi) - pare designato a dirigere il complesso musicale. «Centoventi
elementi», ripete agli amici che sono convenuti nella sua confortevole abitazione per celebrare
l'avvenimento. Ma si sono fatti i conti senza l'oste. Nella fattispecie l'oste è Nicolino (Tino Schirinzi), un personaggio ben noto nella provincia
italiana, l'«amico» che si rotola nell'invidia per il compagno di scuola, di lavoro, di squadra, che ha
avuto di più dalla vita, il «successo», una «bella moglie», la dignità di farsi chiamare «dottore»,
«avvocato», «professore». Titoli questi importantissimi in provincia, e ancor più nel Meridione, dove la rivoluzione
industriale non è mai passata, e con essa lo spirito calvinistico-capitalistico. Qui il denaro è, rispetto
allo status, al titolo (un tempo onorifico, il «cavaliere», o nobiliare, il «marchese»; ora di studio, il
«dottore» appunto) assai meno importante. Quello lì sarà pure un arricchito, ma sua madre teneva
una bettola, e lui rimane sempre un villano. Non sarà mai ammesso, nonostante possa comprarsi
l'intero paese e qualcosa in più ancora, tra la buona società: non sarà ammesso a godere della
dignità del galantuomo. Così Nicolino, che è rimasto infermiere, cova sentimenti poco piacevoli
verso i suoi amici «famosi» e «riusciti». E ricorre al pettegolezzo, al «taglia e cuci» si direbbe in
dialetto siciliano che rende quell'attività con maggiore chiarezza. Una parola ben detta,
un'insinuazione gettata là con nonchalance, e il sospetto s'insinua nella mente della vittima
prescelta, mentre tutta la cittadina si impadronisce di un segreto che è solo un'invenzione malvagia. Cosa fa allora Nicolino? Sussurra a Michele Placido, il maestro, che in giro si dice che il prescelto
non è lui, bensì Adalberto Maria Merli, musicista più noto che ha preso il volo per Milano dove
lavora (oh! meraviglia) per la Rai-Radiotelevìsione italiana. Qui scatta un altro meccanismo
d'invidia, più pacato in verità, tra il musicista di provincia e il suo compagno di studi che è riuscito
a fare il salto nel «giro» nazionale. La voce si sparge, ed arriva per vie traverse (come quelle della provvidenza divina) al musicista
milanese. Questi è tutt'altro che soddisfatto. Stenta a mantenere le posizioni, gli offrono non più la
direzione di un complesso ma un posto di musicista diretto da altri: retrocessione vissuta come una
denigrazione. «Centoventi elementi», ripete anche lui, facendo balenare alla moglie (restia) la
possibilità di tornare a Chieti. A Chieti Adalberto Maria Merli ci torna. Ma adesso solo per saggiare il terreno, per sapere quanto
c'è di vero in quelle voci. Il ritorno al paese da cui si è partiti vent'anni addietro è desolante, come
ben sa chi è andato via dal suo e vi torna di tanto in tanto. La sensazione della dissoluzione degli
antichi legami parentali. La dissoluzione della città, anche. Adalberto incontra nel bar centrale della centralissima piazza del centro un vecchio compagno di
conservatorio. E' Nestorino, che all'esame del primo anno presentò come suo lavoro un notturno di
Chopin, e d'allora fu noto ai compagni come Sciopèn. Sciopèn, inetto dinanzi ad uno spartito, non
lo è stato altrettanto nello studio delle pandette. E' avvocato e, quel che più conta, uomo politico
potente, dispensatore di favori e raccattatore di voti. Il musicista milanese, ignaro, lo motteggia un
po', e si sottrae con sufficienza ad un suo abbracciante invito a pranzo. La notizia sussurrata da Nicolino ha un effetto di ritorno. Si ripercuote sulla decisione già presa, e i
potenti locali, che utilizzano saggiamente arti e cultura per accaparrare consensi, si orientano verso
il milanese, che è più noto e darebbe più lustro all'iniziativa. Lo contattano e gli propongono la
direzione del concerto d'apertura. Adalberto accetta a condizione che, per correttezza, sia il primo
designato, Michele Placido, a volerlo. Di conseguenza, tutto cade. Della banda, per ora almeno, non
si parla più. Si parlano tra loro i due maestri, mentre Adalberto attende il treno che lo riporti a
Milano. Due vite si confrontano, e non si sa quale sia quella vincente. Entrambi però, nonostante
quel po' di compromessi e frustrazione che si trascinano dentro, continuano a vivere per quella loro
passione autentica che è la musica. Il prossimo anno il «miserere», ciò è quanto importa alla fine.
