Rivista Anarchica Online
Mazurka blu
di P. F.
Il tragico attentato al teatro Diana. A colloquio con lo studioso Vincenzo Mantovani, che da tre anni
si sta occupando della ricostruzione storica
dell'attentato commesso a Milano nel 1921 al teatro Diana - Lo sciopero della fame di Malatesta alla base
del
tragico gesto di protesta - La complessa realtà del ristretto nucleo di terroristi anarchici allora
operanti a Milano -
Nelle nobili parole di Malatesta la netta condanna dell'attentato ma non dei suoi autori
Nel corso della trasmissione televisiva dedicata all'anarchia, andata
in onda mercoledì I ottobre, ampio
spazio è stato dedicato alla tragica vicenda dell'attentato al Teatro Diana. E, puntualmente, la
versione che
ne è stata fornita non ha sortito altro effetto che quello di rispolverare la tradizionale oleografia
dell'anarchico bombarolo e terrorista. Indubbiamente l'intera vicenda dell'attentato al
Diana non è ancora stata chiarita, e probabilmente non lo
potrà mai essere in ogni suo aspetto. Ciò nonostante è necessario cercare di
comprendere la realtà sociale
dell'epoca e di acquisire quanti più dati di fatto possibile per far luce su quella tragica vicenda.
Tanto più
che ancora ai giorni nostri - cioè oltre mezzo secolo dopo - l'attentato al Diana viene "scagliato"
contro gli
anarchici ogni qual volta il Potere vuole riprendere la persecuzione e la campagna di diffamazione contro
l'anarchismo. A parte un volume autobiografico steso da uno dei tre anarchici autori
dell'attentato (G. Mariani, Memorie
di un ex-terrorista, Torino 1953), poco o niente è stato finora scritto in campo anarchico
per approfondire la
vicenda del Diana. Non sarà quindi inutile riprendere un attimo seriamente il discorso: ecco la
ragione
dell'articolo che segue, frutto di una lunga conversazione con un giovane studioso, Vincenzo Mantovani.
Partito tre anni fa con l'intenzione di scrivere un libro sull'attentato al Diana, mantovani ha lavorato in
tutto
questo periodo ad una attenta ricostruzione non solo del fatto in sé, ma anche - e soprattutto -
dell'ambiente
sociale e politico nel quale l'attentato si produsse. La sua ricerca ha quindi progressivamente allargato il
suo ambito giungendo ad abbracciare la storia del movimento anarchico a Milano dalla fine della guerra
fino al processo per l'attentato, cioè dalla fine dei 1918 alla primavera del '22. Il lavoro di ricerca
e di
ricostruzione storica che sottende il suo libro - che probabilmente si intitolerà "Mazurka Blu" (dal
titolo dello
spettacolo in programma al Teatro Diana quella sera) - il suo lavoro, dicevamo, non
è ancora finito: ma è
a buon punto, tale da rendere possibile un attento riesame dell'intera
vicenda. Terminiamo queste necessarie note di presentazione con l'avvertenza che
Mantovani, pur essendo
ideologicamente vicino alle posizioni P.D.U.P., nutre simpatia nei confronti dell'anarchismo - almeno
in sede
storiografica.
