Rivista Anarchica Online
Un manifesto al femminile
di Claudia Vio
Non deve essere sfuggita a molti una singolare anomalia nell'universo dei manifesti politici degli
ultimi due lustri. Per esempio, per la morte di Giorgiana Masi avvenuta "accidentalmente"
durante uno scontro con la polizia nel '77, il manifesto affisso dalle femministe mostra un gruppo
di donne sedute a semicerchio intorno a una ragazza anch'essa seduta che parla attraverso un
microfono. Il gruppo appare più serrato e contratto che aggressivo, il luogo sembra più un interno
per una foto ricordo che una piazza. Il testo dice "... se la rivoluzione d'ottobre / fosse stata di
maggio / se tu vivessi ancora / se io non fossi impotente di fronte al tuo assassinio / se la mia
penna fosse un'arma vincente / se la mia paura esplodesse nelle piazze, ecc. ecc.": è una poesia. Il
manifesto è firmato "Le compagne femministe", anche se la poesia viene pronunciata
grammaticalmente da una sola persona. Evidentemente le firmatarie del manifesto si riconoscono
in un unico soggetto, fanno corpo unico e si esprimono con un "Io" (... Se io non fossi impotente
di fronte al tuo assassinio...). Vicino alla firma è una minuscola sigla femminista, messa lì tanto
per gradire, come un "punto a capo". A chi si rivolgono queste donne? A Giorgiana, è chiaro, lo dice
il manifesto stesso. È una
finzione letteraria questa? Le femministe vogliono forse parlare alla compagna assassinata, ma in
realtà amiccano a qualcun altro? No, Giorgiana è effettivamente la persona a cui viene
rivolto il
discorso. Il manifesto sembra essere stato fatto più per il piacere di scriverlo che per l'utilità di
leggerlo. Non invita nessuno ad alcunché, non incita nessuno in modo particolare; chi lo legge
rimpiange di non averlo realizzato con le proprie mani, e sottoscrive; chi lo ha fatto ha parlato di
se stessa sussurrando alla compagna. Non è un tipo di manifesto che inchiodi il lettore con la
presenza delle sue immagini e la folgorante sinteticità del suo slogan. Richiede pazienza. In alto,
c'è una scritta: forse un invito a una manifestazione. Ma l'informazione sembra quasi essere
espulsa dal corpus del manifesto; e in ogni caso non è esplicita, né circostanziata con luogo e
data. L'invito infine è firmato politicamente, ma è solo un pro forma. La vera firma è sotto
"Le
compagne femministe" e serve a sottolineare quello che è il soggetto protagonista del manifesto:
le donne. È un manifesto insomma parlato delle donne e che parla delle donne. È forse una
rarità per le femministe un manifesto di questo genere? Per niente. Non solo non
sono rari i manifesti scritti in forma di vera e propria poesia ("ci hanno separate / ci hanno
incatenate /chiuse in quattro mura in via del Piano 3...", così comincia il manifesto scritto dal
carcere di Marassi), ma anche le altre caratteristiche del manifesto dedicato a Giorgiana si
ritrovano un po' in tutti gli altri. I manifesti femministi parlano a se stessi, fra "sé e sé". Le
immagini eroizzanti, tra il garibaldino e il leninista, che hanno inperversato nell'extra-sinistra di
questi anni, si contano sulle dita. Altrettanto rari sono gli appelli, le arpionate propagandistiche.
