Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 10 nr. 87
novembre 1980


Rivista Anarchica Online

Un manifesto al femminile
di Claudia Vio

Non deve essere sfuggita a molti una singolare anomalia nell'universo dei manifesti politici degli ultimi due lustri. Per esempio, per la morte di Giorgiana Masi avvenuta "accidentalmente" durante uno scontro con la polizia nel '77, il manifesto affisso dalle femministe mostra un gruppo di donne sedute a semicerchio intorno a una ragazza anch'essa seduta che parla attraverso un microfono. Il gruppo appare più serrato e contratto che aggressivo, il luogo sembra più un interno per una foto ricordo che una piazza. Il testo dice "... se la rivoluzione d'ottobre / fosse stata di maggio / se tu vivessi ancora / se io non fossi impotente di fronte al tuo assassinio / se la mia penna fosse un'arma vincente / se la mia paura esplodesse nelle piazze, ecc. ecc.": è una poesia. Il manifesto è firmato "Le compagne femministe", anche se la poesia viene pronunciata grammaticalmente da una sola persona. Evidentemente le firmatarie del manifesto si riconoscono in un unico soggetto, fanno corpo unico e si esprimono con un "Io" (... Se io non fossi impotente di fronte al tuo assassinio...). Vicino alla firma è una minuscola sigla femminista, messa lì tanto per gradire, come un "punto a capo".
A chi si rivolgono queste donne? A Giorgiana, è chiaro, lo dice il manifesto stesso. È una finzione letteraria questa? Le femministe vogliono forse parlare alla compagna assassinata, ma in realtà amiccano a qualcun altro? No, Giorgiana è effettivamente la persona a cui viene rivolto il discorso. Il manifesto sembra essere stato fatto più per il piacere di scriverlo che per l'utilità di leggerlo. Non invita nessuno ad alcunché, non incita nessuno in modo particolare; chi lo legge rimpiange di non averlo realizzato con le proprie mani, e sottoscrive; chi lo ha fatto ha parlato di se stessa sussurrando alla compagna. Non è un tipo di manifesto che inchiodi il lettore con la presenza delle sue immagini e la folgorante sinteticità del suo slogan. Richiede pazienza. In alto, c'è una scritta: forse un invito a una manifestazione. Ma l'informazione sembra quasi essere espulsa dal corpus del manifesto; e in ogni caso non è esplicita, né circostanziata con luogo e data. L'invito infine è firmato politicamente, ma è solo un pro forma. La vera firma è sotto "Le compagne femministe" e serve a sottolineare quello che è il soggetto protagonista del manifesto: le donne. È un manifesto insomma parlato delle donne e che parla delle donne.
È forse una rarità per le femministe un manifesto di questo genere? Per niente. Non solo non sono rari i manifesti scritti in forma di vera e propria poesia ("ci hanno separate / ci hanno incatenate /chiuse in quattro mura in via del Piano 3...", così comincia il manifesto scritto dal carcere di Marassi), ma anche le altre caratteristiche del manifesto dedicato a Giorgiana si ritrovano un po' in tutti gli altri. I manifesti femministi parlano a se stessi, fra "sé e sé". Le immagini eroizzanti, tra il garibaldino e il leninista, che hanno inperversato nell'extra-sinistra di questi anni, si contano sulle dita. Altrettanto rari sono gli appelli, le arpionate propagandistiche. Se ci sono, hanno tutte la forma della dichiarazione in prima persona, al plurale, ad esempio: "Donne, siamo più della metà e non contiamo niente - facciamo nostro il nostro destino - facciamo insieme la nostra lotta" oppure "Alle donne: facciamoci sentire - lottiamo insieme per una società senza ruoli - senza privilegi - senza discriminazioni". Come dire: io, femminista, mi metto nel mazzo. Invito te, donna, a fare questa data cosa, e lo faccio perché sono donna anch'io, uguale a te. È forse pudore questo? Intendo, pudore intellettuale contro la ridondanza e la vacuità del trionfalismo politico e l'ambiguità del messaggio pubblicitario? È forse una rivendicazione di castità ideologica? È probabile. Tanto più che gli slogans sopracitati sono chiaramente prolissi, nient'affatto memorizzabili in una ripetizione automatica e demoniaca. Nella loro purezza e con l'insuperabile e tragica comicità della voce nel deserto, invitano semplicemente a "svegliarsi", incitano a una generica lotta, a uscire dal torpore. Non si può certo parlare di oblique parole usate per loschi fini.