Se gli anarchici non se ne curano, la storia la faranno i loro nemici": così, con
questa semplice e pur così vera
constatazione, Gaetano Salvemini riuscì a convincere l'anarchico Armando Borghi a scrivere le
memorie della sua
vita. Un concetto non dissimile esprimeva Vittorio Emiliani quando, nella prefazione alla antologia di
scritti di
Borghi Vivere da anarchici (da lui curata), affermava che "agli anarchici è
toccata una curiosa sfortuna
storica, almeno in Italia: o sono stati dipinti a tinte romanzesche, come personaggi avventurosi, pittoreschi
e niente più, oppure sono stati passati al vaglio di una storiografia comunista tesa ad accumulare
i documenti
quasi per un processo dell'anarchismo più che per una critica serena e obiettiva. Né,
talvolta, sorte migliore
è toccata agli anarchici italiani quando ad occuparsi di loro sono stati storici di formazione
riformista". Il mio interlocutore insiste più volte su questo concetto rammaricandosi
che anche sull'attentato al Diana poco,
troppo poco sia stato scritto da parte degli anarchici. Ne convengo subito anch'io, convinto come sono
che spesso
tacere altro non significa che lasciare campo aperto alle falsità ed alle speculazioni dei nostri
nemici. Dunque,
la "verità" sul Diana: ecco l'oggetto di questo colloquio con Vincenzo Mantovani. Le linee
essenziali del fatto sono note. Per protestare contro la prolungata detenzione di Errico Malatesta,
Armando Borghi e Corrado Quaglino (in carcere da cinque mesi senza ancora essere stati rinviati a
giudizio) tre
anarchici - Giuseppe Mariani, Giuseppe Boldrini ed Ettore Aguggini - fecero esplodere ben 160
candelotti di
dinamite all'esterno del teatro-albergo Diana, la sera del 23 marzo 1921, causando una tragica strage fra
il
pubblico e gli orchestrali del teatro. Bilancio finale: 21 morti e un'ottantina di feriti. Perché
l'attentato fu
commesso proprio al teatro Diana? A questa domanda la trasmissione televisiva "Una parola,
un fatto" dedicata all'anarchia non ha voluto
rispondere, anzi diciamo pure che non se l'è nemmeno posta. Il che - prosegue Mantovani
- è molto grave,
perché così facendo si è accreditata la "solita" storia della anarchico che,
spalancata la porta di un teatro,
dissemina la morte ed il terrore, coscientemente e volontariamente. Quella sera il carico di esplosivo fu
depositato al di fuori del teatro, con l'intenzione di colpire non il teatro quanto il soprastante albergo -
che,
secondo informazioni allora in possesso degli attentatori, serviva regolarmente da luogo di incontro tra
Benito Mussolini ed il questore di Milano Gasti, entrambi acerrimi nemici degli anarchici e da questi
ultimi
odiati, in particolare, si credeva che proprio quella sera Gasti si dovesse trovare in
quell'albergo. La decisione di attentare al teatro-albergo Diana, comunque, era stata
presa all'ultimo momento, poiché -
spinti dall'esigenza di "far qualcosa" per appoggiare lo sciopero della fame attuato dall'anziano Malatesta
e dagli altri due (Borghi, Quaglino) per ottenere la fissazione del processo - la prima intenzione era stata
quella di far saltare in aria la Questura centrale di piazza San Fedele. Nel volume autobiografico del
Mariani
si parla apertamente di questo primo proposito, che non potè essere attuato per sopravvenute
difficoltà
d'esecuzione. Inevitabilmente, il discorso cade sul più generale problema del
"terrorismo", o meglio della pratica terrorista quale
fu attuata da un ristretto numero di anarchici (una decina, al massimo) a Milano tra la fine della guerra
e
l'attentato al Diana. Questo attentato - precisa Mantovani - fu infatti l'ultimo di una
serie, anche se certamente
il più tragico e clamoroso. Il primo attentato, nel periodo da noi considerato, era stato quello
effettuato dal
giovane Bruno Filippi al palazzo di Giustizia di Milano, il 29 luglio 1919, per ricordare Gaetano Bresci
nel
diciannovesimo anniversario del suo riuscito attentato contro il "re buono" Umberto I. In quell'occasione
una
modestissima bombetta aveva abbattuto un muro, provocando scompiglio tra i magistrati ma nessuna
vittima.
