Rivista Anarchica Online
Consigli di fabbrica e autonomia operaia
a cura di P. F.
L'8 novembre abbiamo organizzato un incontro, cui hanno partecipato cinque compagni di Venezia,
Torino e
Milano che svolgono attività "anarco-sindacalista" in diverse realtà aziendali. Abbiamo
pensato, mettendo a
confronto alcune esperienze personali, non certo di risolvere la complessa e dibattuta questione dei
consigli di
fabbrica, ma di fornire del materiale "di prima mano" per una discussione ancora aperta nel campo
libertario.
Tanto più che il tema particolare è solo un aspetto della più generale tematica
relativa al difficile compito, che
spetta ai lavoratori anarchici, di difendere e sviluppare in un coerente progetto ed in una adeguata
organizzazione
le tendenze egualitarie e libertarie spontaneamente rinate tra gli sfrittati in questi ultimi anni (la cosiddetta
"autonomia proletaria").
PAOLO (redattore di A) - Penso che sia utili iniziare l'incontro con un
giro di interventi sulle singole esperienze
dei compagni presenti. MAURO - Entrato alla "Michelin" dopo un periodo di apprendistato (dato
che la "Michelin" doveva impiantare
dei macchinari nuovi in Italia che già erano in funzione in Francia), ritornai in Italia e presi
contatto con i
sindacalisti che conobbi sul posto di lavoro con il fine di iscrivermi ad un sindacato, avere un contratto
di lavoro
e seguire quel che succedeva. Vista la mia partecipazione alla vita sindacale di fabbrica ed alle assemblee
che si
tenevano alla Camera del Lavoro mi fu proposto di partecipare ad un corso sindacale che si tenne a
Meina:
argomento, i consigli di fabbrica. Quando fui ammesso al corso avevo ancora la tessera della C.G.I.L.
In questo
corso si parlò dei consigli di fabbrica, di come organizzarli. Dopo questo corso sindacale si dette
vita all
"Michelin" ad un consiglio di fabbrica che possiamo definire "illegale", nel senso che non godeva di un
riconoscimento ufficiale da parte della direzione della "Michelin". Alle prime elezioni io fui eletto (1970)
ed
allora il numero dei delegati era di circa 150 in tutta la fabbrica. Senonché da parte del sindacato
si voleva un
riconoscimento ufficiale da parte della direzione; prima c'era la commissione interna, ora si voleva
sostituirla con
il nuovo organismo del c.d.f., ma la direzione continuava a riconoscere solo la direzione interna. Quando
poi
avvenne il riconoscimento ufficiale ci fu una grossa bidonatura: il c.d.f. che fu impiantato non
può nemmeno
essere definito un consiglio di fabbrica, ed anche oggi si può affermare che alla "Michelin" di
Torino-Dora (dove
lavoro io) un vero c.d.f. non c'è. Infatti i delegati eletti da tutte le squadre
erano circa 150, mentre la direzione ne ha riconosciuti e ne riconosce
solo novantanove, in base al principio numerico: cioè la direzione riconosce un delegato ogni 50
lavoratori, non
il delegato della squadra, cosicché queste persone che venivano incaricate di fare il delegato si
trovavano a
rappresentare oltre ai propri compagni di squadra anche altri lavoratori non della loro squadra, che
pertanto non
avevano certo molte occasioni per parlare, per discutere con lui sui problemi. Così il delegato
all'interno del c.d.f.
prendeva decisioni per 50 persone che lui non rappresentava. Al limite, se nella squadra ci fosse stata
discussione,
dibattito, il delegato non poteva che rappresentare la sua squadra, non certo gli altri. Da parte mia, poi,
c'è stato
un intervento in fabbrica, in collaborazione con il "Collettivo Lavoratori Libertari" e con il gruppo
Azione
Anarchica (del quale faccio parte), proprio per far vedere agli operai la buggeratura che era stata
fatta; inoltre
abbiamo sottolineato il fatto che il delegato doveva essere fatto a rotazione da tutti i lavoratori, in modo
da
garantire la rappresentatività del c.d.f.; per esempio in una squadra di 20 persone tutti avrebbero
potuto, un mese
per ciascuno, fare il delegato. Questo perché nell'anno in cui ho svolto questo incarico ho notato
che, mentre io
partecipavo alle assemblee e discutevo i problemi che da parte del sindacato venivano posti o che
comunque
sorgevano, da parte della squadra non c'era interessamento, si diceva "tu sei il delegato, decidi tu
quello che c'è
da fare". La decisione dunque non era presa dalle squadre, ma dal singolo delegato e ciò
era una cosa che a me
non andava giù. Allora per interessare tutti ai problemi che sarebbero sorti abbiamo ritenuto
appunto opportuno
che questo incarico fosse fatto a rotazione. E questo è un primo aspetto. Un altro aspetto
è che le elezioni dei delegati fossero rifatte e che fosse riconosciuto dagli operai, non tanto dalla
direzione, il delegato della squadra, perché se anche la direzione avesse detto NO noi avremmo
comunque fatto
in modo che la scelta dei delegati avvenisse in tutta la fabbrica, sulla base delle (circa) 150 squadre. A
questo
punto si poneva un problema: come avremmo fatto, dal momento che la direzione avrebbe concesso
libertà di
movimento e di partecipazione alle riunioni dei delegati solo a quei 99 da lei riconosciuti, mentre noi
proponevamo che comunque il consiglio dei delegati fosse di 150 delegati? Tanto più che il
