Rivista Anarchica Online
I conti con Fanfani
di Emilio Cipriano
Compromesso storico
La prospettiva del compromesso storico, la si consideri giusta o
sbagliata, è la sola che non ha soffre
sbandamenti e oscillazioni: per cui deve essere mantenuta fermamente come prospettiva
fondamentale" ha
dichiarato il segretario del P.C.I. Berlinguer al suo rientro in Italia dopo la "vacanza" in
Jugoslavia. Quindi, nonostante "l'incidente portoghese" i comunisti si preparano alle prossime
elezioni regionali fermamente
convinti a rilanciare con più vigore la strategia dell'incontro con la D.C.. Berlinguer, nonostante
la levata di scudi
(crociati) dei dirigenti democristiani insiste nella strategia da lui abbozzata quasi due anni fa e
ampiamente chiarita
durante il XIV Congresso del Partito. In una cornice spettacolare ad un tempo faraonica ed
efficientistica i massimi dirigenti del secondo partito italiano
hanno illustrato agli oltre 1200 delegati la nuova linea politica del partito e hanno dato le indicazioni che
dovranno essere riportate alla base. Il compromesso storico è stato l'argomento principale trattato
dalla grande
maggioranza dei relatori; Berlinguer, che ha svolto la relazione introduttiva, ha espresso la
volontà del partito di
inserirsi più organicamente nell'area di potere, ha offerto prove di "ragionevolezza" dichiarando
che i comunisti
al governo non modificheranno l'assetto delle alleanze internazionali (permanenza nella N.A.T.O.) e ha
ribadito
la convinzione che il P.C.I. è l'unica forza in Italia in grado oggi di fare uscire il Paese dallo stato
di crisi in cui
si trova. Il compromesso storico infatti (e l'abbiamo scritto più volte) nasce dalla
realtà economica, sociale e politica
italiana, non è una boutade di Berlinguer, ma piuttosto una esigenza ormai
difficilmente rinviabile. La crisi
economica ha reso ancor più attuale la prospettiva della cogestione del potere tra D.C. e P.C.I.
poiché solo il
Partito Comunista è in grado di richiedere (come ha affermato Amendola) quei sacrifici alla
classe operaia che
possono permettere all'industria ed al mondo imprenditoriale di riassestare i loro bilanci. Inoltre non
è più possibile congelare i nove milioni del P.C.I., anche perché il partito in
questi anni non è più solo
il portavoce della classe operaia, ma anche di intellettuali (l'1,43 p.c. degli iscritti) di impiegati (4,22 p.c.)
di
piccoli industriali e commercianti (3,57 p.c.), di pensionati (16,5 p.c.), di casalinghe (12,28 p.c.), di
tecnocrati
e di burocrati a vari livelli. La classe dominante democristiana poteva gestire il potere con i suoi
"tradizionali
alleati" finchè i comunisti costituivano l'opposizione che rappresentava le classi meno abbienti,
ma oggi che il
P.C.I. è il partito di tutte le componenti della società italiana (dai dirigenti progressisti
agli operai sindacalizzati
ai braccianti del Sud), tutto ciò non è più possibile. Il P.C.I. ha legami ed interessi
di potere a tutti i livelli senza
avere la responsabilità derivante dalla gestione in prima persona del potere. Francamente bisogna
rilevare che si
tratta di una situazione anomala, una situazione che genera distorsioni e attriti sempre più
difficilmente mediabili. Ma se il P.C.I. è un partito "d'ordine" che combatte aspramente le
dissidenze di sinistra, un partito che può
garantire la "pace sociale" tra lavoratori e imprenditori, un partito che può favorire la ripresa
economica e
contribuire al varo di riforme non più rinviabili, perché la D.C. continua a negarsi al
"compromesso sposo"? Le
ragioni sono molteplici. Vediamo di analizzarne alcune. Una causa "esterna" alla volontà della
D.C. è
l'opposizione di Washington che non vuole siano alterati gli equilibri di potere nell'Europa Occidentale
sua
tradizionale zona d'influenza dopo la spartizione di Yalta. Per quanto concerne le ragioni interne
dobbiamo
riconoscere che i dirigenti democristiani (primo fra tutti Fanfani) agiscono nell'unico modo a loro
possibile;
rinviare quanto più possibile l'appuntamento con i comunisti perché sanno che di fronte
al monolitismo del P.C.I.
essi non potrebbero opporre che una sequenza di correnti spesso antagoniste fra loro, e quindi
politicamente ne
sarebbero schiacciati. Inoltre, in questo momento la D.C. è impegnata a recuperare
l'elettorato moderato di destra, disorientato dalla
politica avventurista e bombarola di Almirante, e non può quindi permettersi sbilanciamenti a
sinistra. Ma la
maggior preoccupazione dei democristiani è che i comunisti, una volta al governo, metterebbero
in discussione
l'impero industriale D.C. costituito dalle imprese pubbliche. E questo la D.C. non se lo può
permettere poiché
la base del suo potere economico e la fonte principale dei suoi finanziamenti è costituita proprio
dagli enti
pubblici (I.R.I., E.N.I., E.G.A.M., ecc.), mentre il P.C.I. ha saputo crearsi un piccolo impero economico
indipendente e solo da lui controllato. Finora i democristiani hanno lasciato ai loro alleati di governo solo
le
briciole delle aziende pubbliche, mentre un partner come il P.C.I. sicuramente
pretenderebbe di poter controllare
anche enti finora tradizionalmente feudi D.C.. Un'ultima considerazione. La Democrazia Cristiana
non ha tra le sue fila o tra i suoi simpatizzanti una larga
schiera di intellettuali, economisti, sociologi, filosofi, cioè di tutta quella gente che
crea pensiero, mentre il Partito
Comunista è oggi il partito che "possiede" una vasta e articolata intelligentsia,
sicuramente la più preparata in
Italia: gente che sa rinnovare, riformare, oltre che gestire con efficienza. Per la D.C. si tratta quindi
di rinviare quanto più è possibile l'incontro nella stanza dei bottoni con il P.C.I.,
cercando nel frattempo di rinnovarsi negli uomini e nelle strutture per poter affrontare la collaborazione
di
governo senza venire schiacciata. Ma è possibile rinnovare questa vecchia "puttana" dopo
trent'anni di potere
incontrastato? Fanfani ha capito che la cosa è difficilmente fattibile e ha deciso di lottare sino in
fondo per
rinviare sine die il compromesso.
Emilio Cipriano
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