Rivista Anarchica Online
I venditori di illusioni
di Mathilde Niel (traduzione di Aurora F. da Le Monde Libertaire)
Psico-sociologia dell'educazione L'uomo è fondamentalmente egotista e asociale? - O non è forse l'attuale sistema sociale, con la
sua competitività dei rapporti, ad essere responsabile del blocco delle nostre forze vitali? - Il ruolo
mistificante della formazione aziendale: come render felici gli operai per poterli sfruttare ancora
più razionalmente.
Che ne è della formazione alle relazioni umane e alla comunicazione? Quale tipo di uomo e di società
stanno preparando attualmente gli psico-sociologhi nelle imprese e negli istituti di formazione? La
comunicazione autentica non può esistere che tra individui autonomi e uguali - cioè in una società di tipo
libertario - è questo il tipo di rapporti e di società che stanno preparando gli specialisti dei rapporti
umani? O invece la formazione tende a permettere al sistema autoritario e sfruttatore di perpetuarsi, se
pur con meno contrasti, in modo che gli interessati non si rendano conto della loro alienazione? Un
articolo di Dominique Chalvin, "L'era delle relazioni umane", apparso su Le Monde de l'Education ci
fornisce l'occasione di dare una risposta a queste domande primordiali.
La parte introduttiva dell'articolo di Dominique Chalvin sembrerebbe farci credere che la formazione
ai rapporti umani e alla comunicazione - quale viene praticata da numerosi psico-sociologhi - comporti
un radicale cambiamento dell'uomo e della organizzazione sociale. Ma bisogna disincantarsi in quanto
ci si accorge subito che la formazione proposta perpetua il sistema, anzi lo rafforza.
L'autore dapprima constata che "la frequenza a corsi di formazione diminuisce in maniera inquietante
quando viene trattata la formazione pedagogica e tecnica, al contrario la frequenza a quelli di formazione
alle relazioni umane e alla comunicazione continua a svilupparsi". Il successo di questo tipo di
formazione proverrebbe dal fallimento "di un sistema di educazione familiare e scolastica", risultato "di
una cultura fondata sulla colpevolezza, sull'autorità, sul culto della fatica e della sofferenza, sul disprezzo
del piacere... fonte di angoscia e di rigidità".
È per trovare un rimedio a questa angoscia generata dalla civilizzazione che è nato questo appello verso
la formazione alla comunicazione.
L'autore constata inoltre il fallimento del sistema di organizzazione della vita professionale. La divisione
del lavoro e il sistema competitivo reprimono l'espressione dei sentimenti proprio quando numerose
persone sentono il bisogno di esprimersi affettivamente nei rapporti di lavoro...
Dopo tale accusa del nostro ambiente culturale e la constatazione del fallimento si potrebbe logicamente
pensare che una formazione ben compresa deve andare contro l'attuale organizzazione sociale per
sboccare in una società ed una organizzazione familiare ed educativa non-autoritaria, non competitiva,
non repressiva della sensibilità e dei bisogni fondamentali dell'uomo. Ma non è così.
L'autore, che è psico-sociologo in un istituto di formazione ben conosciuto e prospero, sembra, come
altri suoi colleghi, ispirarsi ad un principio freudiano, presentato come verità universale anche se non è
mai stato scientificamente provato.
Questo principio è che ognuno ricerca il propio piacere egotista; l'uomo sarebbe fondamentalmente
egotista e asociale; proverebbe piacere nel possedere e dominare gli altri, a meno che non sia frenato
nella soddisfazione dei suoi istinti dalla volontà degli altri e da norme e valori della società. Se prendiamo
per vero tale principio, ne risulta che ognuno è irrimediabilmente diviso dall'altro e resta potenzialmente
suo nemico; il mutuo appoggio, la comunicazione fraterna e autentica diventano impossibili:
"l'incomunicabilità - dice l'autore - è il destino della comunicazione umana"; "l'essere umano è un
handicappato della comunicazione"; "l'uomo è solo e morrà solo". È dunque "un fallace desiderio"
quello di voler far scomparire nei gruppi "i conflitti di potere nel calore comunicativo degli scambi
spontanei".
