Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 5 nr. 38
aprile 1975


Rivista Anarchica Online

Cultura di Stato e oppressione linguistica
di R. Brosio

Aspetti positivi e negativi nella recente "riscoperta" delle minoranze linguistiche in Italia - La tesi riformista sostenuta da Salvi nel volume "Le lingue tagliate" - Solo il federalismo anarchico potrà garantire lo sviluppo delle culture e delle lingue oppresse.

Da quando, circa un anno fa, abbiamo trattato l'argomento "minoranze etniche" (c f r. A 27, La diversità riscoperta), il problema è andato indubbiamente acquistando credito e risonanza. Oggi se ne occupano non solo ristretti drappelli di "addetti ai lavori", o i diretti interessati (cioè gli appartenenti alle minoranze stesse), ma anche rappresentanti più o meno autorevoli della cultura e della politica, giornalisti, sociologi, scrittori, intellettuali. Si è formato insomma un vero e proprio movimento d'opinione, con qualche caratteristica tipica delle mode, che fiancheggia le rivendicazioni neo-nazionaliste, pur senza parteciparvi direttamente, e ne apprezza i contenuti e le motivazioni.
Il fenomeno presenta aspetti indubbiamente positivi. Soprattutto ha avuto il merito di rendere di pubblico dominio alcune situazioni drammatiche (per esempio, quella italiana, dove una miriade di nazionalità - e comunità - minoritarie, fino a ieri dimenticate, rischia di scomparire senza lasciare traccia) ed ha senz'altro contribuito al risveglio di qualche coscienza etnica addormentata. Ciò nonostante, questo aumentato interesse per i neo-nazionalismi è ben lontano dall'entusiasmarci. Avremmo preferito vedere crescere le rivendicazioni delle minoranze oppresse, piuttosto che l'attenzione degli estranei per esse. È vero che, spesso, le due cose vanno di pari passo. Ma è anche vero che, ultimamente una piccola folla di linguisti e di etnologi perlopiù improvvisati si è messa all'opera con animo da collezionisti imbalsamatori, alla ricerca di lessici antichi e tradizioni moribonde. Il che sarà anche di gran vantaggio per la cultura, ma non ha nulla a che vedere con il risvegliarsi autonomo di un'etnia straniata, la quale acquista consapevolezza di sé e lotta per il "diritto alla diversità". Certe operazioni di resurrezione linguistica, in definitiva, puzzano parecchio di artificioso, di costruito.
Già nel precedente articolo, si metteva in luce come le motivazioni, cioè gli scopi dichiarati, che muovono le popolazioni minoritarie nei conflitti contro quelle maggioritarie, siano molteplici e non tutte ugualmente valide: alla lotta per la lingua si affianca spesso quella per la religione (Irlanda), alla denuncia del sottosviluppo fa riscontro a volte il desiderio di cogestione del potere (Reggio Calabria) o di godimento esclusivo dei suoi privilegi (Croazia). Nonostante ciò si notava come questi non siano altro che dei vestiti occasionali di cui si coprono, di volta in volta, le varie rivendicazioni: la causa originaria è unica, è da ricercarsi nella resistenza che, da sempre, gli uomini oppongono a chi li vuole plasmare, comandare, condizionare, senza rispetto per la loro volontà. All'origine di ogni conflitto etnico c'è sempre un'oppressione che non coincide necessariamente con lo sfruttamento, ma coincide sempre con l'obbligo a sottostare ad un'imposizione, a rientrare in un ordine stabilito altrove, a farsi diversi da quanto si è.
Alle resistenze naturali, spontanee, contro tutto ciò, gli anarchici si interessano, non alle giustificazioni sovrastrutturali di cui si rivestono. A questo proposito, ricordiamo ancora una volta il caso della Catalogna che è veramente esemplare. Il forte orgoglio nazionalistico dei suoi abitanti non nasceva (e non nasce) né dal sottosviluppo né dallo sfruttamento in senso proprio: la Catalogna è sempre stata uno dei territori più ricchi della Spagna e, fin dagli inizi del '900, uno dei più industrializzati. Ciò nonostante, questa sua efficienza produttiva era posta "al servizio" del potere centrale di Madrid, sottoposta al suo controllo. Il tentativo sistematico di distruggere ogni connotazione etnica autonoma, da parte di tale potere centrale, non era quindi altro che il tentativo di sancire anche culturalmente questa dipendenza, in modo tanto più violento quanto più vivaci erano invece le capacità economiche di autonomia dei catalani. Questo accadde sia nell'epoca della monarchia spagnola, prima e durante la dittatura di Primo de Rivera, sia, dopo una tormentata parentesi repubblicana, all'indomani della vittoria franchista. Se secondo le autorità centrali di Madrid - i catalani dovevano farsi castigliani, e cioè perdere la coscienza di sé, era perché in tal modo sarebbe apparsa meno stridente la dipendenza da un potere non solo etnicamente, ma soprattutto economicamente estraneo. Di qui, per contro, l'avversità dei catalani contro i governanti di Madrid e la forte colorazione separatista della rivendicazione etnica. Orbene, gli anarchici spagnoli non "sollecitarono" mai questo separatismo, ne lasciarono intendere una loro convergenza, anche temporanea, sugli scopi politici che lo muovevano. Quando, dopo il 19 luglio 1936, la Catalogna raggiunse almeno in parte questi scopi, non differenziarono il loro atteggiamento verso la Generalitat (il governo regionale catalano) da quello che avevano per il potere centrale repubblicano, non dimostrarono certo per il governo di Barcellona minore "antipatia" ed ostilità che per quello di Madrid.