Se ci sono, hanno tutte la forma della dichiarazione in prima persona, al plurale, ad esempio:
"Donne, siamo più della metà e non contiamo niente - facciamo nostro il nostro destino -
facciamo insieme la nostra lotta" oppure "Alle donne: facciamoci sentire - lottiamo insieme per
una società senza ruoli - senza privilegi - senza discriminazioni". Come dire: io, femminista, mi
metto nel mazzo. Invito te, donna, a fare questa data cosa, e lo faccio perché sono donna anch'io,
uguale a te. È forse pudore questo? Intendo, pudore intellettuale contro la ridondanza e la vacuità
del trionfalismo politico e l'ambiguità del messaggio pubblicitario? È forse una rivendicazione di
castità ideologica? È probabile. Tanto più che gli slogans sopracitati sono chiaramente
prolissi,
nient'affatto memorizzabili in una ripetizione automatica e demoniaca. Nella loro purezza e con
l'insuperabile e tragica comicità della voce nel deserto, invitano semplicemente a "svegliarsi",
incitano a una generica lotta, a uscire dal torpore. Non si può certo parlare di oblique parole usate
per loschi fini. Più efficaci sono le scritte che invece che indicare didascalicamente il da farsi, esprimono
ciò che
pensa il firmatario - la firmataria, in questo caso - del manifesto. Le frasi sono finalmente brevi,
immediate, efficaci. Lo sono perché in questo caso la femminista è nel suo habitat ideale: si
rivendica protagonista del proprio destino; si esprime in una protesta senza repliche: "D'ora in
poi decido io - anticoncezionali per non abortire - aborto libero per non morire", "Non siamo
strumenti di riproduzione - ma donne in lotta per la liberazione", ecc.. Dove c'è, in primo piano,
la donna/femminista che parla e agisce in prima persona, là il manifesto femminista - nella
scrittura e nelle immagini - diventa qualcosa di compiuto e tipico. Non solo gli slogans infatti,
ma anche la parte figurata è in tutto e per tutto accentrata sull'emittente della comunicazione; fa
poca leva sul destinatario; non indica un modello, ma è il mezzo con il quale la femminista si
autoritrae. È una catena ininterrotta, l'insieme dei manifesti femministi, di attributi dati alla
donna dalle donne. Tutte insieme queste immagini formano la descrizione del "femminile"
secondo l'immaginario femminista. La donna si disegna, nei manifesti femministi, si proietta, si
specchia. Molto meno comunica. Protagonista delle immagini è dunque la donna. La costellazione che
i vari tipi femminili
formano è molto ampia; la preferenza va al tipo donna moderna dall'età indefinita e di
imprecisata classe sociale. Non manca però l'immagine decadentista, accanto alla forte e
leggendaria Nika, la foto di gruppo con patina d'antico e di tradizione, assieme al simbolo
femminile. Molto numerose, esplicitamente lontane da volontà retoriche o imperiose, vere e
proprie proiezioni dell'io femminista, sono le immagini grafiche disegnate con un segno
sottilissimo (che voglia sfuggire il lettore?), con l'appiattimento delle figure e dei volumi, in
controluce, o rovesciando il bianco e nero, facendo apparire le donne come ombre. Il penultimo
numero di "A" ha riprodotto in copertina una di queste immagini; quel poco di retorica della
battaglia che è in queste figure (il pugno teso, la corsa) è come svuotato, come immerso nel
silenzio delle ombre cinesi. Sagome, profili, controluce, figure che esprimono lo slancio, il volo,
la gestazione. Tutto risponde perfettamente, in questo immaginario, a quello che è il succo - sul
piano culturale - dell'esperienza femminista di questi anni: affermare, anzi imporre, la donna
nella storia. Ma perdersi, anche nella sua determinazione, distendersi nel definirla, nella fatica di
Sisifo di farla uscire dal nulla dove l'ha cacciata il passato. Queste due facce del femminismo
sono sotto i nostri occhi: la donna si è posta al centro della comunicazione (il manifesto), ha
parlato in prima persona, si è espressa imperiosamente, ha parlato per se stessa. È esistita più
che
cercare la persuasione, l'appoggio, la compiacenza. Contemporaneamente, ha girato senza sosta
su se stessa: niente di strano che del nulla - da tutto ciò che è stato negato (il contributo della
donna nella storia) e di ciò che si vuole negare (l'immagine femminile voluta dall'uomo) - escano
delle ombre. "La musica, per sua natura, scompare con il vento; le streghe, d'altra parte, sono
diventate cenere, - dice Meri Franco-Leo - "Tuttavia, si può pensare a una musica di donne
sulla
quale si è abbattuta la repressione. Intendo per strega la figura metonimica di donna e di
repressione, qualifichiamola come musica strega: una musica di segno femminile che è stata