Un'ultima rivelazione per Adalberto è Sciopèn. Sciopèn, che era più duro d'un chiodo, zimbello
della classe, decide del destino della gente. «Però», si dice tra sé e sé il maestro in partenza
rammentando il pranzo schivato. La trama è semplice, ma non esile. L'intreccio delle situazioni ben costruito, e ciò si fa tanto più apprezzare considerando l'apparente
banalità della storia. E poi si ride, si ride veramente, senza sforzo, ma con una punta di amarezza,
così come si addice alle persone intelligenti. L'interpretazione dei vari caratteri si distingue per la
mancanza di sbavature. Buono il pur sempre non felice Placido, eccellente Merli, ottimi Lino
Troisi, e soprattutto Tino Schirinzi. Anche Giuliana De Sio, utilizzata purtroppo anche qui per
mostrare la coscia, sembra voler dare più di quanto le è concesso. Una menzione va fatta anche
della colonna sonora, che è fatta di poche canzonette e di qualche pezzo classico, messi al punto
giusto per porre l'accento su un momento, uno stacco. Un film complessivamente buono, dalla regia
attenta, senza sbavature ripeto. Ed è tanto in tempi di sbrodolature e di neo-barocchismo. «Però», si dice tra sé e sé Adalberto Maria Merli, alla notizia che Sciopèn è divenuto il notabile
locale. E' un'esclamazione a metà tra il rimpianto dell'occasione mancata (il mancato utile aggancio
col potere) e la considerazione (triste) che è «questa gente» che determina le cose che facciamo. Gli
incompetenti, i tardi, i lecchini di una volta, te li ritrovi nella commissione d'esame, in uno scranno
di Tribunale, in una poltrona parlamentare. E' la selezione a rovescio, che premia non il merito ma
il servilismo. Né potrebbe essere altrimenti, come vagheggia qualche ostinato meritocratico. Posta
la gerarchia, la si percorre verso l'alto piegandosi alle sue leggi, e queste vogliono una cosa
principalmente: che si chini il capo e si pronunci l'ossequio. Ma c'è qualcosa di nuovo nella composizione e nella condotta della nostra classe politica, che
Sciopèn, per quanto con due pennellate, ci segnala. Quando Sciascia scrive che la classe politica
italiana ha adottoato il modello mafioso di potere, non si deve subito pensare al lato più
spettacolare, direi esterno, del comportamento mafioso: minacce, morti ammazzati, ma alla sua rete
di consenso (estesissima) basata sul favore. Il favore fa si che il potere si capillarizzi, sia
dappertutto, e che essendo in tutti (perché tutti ne approfittano) sia inattaccabile. E' potere totale,
perché il consenso è totale (in ogni luogo, in ogni testa). Se il posto di lavoro, la concessione
edilizia, la licenza, il trasferimento, divengono oggetto di contrattazione politica (il voto o la tessera
contro quel certo provvedimento), se insomma ogni evento un minimo importante della vita di una
persona qualunque passa attraverso le forche caudine del favore, il potere si allarga a dismisura e si
fa tutti (i beneficiati) complici. Se io accetto la mediazione politica per il «posto», come potrò
domani rivoltarmi contro di essa o solo sentirmene distante? La società si corrompe, perché il
potere possa infine esclamare «chi è senza peccato scagli la prima pietra». Nella provincia descritta da Sciopèn quest'intreccio di favori, di «amicizie», è più evidente, più
radicato che nella grossa città (dove pure esiste, eccome). Nei paesi del Sud, dove da sempre si
procede per favori, la nuova classe politica ha trovato la sua roccaforte. Constata l'ineffabile
Scalfari, commentando l'ultimo risultato elettorale, che la DC è ora solo un partito agricolo, forte in
privincia e debole nelle metropoli, e da questo dato deduce la sua obsolescenza. Ma quello (l'essere
«agricolo», «meridionale») è, invece, il segno della modernità del partito cattolico. Sono i De Mita,
i Gullotti, i Gava, i Gioia, casi lapalissiani di selezione a rovescio e della novità (mafiosa) della
classe politica italiana. Gullotti è un po' più anziano di Sciopèn, e molto meno brillante e istruito.
Ma quale esempio magnifico, unico forse, di selezione a rovescio. Cuoco, di modesta estrazione
sociale, privo di ogni spessore culturale, egli ha un impero laggiù nella Sicilia che qualche veneto
buontempone desidera dare in pasto all'Etna. Non fa discorsi in piazza, non scrive (chi sa poi se
legge) articoli, tantomeno libri, ed è Ministro dei Beni Culturali. Però ...
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