Rivista Anarchica Online
La fabbrica dei disoccupati
di Oscar Corenai
In tutti i Paesi ad economia mista è in atto da anni un costante aumento della disoccupazione -
La crisi economica
e sociale negli Stati Uniti - Il caso italiano: le responsabilità delle Partecipazioni Statali - Come
si è risolta la
"vertenza Campania" - L'esplosiva situazione sociale di Napoli, "capitale" della disoccupazione.
In questo ultimo periodo si parla tanto (i grandi strumenti di
disinformazione di massa si occupano diffusamente
del fenomeno) della crisi economica italiane in corso; esperti economici sembrano d'accordo che nel
prossimo
futuro si avrà un peggioramento delle condizioni di vita collettive (e per collettive intendo -
diversamente dagli
esponenti della élite del potere economico- le condizioni delle classi lavoratrici, perché
è chiaro che il milione
e passa di ricchi e ricchissimi sono ben equipaggiati finanziariamente). Nel nostro come negli altri paesi
già oggi
i gruppi socialmente più deboli hanno dovuto pagare un prezzo assai caro per la politica
brutalmente
antinflazionista imposta dal governo nostrano e dai governi degli altri paesi industrializzati in termini di
una
progressiva disoccupazione e in termini di una continua ascesa dei prezzi e di conseguente erosione del
salario.
Sintomo grave di questo peggioramento, come ho detto, è la crescente disoccupazione privilegio
dei paesi ad
economia capitalistica mista provocata dalla politica economica dei governi, che sta investendo lavoratori
di vari
settori dell'economia. Il livello di disoccupazione in Italia ha superato e di molto la quota di un milione
di persone
(stando alle statistiche ufficiali, sempre in difetto in casi come questo) mentre per l'intera
comunità si sono
superati i 6 milioni di disoccupati "ufficiali". Nel nostro paese la curva dei disoccupati continua la
sua corsa al rialzo e questa viene confermata puntualmente
dalle statistiche mensili. La prima cosa che si deve dire parlando della crisi di questo periodo è
che i presupposti
della crisi occupazionale attuale sono precedenti: è infatti da oltre otto anni che in tutti i paesi
capitalistici si va
registrando una diminuzione lenta ma continua degli addetti all'industria, una uguale riduzione della
occupazione
agricola (imposta in Europa dagli organismi comunitari), e un aumento invece modesto del settore
terziario -
amministrazione e servizi. Che il settore primario - agricoltura - sia in progressiva e continua riduzione
è cosa
nota, quello che però ha sconvolto l'economia dei principali paesi industriali è stato prima
l'arresto
dell'incremento degli addetti all'industria e poi una sua successiva e continua diminuzione che ha
accresciuto la
difficoltà di inserimento soprattutto dei giovani ad ogni livello della vita economica. Nel 1974,
anno di espansione
nonostante l'inflazione, soltanto 7 diplomati su 100 hanno trovato occupazione in attività
immediatamente
produttiva. Il settore terziario è rimasto l'unico in buona salute e addirittura traente e questa
inversione, che ha
provocato una disoccupazione crescente all'interno di ciascun paese capitalistico, è stata
presentata come
fatalmente imposta da fattori internazionali ai quali i tecno-burocrati si sono richiamati per coprire le loro
responsabilità nella condotta dell'economia. Inoltre se consideriamo che lo Stato in Italia
compenetra molto
profondamente l'economia nazionale e controlla il restante settore privato manovrando la politica del
credito,
comprendiamo che è proprio il potere "pubblico" che nel nostro paese ha la
responsabilità della crescente
disoccupazione nei diversi settori; la presente crisi occupazionale è infatti provocata
principalmente dalla caduta
degli investimenti produttivi delle partecipazioni statali dove si annidano i grossi calibri della
tecno-burocrazia
statale (nuova classe in ascesa) con il loro seguito di clientele, baronie che hanno trasformato l'industria
di Stato
in un traballante carrozzone e in un formidabile centro corporativo di potere governativo e
sottogovernativo, e
che hanno dimostrato varie volte di essere inattaccabili e di continuare indisturbati nell'esercizio arrogante
del
potere. Proprio perché le partecipazioni statali operano in settori basilari (servizi e produzione),
la mancanza degli
investimenti produttivi ha provocato ripercussioni pesanti nel settore privato già affetto da
decenni da investimenti
decrescenti (1); alla mancanza notevole di investimenti privati si è aggiunta la riduzione brusca
degli investimenti
statali che hanno avuto più volte un ragguardevole effetto sostitutivo rispetto a quelli privati.