Due mesi più tardi era sempre il giovane Filippi che, insieme con gli altri due componenti del suo
gruppetto
terroristico (Guido Villa, Aldo Perego), effettuava un attentato in Galleria contro il caffè Biffi,
noto ritrovo
dei "pescecani", cioè dei borghesi arricchitisi coi profitti di guerra. Questo attentato provocava
una vittima:
il povero Filippi, infatti, saltava in aria con la sua bomba dimostrativa e moriva. Con l'arresto degli altri
due suoi compagni e la morte di Filippi, quel primo gruppetto di anarchici terroristi cessava forzatamente
la sua attività. Mantovani ci tiene ad approfondire l'analisi di questi fatti e dei loro
autori, poiché e gli uni e gli altri costituiranno
poi l'humus dell'attentato al Diana. Indubbiamente quei giovani si rifacevano agli
individualisti francesi di fine
'800 per quanto riguarda l'uso di materiale esplosivo come mezzo di lotta sociale: ma va soprattutto
sottolineata
la loro netta sensazione di non essere che degli "avamposti" della più generale lotta sociale. In
prima fila nei
grandi cortei proletari e negli scontri coi tutori dell'ordine, essi stessi d'origine e di collocazione sociale
proletaria,
Filippi ed i suoi emuli davano tutto se stessi per la causa della rivoluzione sociale. Non disprezzavano la
lotta di
massa, anzi ritenevano che i loro atti terroristici avrebbero potuto ricondurre sulla via dell'azione diretta
quei
larghi settori della classe lavoratrice che soggiacevano all'influenza, per loro estremamente negativa, del
socialismo riformista. Mai dunque atti individuali fine a se stessi - ribadisce il mio
interlocutore - ma sempre
collegati, almeno nelle intenzioni, con la più generale lotta rivoluzionaria del proletariato.
Mantovani cita
come esempio il primo attentato di Filippi, quello contro il palazzo di Giustizia, e sottolinea il valore che
nelle
intenzioni del suo autore questo gesto doveva avere: dimostrare cioè che la Magistratura con la
"M" maiuscola,
quella tanto riverita e temuta da tutti, non era poi così inattaccabile, dal momento che qualcuno
poteva facilmente
seminare il panico nel tempio della giustizia di Stato con una semplice, quasi innocua bombetta. Attentati
ben
discriminati, dunque, questi degli anarchici milanesi in quel periodo: ben discriminati e "firmati".
Certo -
sottolinea Mantovani - gli anarchici hanno sempre firmato i loro attentati: non si poteva
pretendere che per
firmarli lasciassero sul posto il loro nome o comunque elementi tali da portarli al più presto in
galera -
sarebbe assurdo il pretenderlo. Ma, comunque, una volta arrestati, quei giovani terroristi non rinnegarono
mai le proprie responsabilità, anzi le rivendicarono come atti di lotta contro l'ingiusto sistema
sociale. Così
appunto fecero Villa e Perego al processo per la bomba al Biffi, così faranno poi Mariani,
Boldrini e
Aguggini al processo per la strage del Diana. Per comprendere il clima nel quale si
produssero alcuni "botti" di scarso rilievo e quindi quello tragico del Diana
è indispensabile fare riferimento alla situazione del vecchio Malatesta, arrestato con altri suoi
compagni il 17
ottobre del '20 in un momento in cui, sconfitto il moto dell'occupazione delle fabbriche, la borghesia
riprendeva
saldamente in mano le redini del potere, fiancheggiata dal montante fascismo squadrista. L'arresto e la
prolungata
detenzione di Malatesta costituivano una chiara provocazione nei confronti della sinistra: eppure nessuno
- a parte
il capitano Giuseppe Giulietti, segretario della federazione dei lavoratori del mare e amico personale di
Malatesta
(era stato lui a renderne possibile il rimpatrio clandestino nel dicembre del '19) - nessuno si era mosso
in favore
del vecchio anarchico e dei suoi compagni. Questo silenzio dei socialisti ed in genere del movimento
operaio
provocava tra gli anarchici una profonda insofferenza, quasi la sensazione di essere stati lasciati soli
proprio in
una circostanza particolarmente dura. Confrontando poi questo atteggiamento delle altre forze di sinistra
