Rivista Anarchica Online
Yol, un film sulla libertà
di Giulio Manieri
In Italia si sa poco o niente della Turchia, non solo degli avvenimenti politici contemporanei ma
anche della lunga storia di quel paese. L'ignoranza diviene assoluta quando si passa alle espressioni
culturali, alla letteratura e alle arti della gente anatolica. Se a qualcuno, bene intenzionato, venisse
la voglia di leggersi qualcosa sull'argomento, ed andasse perciò a consultare lo schedario di una
qualunque biblioteca italiana, egli troverebbe ben poco, qualche libro sulla battaglia di Lepanto,
qualche altra cosa sui pirati ottomani e sull'assedio di Vienna. E sarebbe tutto. Non esiste in lingua
italiana una dignitosa storia della Turchia, non esiste uno studio serio sulla rivoluzione kemalista, e
tantomeno su quanto ne è seguito dagli anni Venti fino ai giorni nostri. Lo stesso mondo accademico, così ghiotto di esotici orticelli da coltivare gelosamente, ha disdegnato la terra che fu
degli Osman. Non potrebbe, allora, che essere il benvenuto un film, come Yol di Yilmaz Güney,
che ci dà un'immagine fedele, finalmente non di maniera, della realtà sociale turca. Il pregio di Yol, tuttavia, non è solo quello di offrirci uno spaccato della realtà turca. Il film, che
Güney ha diretto da un carcere e realizzato grazie al suo collaboratore Serif Goren, descrive
criticamente quella realtà, su di essa pensa, e si sforza di indicare ai suoi connazionali una condotta
d'azione, una via (yol, appunto, in turco). L'opera di Güney, inoltre, ha lo spessore dell'opera d'arte,
sia dal punto di vista formale della buona cinematografia, sia da quello sostanziale del contenuto
che si innalza progressivamente dalla descrizione alla meditazione al lirismo. Questo film è intriso di dolore e di pietà, di dolore per la violenza che si subisce e di pietà per le
vittime della violenza che non si riesce a far meno di infliggere. Veniamo alla trama. Un gruppo di
cinque detenuti nell'isola egea di Imrali ottiene un permesso di sei giorni per tornare a vedere le
rispettive famiglie. Di questi cinque, due sono in un certo senso personaggi minori. Di un primo la
vicenda si interrompe brutalmente perché durante uno degli innumerevoli controlli di polizia viene
colto senza documenti e perciò fermato in attesa di accertamenti: trascorrerà tutta la sua licenza in
una caserma della «Gendarmeria» (una specie di carabinieri turchi). Un secondo, arrivato a
destinazione, si intrattiene con la fidanzata e con i parenti di questa, ma frustrato dal puritanesimo
dei parenti che gli contestano una eccessiva intimità con la fidanzata, scompare nella squallida
stanza di un bordello. Le storie importanti per la dinamica del film sono, dunque, tre. Mehmet è in carcere per una rapina, conclusasi con la morte del suo complice, il cognato, che
avrebbe forse potuto salvarsi se Mehmet vinto dalla paura non lo avesse lasciato a terra e non fosse
fuggito via con l'auto. Di ciò la famiglia della moglie, e la moglie stessa, gli fanno una colpa
capitale. La donna, nelle lettere che gli invia, gli manifesta il suo trovarsi in mezzo tra l'amore verso
di lui e la fedeltà alla famiglia paterna: Mehmet ama la moglie, ha carezzato per tanto tempo l'idea
di riabbracciare lei ed il figlio: la sua destinazione è perciò il villaggio del suocero. Qui viene
accolto così come si addice a un traditore secondo il costume patriarcale e scacciato dalla casa in
cui vive, sottomessa al padre e ai fratelli, la moglie tanto desiderata. Mehmet confessa la sua paura,
e la sua colpa, ma rivendica l'affetto dei suoi. Inutilmente sembrerebbe, se l'indomani la famiglia
del suocero non fosse scossa dalla notizia che la figlia ed il nipote sono fuggiti col traditore mille
volte maledetto. Qui giungiamo all'epilogo della vicenda, e ad uno dei momenti più drammatici del
film. Mehmet con i suoi è su uno di quei treni turchi, sempre così affollati di umanità dolente, che
ricorda i nostri che dal Sud o verso il Sud trascinano il loro carico di carne da fatica. Sono anni che
l'uomo e la donna non si vedono, la tenerezza si trasforma in desiderio insopportabile. Si chiudono
così nella toilette per un amplesso che è come lo sfogo di un bisogno. Ma la morale puritana della
gente del popolo non lo permette. I vicini capiscono, tutti capiscono. E' lo scandalo, vissuto come
un insulto alla dignità di ciascuno dei viaggiatori. E' quasi un linciaggio. E sarebbero linciati i due,
se non fosse per l'intervento degli impiegati delle ferrovie che li trattengono minacciandoli di gravi
sanzioni, mentre il loro bambino singhiozza e la donna china il capo per l'enorme vergogna
piombata su di lei da tutti gli angoli del treno. La morale dell'impiegato statale è più aperta alla
pietà, più laica diremmo, di quella ottusa dei contadini vocianti contro la coppia. Fatto che
dovrebbe far riflettere sulla fede assoluta nelle forme della socialità popolare contrapposta
all'inumanità del meccanismo giuridico. Non è sempre vero che i costumi di un popolo siano più
liberali delle sue leggi. La fine, per gli sposi, arriva quando il giovanissimo fratello della donna
fredda a colpi di pistola i due, compiendo la legge del clan ben più feroce e intransingente, in
materia di rapporti interpersonali, di quella dello Stato. Seyit Alì ha saputo che la moglie, dopo la sua condanna, è andata in un bordello, abbandonando il
figlio e il genitore. Eppure gli aveva promesso che lo avrebbe aspettato. I fratelli della donna
l'hanno ora ripresa e riportata alla casa del padre. Qui Seyit la ritrova, dopo un lungo viaggio tra la
neve, legata per i piedi nel porcile e cibata a pane ed acqua. Il destino della donna è segnato, non vi
è punizione per lei che possa colmare l'abisso di disonore che si è aperto sotto la sua famiglia. Il
problema è uno solo: chi deve eseguire la sentenza? I fratelli si dichiarano pronti, ma il marito
come tale ha rispetto a loro un diritto di precedenza. E Seyit è deciso, lui, a colpire la svergognata.