Quello che appare
certo è che questa massa di disoccupati non si è formata in un anno (come invece
sostengono sfacciatamente i
dirigenti dell'Istat, insuperabili portavoce delle menzogne delle classi dominanti) e che rappresenta invece
la punta
di un grosso iceberg affiorato solo ultimamente, le fondamenta del quale erano però venute
creandosi nel corso
dell'ultimo decennio. Certo non tutti i notabili del potere erano a conoscenza della grave crisi imminente,
ma
molti di questi credevano assurdamente (e diffondevano altrettanto assurdamente questa credenza) in un
sicuro
miglioramento della situazione che avrebbe dovuto derivare meccanicamente da un aumento della
produzione
che non si è verificato. Già cinque anni fa comunque non c'era rivista economica di un
certo livello che non
avvertisse, illustrando indici molto eloquenti, che si stava verificando una riduzione delle forze di lavoro
totali
in Europa (cioè il numero delle persone che si presentavano sul mercato del lavoro) e la
riduzione - iniziata come
cessazione della crescita - dei lavoratori addetti alle attività secondarie (le attività
manifatturiere, quelle cioè che
realizzano l'aumento più appariscente della produzione fisica nell'economia industriale) e alle
primarie (attività
agricolo-alimentari) cioè una diminuzione degli addetti alle produzioni di base. Pur conoscendo
questi dati il
problema dell'esplosione imminente della disoccupazione venne invece taciuto dai vari governi della
comunità
economica europea.
La crisi negli Stati Uniti
La crisi ha colpito anche gli Stati Uniti e le cifre che indicano questa crisi sono abbastanza note: un
forte tasso
di disoccupazione e di sottoccupazione (superiore all'8%) e un'inflazione sempre molto elevata
(10%). Come già si annunciava verso la fine del 1974, il 1975 è stato un anno in cui
l'attività economica ha continuato
a subire un declino continuo e non si è nemmeno sicuri se per il 1976 vi saranno i primi sintomi
di ripresa; a
questo riguardo l'Economist, settimanale economico, in riferimento alla crisi americana ha
scritto: "Se queste
segnalazioni sono corrette (le segnalazioni a cui si riferisce la rivista sono il tasso di inflazione e il saggio
di
disoccupazione, n.d.r.)- e spesso lo sono stati in passato - le previsioni dell'Amministrazione circa la
produzione
e la disoccupazione sembrano entrambe insufficientemente pessimistiche". Sempre secondo il settimanale
inglese
"Questa recessione americana sarà lunga e profonda". E se bisogna giudicare dalla percentuale
dei disoccupati
(alla fine di gennaio di quest'anno la percentuale dei disoccupati era pari all'8,2% contro una prognosi
dell'8,1%
per l'intero anno) effettivamente la crisi americana è molto grave e a nulla è valso seguire
la classica e vuota
politica antinflazionistica di minori spese (non però quelle per gli armamenti, che al contrario
sono in aumento)
per una serie di provvidenze sociali, restrizione del credito, per riportare in salute una economia malata
ma non
moribonda; l'inflazione però non fu debellata e la recessione è arrivata puntuale e non
accenna a scomparire in
seguito alla timida politica antirecessiva. Infatti le facilitazioni per il credito, il rialzo del dollaro, una
generica
riduzione di imposte, sotto la duplice forma di una restituzione di una parte delle tasse già pagate
quest'anno e
di una attenuazione di quelle che dovrà pagare, non hanno avuto nessun effetto. Si spera da parte
di Ford e del
suo seguito in questo modo (accrescendo il deficit del bilancio statale) di stimolare l'attività
economica e di
spingere il consumatore a spendere di più e quindi di assorbire le scorte delle imprese formatesi
in seguito al calo
degli acquisti. Se però da una parte sono state adottate queste misure "antirecessive", dall'altra
si sono introdotte
nuove imposte indirette su molti prodotti - specie derivati dal petrolio. Il risultato di questo tiro alla
corda è che il lavoratore americano si vede sottrarre con una mano quello che con
l'altra gli viene concesso: le imposte indirette riducono infatti il suo salario e questo non potrà
incoraggiare gli
acquisti. In pratica la politica economica americana volutamente è incapace di combattere e
l'inflazione e la
recessione congiunta ed è assurda e ingiusta perché accoglie la credenza che bisogna
accettare una disoccupazione
alta (cioè una delle peggiori piaghe sociali) alla minaccia di una nuova spinta al rialzo dei
prezzi.