con le
entusiastiche accoglienze riservate a Malatesta all'indomani del suo rientro in Italia da parte di tutto il
proletariato,
gli anarchici "sentivano" che fosche nubi si addensavano all'orizzonte. Si aggiungano le sempre
più criminali
imprese delle squadracce nere, l'ormai lampante connivenza delle autorità con le bande di
Mussolini e camerati,
il forzato allontanarsi della vittoria rivoluzionaria: il quadro non era certo allegro. Quando poi
uscì dalle carceri di San Vittore la notizia che il quasi settantenne Malatesta aveva iniziato (il 18
marzo) uno sciopero della fame a tempo indeterminato, per ottenere la sola fissazione del processo, la
tensione
tra gli anarchici riprese a salire. Il "caso Malatesta" era di nuovo sui giornali, dopo mesi di complice
silenzio;
Umanità Nova usciva in quei giorni con titoloni a tutta pagina invitando alla
mobilitazione in sostegno degli
scioperanti, rimproverando quanti continuavano a non far niente per Malatesta dopo averlo tanto
acclamato in
passato. Il 23 marzo - quinto giorno dello sciopero della fame dei reclusi - mentre ormai tra gli anarchici
si
cominciava parlare della possibile morte del vecchio Malatesta, si diffuse la notizia che probabilmente
in giornata
il giudice istruttore avrebbe concesso la libertà provvisoria ai tre anarchici. A questo punto
conviene ritornare al gruppetto terroristico composto da Aguggini, Boldrini e Mariani - questi
ultimi due chiamati a Milano da Mantova dal primo, per "fare qualcosa" insieme in favore di Malatesta.
Datisi
appuntamento in un prato di periferia per la sera del 23, vennero informati che nessun fondamento
avevano le
voci circolanti in città relative alla concessione della libertà provvisoria ai tre anarchici
detenuti a San Vittore:
il giudice istruttore, infatti non aveva concesso ciò che essi avevano sperato. Nell'ascoltare quella
brutta notizia,
i tre si decisero che era davvero giunta l'ora. Malatesta era sul punto di morire: non c'era più
tempo da perdere.
Certo in quei momenti ben vivo doveva essere alle loro menti il ricordo della tragica vicenda del sindaco
della
cittadina irlandese di Cork, il quale non molti mesi prima si era lasciato morire di fame in carcere (anche
Umanità
Nova aveva a suo tempo seguito quella vicenda): in ogni modo, a ogni costo, Malatesta doveva
vivere - questo
il loro pensiero, questo il pensiero di tutti gli anarchici. Raggiunto il teatro Diana, vi depositarono
all'esterno il carico micidiale e si allontanarono. Ciò che avvenne in
quei momenti non ha mai potuto essere ricostruito con sicurezza; secondo una versione, un legionario
fiumano
avrebbe spostato la dinamite all'ultimo momento prima dell'esplosione. Ma niente - lo ripetiamo -
è stato provato,
né mai lo potrà essere. Con tutta probabilità. Sta di fatto che l'orrenda esplosione
ebbe luogo, con le luttuose
conseguenze cui già abbiamo accennato. Nel breve volgere di poco tempo bande armate
fasciste distrussero sia la sede di Umanità Nova sia quella
dell'U.S.I., tentando poi l'assalto alla nuova sede dell'Avanti! Subito dopo ebbe inizio la
sistematica "caccia
all'anarchico" da parte della polizia: decine ne furono fermati, minacciati, incarcerati, finché si
arrivò
all'individuazione del terzetto responsabile della strage. Diciassette altri anarchici, assolutamente estranei
al fatto,
furono accomunati dalla polizia a Mariani, Boldrini ed Aguggini: tutti insieme furono processati nella
primavera
del '22, in quella stessa Milano ormai sempre più in balia dello squadrismo
nerocamiciato. Oltre alle tre condanne all'ergastolo per i tre autori della strage, decine di anni di
galera vennero inflitti agli
innocenti cinicamente travolti dalle manovre congiunte della polizia e della magistratura. Errico
Malatesta, nel frattempo (luglio '21), era stato assolto da tutte le accuse mossegli dalla polizia: la
magistratura aveva dovuto liberarlo confermando così clamorosamente l'ingiustizia della sua
lunga detenzione.