Era il sentimento che stava dietro a tutto ciò ad interessarli, cioè quell'orgoglio etnico che costituiva il presupposto non solo del separatismo, ma anche dell'odio popolare contro le ingiustizie e le repressioni perpetrate dal potere centrale. E fu l'appello a questo sentimento originario, genuino, e non alle sue manifestazioni "secondarie", a creare intorno alla C.N.T. catalana quel consenso proletario che si espresse poi nella rivolta vittoriosa contro il golpe di Franco. D'altronde il 1936 è passato alla storia come l'anno della rivoluzione libertaria spagnola (e catalana, in particolare), e non come quello della conquista (catalana o basca) dell'autonomia politica. Proprio nella rivoluzione libertaria l'orgoglio etnico trovava la sua giusta collocazione accanto alle altre componenti che la muovevano, le sue capacità di dare frutti genuini e non bastardi.
Il lettore ci perdonerà la lunga digressione, ma crediamo che essa sia stata utile per mettere in luce la natura dell'atteggiamento anarchico nei confronti dei movimenti di rivendicazione neo-nazionale. Che non ci sembra né di infastidita sufficienza, né di sottovalutazione superficiale. Ma nemmeno ci porta alla perdita della nostra connotazione ideologica: anche noi siamo stati (e siamo tuttora) una "minoranza oppressa" (anche se minoranza politico-sociale, non etnica) e quindi anche noi ci teniamo gelosamente a mantenere la nostra "identità". Al contrario, buona parte dell'interesse attuale per le comunità minoritarie si muove da un equivoco. Invece di privilegiare ciò che origina la rivendicazione etnica (e quindi ciò che ne determina i limiti e le possibilità di affermazione) sono le manifestazioni esteriori di essa ad essere prese in considerazione, quelli che già abbiamo definito i "vestiti" della rivendicazione stessa. Tipico, a questo proposito, il caso della lingua, che ha preso ormai le dimensioni di un problema a sé stante e gode di una attenzione di gran lunga superiore a tutte le altre possibili motivazioni rivendicative. Ciò accade certamente a causa della frequenza con cui tale problema si ritrova in quasi tutti i conflitti etnici, ma anche, forse, della sua "neutralità", della possibilità di essere avvicinato con gli intenti più disparati, da quello politico-sociale a quello puramente culturale, o addirittura unicamente classificativo.
L'importanza della lingua, come strumento per la riconquista o il mantenimento della propria identità etnica, non è da sottovalutare. Famosa è ormai l'affermazione secondo cui una lingua non è soltanto un repertorio convenzionale di segni, ma una vera e propria concezione del mondo. Cioè, l'espressione di un preciso rapporto con la realtà, frutto di una determinata situazione sociale ed economica e del complesso di mentalità, atteggiamenti psicologici, tradizione culturale di una etnia. Essere costretti ad usare una lingua diversa dalla propria significa dunque forzare il proprio cervello a ragionare in un modo che non gli è congeniale, perdere il rapporto abituale con le cose e smarrirsi nella ricerca faticosa dei confini di un nuovo rapporto, inizialmente sconosciuto. Perdere la propria identità etnica significa dunque perdere anche la propria identità personale, il "senso di sé" come membro di una comunità e quindi come individuo, dal momento che non si può "esistere" da soli. Ecco dunque svilupparsi la lotta contro le imposizioni linguistiche, tanto più aspra e puntigliosa quanto più il processo di straniamento cui le minoranze sono sottoposte è contrastato da una radicata coscienza della propria identità.
Non ci sogneremo mai di mettere in discussione tutto ciò. Non ci sogneremo mai di negare comprensione - per esempio - al desiderio dei baschi, o dei sardi, o dei friulani, di parlare nel proprio idioma materno e di sentire questo comune desiderio come una specie di "cemento" che li unisce in una lotta comunitaria per la propria etnia. Ma per salvare una lingua non basta salvare un'etnia, se insieme ad essa non viene salvato anche quel complesso di situazioni ambientali, quel "rapporto con le cose" che dell'etnia è la vera matrice. Di ciò la lingua è solo la testimonianza, l'espressione, come si diceva, non la causa. Parallelamente, l'oppressione linguistica, l'imposizione di un idioma estraneo alle tradizioni dell'ethnos e il conseguente straniamento non sono che il risultato di altre imposizioni più concrete, che vengono a modificare proprio quel rapporto, strappando gli uomini al loro ambiente naturale o alterandone profondamente gli equilibri tradizionali. Se non riesce ad incidere in questa realtà, ogni lotta con intendimenti esclusivamente linguistici