Questa visione risolutamente pessimistica dell'uomo, che fu quella di Freud, non è più esatta di una
visione risolutamente ottimistica. L'antropologia culturale, la psicanalisi culturalista di E. Fromm o la
psicanalisi essenziale di Rogers hanno dimostrato che l'uomo poteva essere, secondo le società,
dominatore o cooperante, accaparratore o generoso, aggressivo o solidale: tutto dipende dall'ambiente
socio-culturale nel quale si trova inserito dall'infanzia. Per questi autori, ogni uomo, normalmente
costituito, ha in sé delle possibilità di comunicazione egualitarie ed autonome a condizione che
l'ambiente gli permetta di sviluppare le sue potenzialità e di viverle concretamente nei rapporti umani.
Al contrario, un ambiente gerarchico e competitivo come il nostro genera rapporti di dipendenza, di
conflitto e di aggressività.
Certamente noi tutti dobbiamo assumerci una parte di solitudine in quanto gli individui sono diversi gli
uni dagli altri e tanto più diversi quanto più autonomi. È ugualmente vero che è nostra condizione il
morire soli, ma il sentimento di solitudine diviene patologico e si trasforma in angoscia quando l'altro
è visto come una continua minaccia, quando siamo privati della possibilità di realizzare noi stessi e di
avere rapporti egualitari e fraterni nei vari momenti della nostra vita.
È questo che si è prodotto nelle nostre società industriali e competitive. Noi vivremmo molto meglio la
nostra angoscia esistenziale se ci sentissimo uniti agli altri dalla nascita grazie ad una trasformazione
radicale della vita familiare e scolastica e grazie all'autogestione della vita sociale e professionale nella
quale i nostri bisogni affettivi, di unione e di creatività saranno soddisfatti. Poiché il sentimento
patologico di solitudine (dunque di non-comunicazione) proviene, il più delle volte, da un blocco delle
nostre forze profonde di creatività e di solidarietà, questo sentimento proviene, allo stesso modo,
dall'attuale impossibilità di essere noi stessi e di comunicare realmente, in quanto i nostri statuti sociali
ed i nostri ruoli, fondati su rapporti di dominio-sottomissione, ci dividono irrimediabilmente dagli altri.
Sono dunque il sistema sociale attuale e la competitività dei rapporti che sono in parte responsabili
del blocco delle nostre forze vitali, della repressione della nostra gioia di vivere in armonia con gli altri,
responsabili dunque della nostra angoscia, solitudine e abbandono. Dobbiamo quindi cambiare,
contemporaneamente a noi stessi, questo sistema e questo tipo di rapporti.
I gruppi di evoluzione animati da spirito non-direttivo provano che l'angoscia esistenziale sparisce
quando i partecipanti giungono ad un certo livello di autonomia e di autenticità e quando lavorano
insieme in rapporti di uguaglianza. Dal momento in cui l'altro non è più sentito come una minaccia, da
quando non è più giudice o "superiore" o "inferiore", si moltiplicano scambi costruttivi, allora la
confidenza riappare e il sentimento di solitudine viene smorzato.
È vero del resto che tutti i gruppi di formazione non svolgono questa funzione liberatrice per la semplice
ragione che gli istituti di formazione fanno essi stessi parte del sistema capitalista e competitivo e sono
essi stessi delle imprese commercializzate: bisogna dunque che i clienti siano rapidamente soddisfatti ed
escano da questi tirocinii in uno stato euforico, anche se la soddisfazione è di breve durata. D. Chalvin
ha dunque ragione a non fidarsi di questi gruppi alla moda, nei quali si crede di trovare in una mistica
collettiva e di trans di gruppo, la comunicazione nella perdita della propria individualità. I partecipanti
si convincono che la comunicazione è facile, diventano così le vittime dei "venditori di illusioni".
La comunicazione tra gli uomini è difficile, non dobbiamo nascondercelo. Condizionati come siamo
dall'educazione familiare e scolastica, dall'ambiente sociale e dai mass-media, ci vuole tempo per
decondizionarci e ricreare in noi nuove strutture mentali. Una vera formazione è un'opera delicata e di
lungo respiro che non può essere fatta in un seminario euforizzante di tre giorni!