Più efficaci sono le scritte che invece che indicare didascalicamente il da farsi, esprimono ciò che pensa il firmatario - la firmataria, in questo caso - del manifesto. Le frasi sono finalmente brevi, immediate, efficaci. Lo sono perché in questo caso la femminista è nel suo habitat ideale: si rivendica protagonista del proprio destino; si esprime in una protesta senza repliche: "D'ora in poi decido io - anticoncezionali per non abortire - aborto libero per non morire", "Non siamo strumenti di riproduzione - ma donne in lotta per la liberazione", ecc.. Dove c'è, in primo piano, la donna/femminista che parla e agisce in prima persona, là il manifesto femminista - nella scrittura e nelle immagini - diventa qualcosa di compiuto e tipico. Non solo gli slogans infatti, ma anche la parte figurata è in tutto e per tutto accentrata sull'emittente della comunicazione; fa poca leva sul destinatario; non indica un modello, ma è il mezzo con il quale la femminista si autoritrae. È una catena ininterrotta, l'insieme dei manifesti femministi, di attributi dati alla donna dalle donne. Tutte insieme queste immagini formano la descrizione del "femminile" secondo l'immaginario femminista. La donna si disegna, nei manifesti femministi, si proietta, si specchia. Molto meno comunica.
Protagonista delle immagini è dunque la donna. La costellazione che i vari tipi femminili formano è molto ampia; la preferenza va al tipo donna moderna dall'età indefinita e di imprecisata classe sociale. Non manca però l'immagine decadentista, accanto alla forte e leggendaria Nika, la foto di gruppo con patina d'antico e di tradizione, assieme al simbolo femminile. Molto numerose, esplicitamente lontane da volontà retoriche o imperiose, vere e proprie proiezioni dell'io femminista, sono le immagini grafiche disegnate con un segno sottilissimo (che voglia sfuggire il lettore?), con l'appiattimento delle figure e dei volumi, in controluce, o rovesciando il bianco e nero, facendo apparire le donne come ombre. Il penultimo numero di "A" ha riprodotto in copertina una di queste immagini; quel poco di retorica della battaglia che è in queste figure (il pugno teso, la corsa) è come svuotato, come immerso nel silenzio delle ombre cinesi. Sagome, profili, controluce, figure che esprimono lo slancio, il volo, la gestazione. Tutto risponde perfettamente, in questo immaginario, a quello che è il succo - sul piano culturale - dell'esperienza femminista di questi anni: affermare, anzi imporre, la donna nella storia. Ma perdersi, anche nella sua determinazione, distendersi nel definirla, nella fatica di Sisifo di farla uscire dal nulla dove l'ha cacciata il passato. Queste due facce del femminismo sono sotto i nostri occhi: la donna si è posta al centro della comunicazione (il manifesto), ha parlato in prima persona, si è espressa imperiosamente, ha parlato per se stessa. È esistita più che cercare la persuasione, l'appoggio, la compiacenza. Contemporaneamente, ha girato senza sosta su se stessa: niente di strano che del nulla - da tutto ciò che è stato negato (il contributo della donna nella storia) e di ciò che si vuole negare (l'immagine femminile voluta dall'uomo) - escano delle ombre. "La musica, per sua natura, scompare con il vento; le streghe, d'altra parte, sono diventate cenere, - dice Meri Franco-Leo - "Tuttavia, si può pensare a una musica di donne sulla quale si è abbattuta la repressione. Intendo per strega la figura metonimica di donna e di repressione, qualifichiamola come musica strega: una musica di segno femminile che è stata sistematicamente emarginata, perseguitata e sterminata, e della quale non ci è pervenuto che qualche residuo superstite" (1). E facendo dell'emarginazione un'apoteosi, Elisabetta Rasy afferma che l'"espressione femminile" è "un linguaggio segreto che elude le costrizioni della Storia e che si pone "fuori" dai "segni" e dai "tempi" del Padre, al di qua dell'Edipo (...) a partire dall'impossibilità di accedere alle pratiche significanti, dall'interdizione dai codici di ogni linguaggio" (2). È dunque il contenuto di queste