La fa liberare dai ceppi che la stringono, la fa nutrire e lavare, la veste degli abiti di festa. La donna
si illude, ricomincia a sperare nell'amore dell'uomo. All'alba la famiglia riparte da quella casa
arroccata nella montagna, deve attraversare un lungo percorso tra la neve. La donna è messa a
camminare con i suoi soli abiti e senz'altro addosso, e priva di racchette. Così, mentre il figlio e il
marito avanzano sicuri nella neve e nel gelo, lei fa fatica, vi affonda, il freddo la vince. La donna ha
capito, è la sua condanna a morte quella che si sta compiendo. Le sue grida, le sue lacrime,
muovono alla pietà Seyit quando lei è ormai caduta sulla neve. Lui tenta di farla riavere, e la frusta
come un cavallo. E' tutto assolutamente inutile. Seyit ha contravvenuto alla raccomandazione del
suocero di non avere pietà, ma troppo tardi. Omer è kurdo. I Kurdi in Turchia sono la minoranza più numerosa e più oppressa. E sono anche
come popolo, al contrario degli armeni abbastanza turchificati, la minoranza più battagliera (è
nell'Est, nel Kurdistan, che il generale Evren ha ottenuto la minor percentuale di consensi al suo
referendum). Ai Kurdi, dai tempi di Kemal Atatürk, è fatto divieto di parlare la loro lingua, è
proibito perfino dirsi Kurdi: essi sono, nella lingua ufficiale della Repubblica, «turchi di
montagna». Il Kurdistan turco è quindi la parte più militarizzata del paese. Solo a pochi in
Occidente è noto che la legge marziale vigeva in quella regione anche prima del colpo di stato del
12 settembre 1980. Omer torna dopo il colpo di stato e vede i villaggi kurdi divenuti terra di
occupazione. Quando cala la notte scattano i rastrellamenti: villaggio per villaggio, catapecchia per
catapecchia, alla ricerca di sovversivi e di contrabbandieri. Il contrabbando è una delle attività
economiche principali del Kurdistan che, trovandosi al crocevia di più stati, offre per quel lavoro
una posizione logistica ideale. Il fratello di Omer è contrabbandiere, così a sentire le raffiche di
mitra che risuonano tutta la notte, la famiglia veglia e trema per la sua sorte. Una di quelle notti
insonni un gruppo non si arrende ai soldati. Tra di loro, esposti come bestie macellate perché siano
riconosciuti, Omer vede il fratello. Dinanzi ai militari che li mostrano ai contadinii nessuno tradirà
un segno di dolore: sono dei forestieri, mai visti. L'epilogo per Omer è stretto anch'esso nella
contrapposizione tra una socialità ferocemente oppressa e il nucleo patriarcale e autoritario di essa.
Omer se decide di non tornare in carcere e di darsi alla macchia, deve per la legge patriarcale
sposare la vedova del fratello e con ciò rinunciare al proprio amore, una ragazza tutta occhi del
villaggio. Al momento stesso in cui monta a cavallo e decide per la libertà, egli deve sottostare
all'implacabile autorità della legge clanica. Quello che è un atto di rivolta è anche, così, un gesto di
sottomissione. Come si vede, le vicende che ci narra Güney sono storie di libertà. Di libertà, per quanto
provvisoria, dall'universo carcerario, innanzi tutto. Di libertà, poi e soprattutto, dalla ferrea
regolamentazione patriarcale dei rapporti tra uomini e in particolare tra uomini e donne. Mehmet
contravviene alla legge familiare e rivendica la propria paura, e la sua donna infrange la regola
mettendo l'amore al primo posto rispetto all'onore del clan. Il prostituirsi della donna di Seyit è
anch'esso a suo modo un gesto di liberazione, e la libertà arriva a Seyit per il tramite della pietà:
ancora una volta l'amore, la stima dell'essere umano in quanto tale, ha la meglio sulla
considerazione dello status, del ruolo, fissato una volta per tutte nella gerarchia dei rapporti sociali.
Di libertà, infine, contro il regime militare che fa di tutta la .. Turchia un'immensa prigione. Omer
non ritorna in carcere allo scadere del permesso, la sua è una scelta esplicita di rivolta contro il
potere politico che opprime e uccide i suoi fratelli. Il film, tuttavia, non si intrattiene tropo a descriverci l'azione della giunta del generale Evren, la sua
«politicità» è più profonda. Essa, infatti, tocca la natura non tanto del regime politico quanto della
società turca. Güney ci dice che non è questione, o non è solo e soprattutto questione, di una società
che debba liberarsi semplicemente dal fardello di un regime politico crudele e oppressivo. E'
questione di riformulare lo stesso modo di essere della società, di liberare i rapporti umani che in
essa sono tuttora stretti entro i ruoli della comunità patriarcale, di emancipare la donna vittima delle
vittime. Così facendo, scacciando dalla propria sfera il contenuto di violenza che vi si esprime,
risulterà agli individui ancora più ingiusta e intollerabile quell'altra più grande violenza che il
potere militare esercita sul disgraziato popolo turco.
|