Ma non è perché tutto un sistema di condizionamento all'egotismo e alla non comunicazione ha fatto
di noi degli esseri solitari e conflittuali che siamo votati a questo tragico destino, come vorrebbe farci
credere Dominique Chalvin, in quanto è a partire da questa visione pessimistica dell'uomo che questo
psico-sociologo fonda la sua formazione. L'uomo - dice Chalvin -, è un essere solitario e non
comunicativo, noi dobbiamo rassegnarci, accettare che le nostre relazioni siano quelle dei conflitti di
potere e, dopo l'analisi delle situazioni conflittuali dobbiamo imparare a negoziare, al fine di scoprire dei
compromessi vantaggiosi. I negoziati devono essere generalizzati, cioè devono essere fatti tra copi e
subordinati, sindacati e padroni, individui e gruppi dell'impresa al fine di cercare, per ogni individuo o
collettività, il massimo dei vantaggi in questa situazione di impossibile comunicazione.
Ahimè, noi sappiamo bene che i negoziati e i compromessi sono necessari in questa società fondata sulla
rivalità delle classi. Non si tratta in alcun modo di una radicale trasformazione delle mentalità e delle
relazioni, come vorrebbe farci credere l'autore, in quanto abituare gli individui al negoziato e al
compromesso è evitare lo scontro diretto e spingerli a vivere meglio nel sistema attuale. Si tratta
piuttosto di perpetuare un'organizzazione che fa di noi degli angosciati, rivali e solitari, lubrificando i
congegni relazionali in modo che le diverse alienazioni siano più facilmente sopportate. Si tratta, in
ultima analisi, di rendere accettabile la società autoritaria, ingiusta e conflittuale, senza nulla cambiare
delle sue strutture profonde, facendo credere alla gente che vi è un cambiamento, che hanno più potere,
più responsabilità, più comunicazioni, tutto ciò senza che il potere padronale e il sistema gerarchico
siano messi in discussione. Una volta formato in questo modo, i quadri inciteranno i lavoratori a formare
dei "gruppi autonomi", nei quali potranno discutere dell'organizzazione e della ripartizione del lavoro,
senza mai che gli obiettivi (sempre fissati dal padronato), l'organizzazione competitiva del lavoro, la
gerarchia degli statuti e dei salari siano messi in questione.
La formazione contemplata da Dominique Chalvin presenta un altro pericolo: quello di rendere gli
individui ancor più dipendenti dall'impresa, diventata, grazie ad una pseudo-comunicazione, una
"cellula vivace" che dovrà "farsi carico della vita affettiva degli individui" e sostituirsi "alla famiglia, ai
partiti politici, alle chiese, alla vita comunale". Non solo bisognerà dare tutte le nostre energie fisiche
all'impresa, ma bisognerà, in più, vivere solo per essa, anima e corpo! Diventati gli schiavi soddisfatti
delle autorità superiori tecnocratiche e del padronato, operai, impiegati e quadri medi non tenteranno
più di trasformare la società, ma penseranno solo a servire il sistema.
L'autore, che vuole essere realista, finisce ciononostante col fare un sogno irrealizzabile: quello di vedere
gli istituti di formazione indipendenti "di fronte allo Stato, al potere padronale, al potere sindacale, al
potere dei consumatori". Come se tale indipendenza fosse possibile nella nostra società! I docenti
possono essere al tempo stesso nel sistema (che per altro li paga lautamente) e al di fuori del sistema
stesso? Ogni docente impiegato nelle imprese si trova di fronte a questa insolubile contraddizione.
Se si vuole trasformare radicalmente l'uomo e la società e preparare la società libertaria autogestita, non
vi è che una soluzione per i docenti: quella di fare una formazione alla comunicazione interamente
marginale. È solo al di fuori dell'impresa che si può fare l'uomo autonomo, creativo e sociale, cioè
capace di vivere in autogestione. Ma, per far questo, è necessario che il docente sia già un uomo nuovo
e che abbia rinunciato alle soddisfazioni di potere, di denaro e di prestigio, caso più che mai raro. È
necessario anche che parta dalla certezza che l'uomo può liberarsi dal suo egotismo, dal suo bisogno di
possesso e di dominio ai quali è stato condizionato dall'infanzia, e che può ritrovare la gioia di vivere
nel piacere di creare e di comunicare con gli altri in rapporti egualitari e nel rispetto dell'autonomia di
ciascuno.
Sono, in effetti, il condizionamento all'arrivismo, il ripiegamento su se stessi e i rapporti di ineguaglianza
e di conflitti che ci hanno portato all'impasse attuale. Pretendere di cambiare le mentalità, preservando
le tare che queste mentalità hanno creato è indice della più grande fantasia, per non dire impostura.
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