è destinata al fallimento. Si tratta del tipico equivoco di chi scambia i sintomi per la malattia. Proprio di un tale equivoco è rimasto vittima, a nostro giudizio, Sergio Salvi, autore del volume "Le lingue tagliate - storia delle minoranze linguistiche in Italia" (Rizzoli, 1975) che sta riscuotendo un discreto successo editoriale. In effetti il libro è interessante ed offre un panorama completo e dettagliato delle minoranze linguistiche in Italia, corredato dall'elenco di tutti i comuni alloglotti. Nel suo insieme, "Le lingue tagliate" è denso di notevole sapienza glottologica, almeno per quanto è dato capire a dei "profani" come noi, e sotto questo profilo - dunque - nulla da obiettare. Ma la trattazione parte dall'ingenua considerazione che se molte comunità alloglotte appaiono condannate all'estinzione ciò è dovuto principalmente alla mancata applicazione di alcuni articoli della Carta Costituzionale: il che ci sembra decisamente insostenibile, spiegazione reticente e superficiale delle origini di un fenomeno tanto rilevante da meritarsi a pieno diritto la denominazione di "genocidio bianco". Passando dal generale al particolare, bisogna riconoscere che la vera natura del fenomeno è spesso messa in luce in una maniera che ci trova assai più consenzienti. L'autore parla dell'emigrazione che ha sradicato dal loro territorio intere popolazioni come i greci di Calabria o gli albanesi di Sicilia o in mocheni della Val Fersina. "Dopo sessant'anni di scuola italiana - scrive Salvi -, dopo vent'anni di televisione italiana, la gente ha in parte smarrito il lessico, così vasto e così variegato, una volta a propria disposizione. Comincia a rassegnarsi all'uso stentato di un italiano fatto di cento parole (...). Prendiamo la fascia alpina: gli indigeni sono pompati dalle fabbriche della pianura limitrofa oppure dall'Europa ricca: i loro villaggi semivuoti sono spesso appetiti, corteggiati, "cementizzati" dall'industria turistica. Ne partono gli occitani, il franco-provenzali, i tedeschi, i ladini, gli sloveni, per andare ad "italianizzarsi" in pianura e vi arrivano i turisti ad "italianizzare" i superstiti (...)". Altrove, il riconoscimento delle cause del genocidio in atto allarga i suoi orizzonti, ed è allora la "cultura di massa", prodotta dall'espansione economica e dallo sfruttamento, ad essere additata come responsabile dell'imbavagliamento delle popolazioni minoritarie, nel quadro di una disumanizzazione generale dei rapporti umani.
Eppure, quando si arriva al "che fare?" tutto ciò viene dimenticato. Salvi ritorna a chiudersi nella dimensione esclusivamente linguistica del problema, auspicando leggi e provvedimenti a tutela delle varie alloglossie. Leggi e provvedimenti che dovrebbero essere varati ed applicati da quello stesso sistema autoritario che finora non ha voluto neanche applicare i (suoi) dettami costituzionali, quello stesso sistema autoritario che ha preparato il substrato economico-sociale di questo straniamento, che uccide quotidianamente le culture minoritarie perché tende ogni giorno a spegnere la scintilla della consapevolezza in ogni uomo, che rifiuta a chiunque il diritto di "essere diverso" perché ha bisogno di un gregge uniforme da asservire per continuare ad esistere. Che senso ha allora procedere al censimento delle minoranze linguistiche in Italia, programmare l'insegnamento delle lingue materne nelle scuole, chiedere aiuti finanziari, se poi i paesi continueranno a spopolarsi, se il cemento turistico continuerà a prendere il sopravvento, se il "progresso economico" trasformerà le antiche comunità fatte a misura d'uomo in giganteschi dormitori per folle di lavoratori manuali, se le tradizioni, le feste, le abitudini verranno soppiantate dal ritmo innaturale dei ritmi di lavoro, dalle evasioni anonime della società massificata?
Salvi stesso riconosce che, anche nei territori dove la tutela linguistica è effettivamente esercitata (Tirolo meridionale, per esempio), "(...) la civiltà della Coca-Cola, del campionato di calcio e di Canzonissima avanza a rullo compressore e distrugge ogni conato di indipendenza culturale (...)". Senza rimuovere radicalmente le cause, non sì può risolvere il problema. Chi userà mai il lessico della tradizione per nominare oggetti e situazioni che con la tradizione non hanno nulla a che fare? Ma le cause non possono essere rimosse nell'attuale ordine sociale, come mai potrebbe rimuoverle lo Stato, che è il principale responsabile di tutto ciò?
Noi anarchici dal potere statale non ci aspettiamo altro che cinico disinteresse, forse "coperto" da dichiarazioni mistificanti. Più probabilmente, la consueta repressione. Solo l'organizzazione federativa della società può risolvere adeguatamente il problema. Solo l'organizzazione federativa anarchica, senza Stato e quindi senza poteri sopraffattori, potrà garantire a tutti, etnie ed individui, regioni e comunità produttive, quel diritto ad esprimersi liberamente, quel diritto ad essere se stessi, senza il quale l'uomo non potrà mai essere né libero né felice.

R. Brosio