sistematicamente emarginata, perseguitata e sterminata, e della quale non ci è pervenuto che
qualche residuo superstite" (1). E facendo dell'emarginazione un'apoteosi, Elisabetta Rasy
afferma che l'"espressione femminile" è "un linguaggio segreto che elude le costrizioni della
Storia e che si pone "fuori" dai "segni" e dai "tempi" del Padre, al di qua dell'Edipo (...) a
partire dall'impossibilità di accedere alle pratiche significanti, dall'interdizione dai codici di
ogni linguaggio" (2). È dunque il contenuto di queste affermazioni ideologiche che
"trasferendosi" nell'immaginario, nel mondo dei segni visivi - nei manifesti in questo caso - si
trasforma in segno/attributo dell'immagine femminile, in ciò che la rende anomala, sfuggente,
con forma di fantasma. Più in là, altri contenuti ideologici modificano addirittura il
modo della
comunicazione. Il manifesto femminista trascura il destinatario, si è detto: è facilmente
interiorizzante, lirico, esclusivo. Ora, chi non ricorda che la ben nota "autocoscienza femminista"
ha avuto un carattere spiccatamente segreto, implicito, chiuso? Al di là di ciò che essa ha voluto
essere (una nuova pratica di lotta, una terapia psicanalitica, il luogo del separatismo ecc.) - essa è
stata principalmente un sistema di rapporti interpersonali fondati sul riconoscimento reciproco,
sul rispecchiamento e l'identificazione di ciascuna componente del gruppo nell'altra, in un
processo produttivo, espressivo, creativo chiuso agli "estranei", all'interlocutore esterno, a un
qualsiasi fruitore o pubblico o destinatario non disposto a farsi coinvolgere dall'osmosi che lega il
gruppo. La dimensione dell'autocoscienza è stata spesso quella concreta e ridottissima del gruppo
di poche persone raccolte in una stanza, quella ideale dell'interiorità. Questo modo ideologico di
intendere la comunicazione interpersonale caratterizza anche la comunicazione che passa
attraverso i manifesti. L'ideologia, in altre parole, trasforma la comunicazione, porta un
cambiamento nella tradizione, apre quell'anomalia di cui si parlava all'inizio. E cioè dà vita a un
manifesto che anziché persuadere subdolamente, si accontenta di riferire (moltissimi infatti sono
i manifesti femministi del tutto privi di slogans); anziché prendere di mira il passante e
sollecitarlo, si offre quasi in sordina, quasi sfuggendolo; anziché persuadere, si propone come il
risultato di un gesto che si compiace di essere creativo. Tutto ciò è strano nel mondo roboante dei
manifesti politici. Strano, ma coerente con i principi del femminismo, e questa coerenza non è
programmata, non è prevista da un codice estetico dettato dell'ideologia. Soprattutto c'è coerenza
tra questo modo femminista di comunicare attraverso il manifesto, e le idee inconsce - ma tenaci
e in cui tutte le femministe si riconoscono - che percorrono il movimento delle donne. Quando
per esempio Carla Lonzi scrive: "Il femminismo ha inizio quando la donna cerca risonanza di sé
nell'autenticità di un'altra donna perché capisce che il suo unico modo di ritrovare se stessa è
nella sua specie...", ecco, di fronte a queste affermazioni non vien fatto di pensare al linguaggio
interiore, tutto rivolto alla "stessa specie", solipsistico, dei manifesti femministi? E queste che
abbiamo citato non sono affermazioni politiche, ma semmai osservazioni esistenziali che
diventano anche politiche proprio attraverso la trasformazione spontanea - e ampiamente
accettata da chi si riconosce nel femminismo - del codice estetico e della comunicazione. Certamente, il
manifesto da solo non può esaurire l'intero patrimonio dell'immaginario
femminista; né il femminismo può essere considerato un fenomeno esemplare in assoluto,
chiarificatore una volta per tutte dei rapporti che intercorrono tra ideologia e arte, che
sono quelli
che qui interessano. Si può però proporre una lettura di questi rapporti (e il femminismo funziona
da "cavia") con trasferimento ripeto, di contenuti ideologici verbali
insegni/attributi
dell'immagine femminile, immagine nella quale si proietta tutto il femminismo consapevole. È
un primo approccio, ripeto, al problema dei rapporti tra l'arte e l'ideologia, ed è, inevitabilmente,
intenzionalmente, fondato sull'esperienza reale, sul già esistente, necessario precedente di
qualsiasi affermazione teorica; in ottimistica attesa di altri interventi; mirante, è questo lo scopo,
a concludere infine in ciò che è specificamente e solidamente libertario.
(1) M. Franco-Leo, Musica Strega, Edizioni delle donne, Roma 1977,
p.15. (2) E. Rasy, La lingua della nutrice, Edizioni delle donne, Roma 1978,
p.59.
|