Le ripercussioni della crisi in Italia
Le ripercussioni attuali di questo grave problema si sono riversate su tutti i paesi industrializzati e in
particolare
sul nostro paese che ha superato di gran lunga il milione di disoccupati della Germania occidentale,
mentre i
baroni dell'Istat hanno avuto la faziosità di affermare che il numero di disoccupati e sottoccupati
attribuibile
all'Italia è simile a quello della Germania. Fin dal 1972 si sapeva (e qualche economista lo
aveva dichiarato pubblicamente) che la simultanea maturazione
delle contraddizioni presenti nel sistema economico internazionale e di quelle, gravissime, del nostro
paese
avrebbe molto probabilmente causato in Italia una crisi profondissima, una delle più profonde
dal 1947. Per il nostro paese la crisi è stata più dura perché viveva, come
ho detto, da due anni almeno una espansione
drogata dalla manovra inflazionistica (che ha preceduto la drastica riduzione della domanda). Il processo
era ben
chiaro ed era impossibile (2) non prevedere che alla recente e drammatica crisi occupazionale si sarebbe
velocemente arrivati. Quando le sole misure di politica economica adottate per un'economia in
difficoltà a causa
dell'esasperato tasso di inflazione come la nostra, sono la drastica riduzione delle importazioni di materie
prime
e semilavorati, la chiusura del credito, l'effetto più preoccupante per gli sfruttati è un
repentino calo dell'attività
produttiva (che come risultato temporaneo darà un miglioramento effimero della bilancia dei
pagamenti, nel
nostro paese sempre passiva) e quindi un conseguente e grave alto numero di disoccupati veri e propri
e un
altrettanto alto numero di lavoratori in forzata inattività, cioè in cassa integrazione, il
risultato pratico che balza
agli occhi e sempre s'impone all'attenzione critica proprio per l'allargarsi della disoccupazione, è
che praticamente
le disorganiche misure antinflazionistiche quali la stretta creditizia, la rapina fiscale sui redditi di lavoro,
la brusca
e forzata diminuzione dei consumi popolari hanno ridotto l'inflazione in modo poco sensibile
(attualmente sta
marciando al tasso del 15%) e le misure antirecessive attuali non hanno ridotto la disoccupazione. Questi
fallimenti dimostrano indubbiamente (3) lo stato attuale di crisi delle varie teorie economiche che hanno
avuto
in passato una posizione dominante nel pensiero economico ufficiale. Mi riferisco in particolare alle
teorie
marginalistiche e alla più recente teoria keynesiana che teorizza una politica di intervento
pubblico nella
economia. Queste teorie nell'interpretare gli attuali squilibri delle economie capitalistiche e la manifesta
inutilità
di tali politiche di intervento a garantire condizioni di stabilità nello sviluppo, ha contribuito a
mettere in luce
la crisi di alcuni modelli teorici che pretendono di interpretare la dinamica della realtà economica
e di fornire
previsioni sulla sua evoluzione e strumenti adatti per correggerla. Conseguenza di questo stato di
confusione è
la perdita totale di credibilità da parte delle teorie sopra ricordate. Quindi coloro che
dovrebbero predisporre le politiche economiche si trovano in profondo stato di disagio e non
nascondono più (dopo il fallimento totale dei modelli teorici che sostenevano l'effetto anti-crisi
dell'intervento
statale a fini di stabilità e di sviluppo) l'incapacità di agire trovandosi di fronte a forze
ingovernabili come sono
appunto le forze operanti alla base dei processi interconnessi di inflazione e deflazione nelle economie
capitalistiche avanzate. (4).