Anche di ciò bisogna tener conto - sottolinea Mantovani - nel valutare la
vicenda del Diana. La liberazione
di Malatesta assumeva infatti il valore di una conferma delle ragioni che avevano spinto i tre terroristi al
loro
tragico gesto di protesta e di solidarietà.
P. F.
L'opinione di Malatesta
Assolto nel luglio del '21 da tutte le accuse mossegli, Errico Malatesta riprendeva il suo posto
alla direzione
del quotidiano anarchico "Umanità Nova". Quando, nel maggio dell'anno successivo, si teneva
a Milano il
processo contro gli attentatori al Diana (e contro altri diciassette anarchici assolutamente estranei al
tragico
fatto), Malatesta pubblicava un articolo dal significativo titolo "Tormento d'animo". Ne riproduciamo
ampi
stralci.
Mentre a Milano si svolgono dolorose le tristi scene del processo, una tempesta spirituale agita gli
animi dei
compagni. Quegli uomini (parlo dei confessi, chè gli altri sono vittime delle malvagie
ambizioni poliziesche dei Gasti e dei
Rizzo) quegli uomini uccisero e straziarono nella carne umana, carne d'inconsci e d'innocenti, senza
criterio di
giustizia e senza utilità per alcuno. Forse essi non si rendevano conto della forza terribile
della loro macchina infernale e quello che voleva essere
una protesta incruenta fu invece una strage immane; ma i morti, i mutilati son là, e l'orrore della
cosa agghiaccia
il cuore, offende il senso profondo di umanità che sta in ogni uomo normale e non lascia tempo
o serenità per un
esame rigoroso ed un calcolo esatto delle responsabilità. Comprendo: comprendo che ciò
sia per un tempo, ma
non comprendo che il dolore e l'orrore abbiano ad offuscare permanentemente la ragione, o altrimenti
fra gli
orrori simili e peggiori che avvengono tutti i giorni, le sorti della civiltà, le sorti
dell'umanità sarebbero
compromesse e perdute per sempre. Gli anarchici che sanno comprendere le influenze determinanti
dell'ambiente tante volte in contrasto con le spinte
intime della volontà, gli anarchici che intendono le necessità crudeli dei conflitti sociali
in una società retta dalla
violenza e sono disposti a lottare senza debolezza fino al trionfo della libertà e della giustizia per
tutti, ma lo
fanno senza odio e pronti sempre a perdonare e dimenticare, gli anarchici soffrono come gli altri e
più degli altri
di ogni violenza eccessiva, di ogni dolore inflitto senza necessità - e nel caso dell'eccidio del
"Diana" non
avrebbero che da dolersi come di qualsiasi altro grande delitto o altra grande disgrazia. Ma quegli
uomini, i bombardieri del "Diana", erano compagni nostri, buoni compagni nostri, pronti sempre al
sacrificio per il bene degli altri, e nel compiere il loro tragico ed infausto gesto intendevano fare opera
di sacrificio
e di devozione. Quegli uomini hanno ucciso e straziato degli incolpevoli in nome della nostra idea, in
nome del
nostro e del loro sogno d'amore. E qui sta la tragedia che tormenta tanti nostri
compagni. Rivendicare il fatto, tanto contrario ai nostri sentimenti ed agli interessi della nostra
propaganda, è assurdo,
impossibile. Condannare gli autori è ingeneroso, ingiusto, impossibile. Bisogna
comprendere (...) I dinamitardi del "Diana" furono travolti da una nobile passione, ed ogni uomo
dovrebbe arrestarsi innanzi a loro
pensando alle devastazioni che una passione, anche sublime, può produrre nel cervello umano
(...)
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