affermazioni ideologiche che "trasferendosi" nell'immaginario, nel mondo dei segni visivi - nei manifesti in questo caso - si trasforma in segno/attributo dell'immagine femminile, in ciò che la rende anomala, sfuggente, con forma di fantasma. Più in là, altri contenuti ideologici modificano addirittura il modo della comunicazione. Il manifesto femminista trascura il destinatario, si è detto: è facilmente interiorizzante, lirico, esclusivo. Ora, chi non ricorda che la ben nota "autocoscienza femminista" ha avuto un carattere spiccatamente segreto, implicito, chiuso? Al di là di ciò che essa ha voluto essere (una nuova pratica di lotta, una terapia psicanalitica, il luogo del separatismo ecc.) - essa è stata principalmente un sistema di rapporti interpersonali fondati sul riconoscimento reciproco, sul rispecchiamento e l'identificazione di ciascuna componente del gruppo nell'altra, in un processo produttivo, espressivo, creativo chiuso agli "estranei", all'interlocutore esterno, a un qualsiasi fruitore o pubblico o destinatario non disposto a farsi coinvolgere dall'osmosi che lega il gruppo. La dimensione dell'autocoscienza è stata spesso quella concreta e ridottissima del gruppo di poche persone raccolte in una stanza, quella ideale dell'interiorità. Questo modo ideologico di intendere la comunicazione interpersonale caratterizza anche la comunicazione che passa attraverso i manifesti. L'ideologia, in altre parole, trasforma la comunicazione, porta un cambiamento nella tradizione, apre quell'anomalia di cui si parlava all'inizio. E cioè dà vita a un manifesto che anziché persuadere subdolamente, si accontenta di riferire (moltissimi infatti sono i manifesti femministi del tutto privi di slogans); anziché prendere di mira il passante e sollecitarlo, si offre quasi in sordina, quasi sfuggendolo; anziché persuadere, si propone come il risultato di un gesto che si compiace di essere creativo. Tutto ciò è strano nel mondo roboante dei manifesti politici. Strano, ma coerente con i principi del femminismo, e questa coerenza non è programmata, non è prevista da un codice estetico dettato dell'ideologia. Soprattutto c'è coerenza tra questo modo femminista di comunicare attraverso il manifesto, e le idee inconsce - ma tenaci e in cui tutte le femministe si riconoscono - che percorrono il movimento delle donne. Quando per esempio Carla Lonzi scrive: "Il femminismo ha inizio quando la donna cerca risonanza di sé nell'autenticità di un'altra donna perché capisce che il suo unico modo di ritrovare se stessa è nella sua specie...", ecco, di fronte a queste affermazioni non vien fatto di pensare al linguaggio interiore, tutto rivolto alla "stessa specie", solipsistico, dei manifesti femministi? E queste che abbiamo citato non sono affermazioni politiche, ma semmai osservazioni esistenziali che diventano anche politiche proprio attraverso la trasformazione spontanea - e ampiamente accettata da chi si riconosce nel femminismo - del codice estetico e della comunicazione.
Certamente, il manifesto da solo non può esaurire l'intero patrimonio dell'immaginario femminista; né il femminismo può essere considerato un fenomeno esemplare in assoluto, chiarificatore una volta per tutte dei rapporti che intercorrono tra ideologia e arte, che sono quelli che qui interessano. Si può però proporre una lettura di questi rapporti (e il femminismo funziona da "cavia") con trasferimento ripeto, di contenuti ideologici verbali insegni/attributi dell'immagine femminile, immagine nella quale si proietta tutto il femminismo consapevole. È un primo approccio, ripeto, al problema dei rapporti tra l'arte e l'ideologia, ed è, inevitabilmente, intenzionalmente, fondato sull'esperienza reale, sul già esistente, necessario precedente di qualsiasi affermazione teorica; in ottimistica attesa di altri interventi; mirante, è questo lo scopo, a concludere infine in ciò che è specificamente e solidamente libertario.

(1) M. Franco-Leo, Musica Strega, Edizioni delle donne, Roma 1977, p.15.
(2) E. Rasy, La lingua della nutrice, Edizioni delle donne, Roma 1978, p.59.