Gli effetti della crisi recessiva nel sud e a Napoli in particolare
Nel mezzogiorno, prima l'inflazione (che ha prodotto l'effetto di aumentare il divario tra sud e resto
d'Italia) e poi
la recessione hanno ripercussioni gravissime e drammatiche soprattutto per quanto riguarda lo stato
dell'occupazione e hanno prodotto l'effetto di aumentare la distanza cronica tra l'apparato industriale del
sud
(molto modesto e diversificato) e l'apparato del nord. Questa recessione sarebbe una occasione
validissima per
potenziare l'apparato industriale del meridione, ma le scelte governative "antirecessive" sembrano voler
concentrare tutte le risorse su alcuni settori (p. es. 200 miliardi per agevolare le esportazioni) del vecchio
apparato
industriale tradizionale per tentare assurdamente in qualche modo e momentaneamente (dico
momentaneamente
perché senza cambiare si ricade nuovamente in un inflazione selvaggia) di forzare le esportazioni
e di sanare
temporaneamente il deficit cronico dei conti con l'estero. Queste sono le direttive del governo anche per
il sud
e queste direttive sono adottate da moltissimi anni anche a proposito dell'accumulazione di capitale
pubblico nel
sud. L'accumulazione di capitale pubblico nel sud infatti (lo 0,50% del reddito nazionale) ha contribuito
a
provocare un aumento della domanda nel sud che è stato soddisfatto al nord o all'estero. Non
si capisce infatti
perché citiamo sempre dati ufficiali riportati da molti giornali e contenuti nel rapporto sul
mezzogiorno a cura
della associazione di studi per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno) a seguito della spesa pubblica
la
raccolta bancaria è sempre stata ottima nelle regioni meridionali ed è aumentata nel 1974
in queste regioni di
2.412 miliardi, cioè del 21,8% rispetto al 16% del resto del paese. Il maggior risparmio liquido
formatisi
all'interno di questa area depressa non è servito però per impieghi bancari nel sud: infatti
nello stesso periodo gli
impieghi bancari sono scesi dal 60,8% al 56,8% della raccolta, con una riduzione del 4%. Le banche
hanno cioè
pompato denaro pubblico dal sud trasportandolo nel nord: questo meccanismo ha funzionato
puntualmente fin
dall'inizio dell'intervento dello Stato nel sud. All'interno poi del Mezzogiorno, la crisi si è
abbattuta pesantemente su Napoli e provincia (il mio più diretto
campo di osservazione) dove in questi giorni numerosi cortei di disoccupati attraversano quotidianamente
le strade
della metropoli partenopea e delle città della provincia (Torre del Greco, Castellammare di
Stabia, ecc. ecc.) per
protestare contro i massicci licenziamenti nelle aziende pubbliche, in quelle controllate dallo Stato (si
pensi agli
operai e ai tecnici della Montedison di Casoria completamente in cassa integrazione e alla Montedison
di Bagnoli
che sta ormai smantellando), nelle aziende controllate dalle multinazionali (si pensi ai 400 operai della
General
Instruments, e i 420 della Merrel e i 500 dell'Angus che hanno ricevuto in questi giorni la lettera di
licenziamento). Il problema dell'esplosione della disoccupazione (ironia e miracolo delle farse elettorali!)
fu
oggetto della "vertenza Campania" del 1973 e nel corso di questa vertenza si disse che nel giro di pochi
mesi si
sarebbe approdati a provvedimenti concreti capaci di incidere nella struttura economica e sociale della
regione
Campania; provvedimenti che sono stati abbandonati nei cassetti bancari assieme ai miliardi necessari
per la
realizzazione di quei provvedimenti. Oggi - anche per la mancata esecuzione dei provvedimenti di cui
sopra -
assistiamo invece ad un costante peggioramento della situazione economica caratterizzata da livelli di
disoccupazione (contro i quali stanno lottando i lavoratori per rivendicare la difesa dell'occupazione, lo
sviluppo
degli investimenti e il recupero reale del potere di acquisto del salario) mai raggiunti da anni, dal diffuso
ricorso
alla cassa integrazione (il più delle volte l'utilizzazione della cassa integrazione ha lo scopo di
mantenere in vita
temporaneamente un complesso produttivo, costituisce cioè la premessa per poterlo liquidare),
dal drastico calo
della produzione industriale, dalla caduta degli investimenti e dal permanere di forti spinte
inflazionistiche. Oggi
nessuna impresa - nuove fabbriche giornalmente sono investite dalla crisi -, anche di grandi dimensioni
dà
garanzie sui futuri livelli di attività, quelle poche che non hanno ancora proceduto a massicci
licenziamenti non
hanno invece da anni sostituito i lavoratori andati in pensione e non assumono nuovi lavoratori (i
cosiddetti
licenziamenti invisibili) e per questa via, negli ultimi tre anni, l'occupazione è diminuita
considerevolmente; interi
settori come quello della pasta rischiano il tracollo. Anche nella zona partenopea, dopo l'attuazione
delle misure antinflazionistiche di cui sentiamo ancora i postumi,
adottate dal governo italiano e dagli altri governi degli altri paesi industriali, il calo della produzione
è stato ed
è tuttora considerevole: secondo stime sindacali si aggira sui 12-13 per cento e conseguentemente
gli impiegati
delle industrie ancora non smantellate lavorano al 60% delle loro possibilità, le ore di cassa
integrazione (cioè
di inattività forzata) pagate ai lavoratori ammontano a 3.627.823 nei primi sette mesi del '75
rispetta 4.526.846
dell'intero '74. Segno indubbio che il quadro complessivo della situazione per quanto riguarda
l'occupazione si
è notevolmente aggravato. I disoccupati sono numerosissimi - solo 135.754 iscritti nelle liste di
collocamento di
Napoli - e non si riesce ad avere un quadro complessivo perché molti sono senza lavoro pur
senza essere iscritti
alle liste di collocamento. Pur considerando comunque questo dato parziale la situazione è
allarmante perché se
si considera il numero dei cittadini attivi, uno ogni sei è disoccupato ufficialmente. A questi dati
si può aggiungere
che più del quinto dei giovani in cerca di prima occupazione dell'intero paese è
parcheggiato nella provincia di
Napoli. Data questa situazione, derivante dallo strozzamento delle attività produttive imposto
selvaggiamente dal governo
per cercare di frenare l'inflazione (obiettivo che come ho detto è riuscito solo parzialmente
facendo cadere
esclusivamente sui lavoratori il peso della crisi) ora che il paese si trova in recessione (e cioè la
domanda è
inferiore all'offerta) è difficilissimo avviare la ripresa produttiva. E chi paga sono sempre gli
sfruttati.
Oscar Corenai
1) La caduta degli investimenti continua, come risulta dalle previsioni del centro studi del ministero
della
programmazione secondo le quali nel corso del presente hanno globalmente gli investimenti nell'industria
subiranno un drastico calo del 20% rispetto al 1974.
2) La gravità della situazione era evidente se uomini di governo e impettiti giornalisti
diffondevano l'interessata
speranza di un miglioramento della situazione che avrebbe dovuto derivare dalla concessione di prestiti
internazionali, ma fatto sintomatico, una volta ottenuti, questi furono impiegati in un tentativo di
riequilibrare le
partite contabili e non in investimenti per rilanciare l'economia, e quindi l'occupazione, e non farla
precipitare
nella crisi attuale.
3) cfr. l'Internazionale del 1 febbraio 1975: "Le scuole economiche borghesi di fronte alla crisi del
modello
capitalistico".
4) I sostenitori della politica keynesiana sostengono che si possa combattere l'inflazione attraverso
un
contenimento del deficit del bilancio statale mediante una idonea politica fiscale che secondo loro
avrebbe come
conseguenza una diminuzione del saggio di inflazione attraverso una riduzione della domanda globale
provocando
per forza di cose una dilagante disoccupazione (i cui postumi stiamo attualmente soffrendo in Italia). La
adozione
in questi ultimi venti anni di misure di politica economica keynesiana non ha avuto il risultato previsto
proprio
perché questa dottrina economica è superata e non riesce più a spiegare la
realtà economica. Si verifica quindi
a tutti livelli una completa inadeguatezza delle terapie anticongiunturali proposte da Keynes nel 1929 e
accolte
dai suoi seguaci p. es. italiani, i quali a livello governativo hanno proposto, per superare la recessione
(domanda
inferiore all'offerta) un "pacchetto" di misure anticongiunturali di 400 miliardi che costituisce una tipica
politica
keynesiana e che già si rivela sulla carta come un intervento parziale e temporaneo finalizzato
a tonificare la
domanda aggregata e che si ricondurrà nuovamente ad una selvaggia inflazione.
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