sindacato non era
d'accordo con la nostra proposta ed accettava l'accordo già raggiunto con la
direzione. Facciamo l'esempio del mio reparto, il "pi greco ix" (confezione pneumatici) dove io
lavoro con la qualifica di
operaio di 1a categoria, reparto che è composto di tre squadre: di delegati eletti,
riconosciuti dalla direzione ne
spettavano due: restava dunque un reparto il cui delegato non sarebbe stato riconosciuto. La nostra
proposta
iniziale era che a turno, quando venivano fatte delle votazioni, venissero cambiate le rappresentanze; la
prima
volta venissero riconosciuti i rappresentanti A e B ed escluso quello C, poi escluso quello A e
così via. Se poi
gli operai avessero trovato gusto nel partecipare alla vita del Consiglio e ne avessero compreso la
importanza,
allora sarebbero stati loro stessi ad imporre alla direzione il riconoscimento di tutti i delegati, e non solo
una
parte. Da parte dei sindacati non si rispose a questo nostro discorso, o meglio si rispose in modo
negativo: si disse che
"se i lavoratori sono disposti a farlo, a ruotare, per noi va bene", però non fecero
assolutamente nulla per
poterlo realizzare. Proprio sul tipo di organizzazione del consiglio di fabbrica, sul suo funzionamento,
non c'è
un dibattito continuo per poter avere una visione chiara di come deve funzionare. Il delegato alla
"Michelin" è
più o meno un dirigente, che esprime all'interno della fabbrica quello che vuole il sindacato,
invece di essere il
contrario; dovrebbero essere i lavoratori a dare il mandato al delegato e a dirgli ciò che deve
fare. Al riguardo proprio dell'esecutivo, nella prima elezione veniva posto questo fatto: per accordo
fra i tre sindacati
(CGIL, CISL, UIL) si stabiliva che l'esecutivo del c.d.f. doveva essere composto in questo modo: sei
membri
dell'esecutivo dovevano essere della CGIL, tre della CISL e tre della UIL. A noi sembrava una nota
stonata; visto
che le elezioni del delegato venivano fatte su scheda bianca che cosa sarebbe mai successo se tutti i
delegati eletti
appartenessero tutti alla medesima sigla, o addirittura se i delegati non fossero iscritti a nessuno dei
sindacati?
Avrebbero i sindacati riconosciuto ciò che i lavoratori avevano espresso o avrebbero cercato di
far rifare le
elezioni? Si è andati avanti un anno con questo esecutivo, al suo rinnovo è stato
riproposta la stessa cosa, dicendo
che l'unità sindacale è un fatto ancora di là da venire, che sarebbe bello fare le
elezioni a scheda bianca
qualunque risultato ne venisse fuori, ma per adesso intanto rifacciamolo allo stesso modo: 6 alla CGIL,
3 alla
CISL e 3 alla UIL. A ciò c'è stata un'opposizione da parte di tre o quattro delegati, che
hanno accusato i
sindacalisti di essere antidemocratici (dal momento che i sindacati si lavano spesso la bocca con la parola
democrazia); il difetto che ha avuto questa opposizione è stato quello di non aver preso di petto
la situazione,
limitandosi a far notare che così non andava bene e ad auspicare che l'anno successivo le cose
si svolgessero
diversamente, che quest'inconveniente fosse superato, facendo appunto un'elezione diretta, senza
più guardare
le sigle. Per quanto riguarda la mia partecipazione dall'interno alla vita del c.d.f. va sottolineato che,
nonostante che io
sia stato eletto dalla squadra, i miei compagni di lavoro mi vedevano sotto la veste del dirigente, e non
del
delegato; in pratica non mi davano un mandato sui vari problemi in modo da riferire la loro opinione al
c.d.f. Per
esempio, la squadra decideva che bisognava richiedere un aumento, ma non decideva che tipo di
aumento: il
delegato (io, in questo caso) era lasciato libero di dire quel che voleva a nome della squadra. E' evidente
che in
questo modo il delegato non era più tale, ma di fatto agiva da dirigente. Si trattava poi di un
ambito limitato,
perché all'interno del c.d.f. si ritrovavano per lo più le decisioni che il sindacato prendeva
in sede nazionale e
che sguinzagliava tramite i suoi funzionari in tutte le sedi periferiche. Per cui si arrivava al punto che era
l'esecutivo che diceva ai delegati ciò che loro dovevano andare a dire agli operai. Non essendo
protagonisti in
prima persona, i lavoratori diventavano così solo una massa di manovra. Tutto ciò
considerato, quando c'è poi stata la prima elezione ufficiale io non ho accettato di ripresentarmi
come
delegato, per dare la possibilità di fare ruotare questo incarico in modo che tutti, entrando
all'interno del c.d.f.
e conoscendone dall'interno il funzionamento, avrebbero potuto apprendere qualche cosa, avrebbero
potuto dare
un contributo alle lotte e tutto il movimento operaio ne avrebbe tratto vantaggio, mentre nell'attuale
situazione
i lavoratori non sono - come già ho detto - che una massa di manovra dei sindacati, attraverso
i consigli di
fabbrica. CORRADO - Sono entrato in fabbrica al Petrolchimico di Porto Marghera nel 1971 ed
ora sono operaio di 1a
categoria; allora il c.d.f. era abbastanza rappresentativo. Entrato in fabbrica ho subito iniziato il lavoro
politico,
entrando in contatto con la realtà di fabbrica e cercando di prendere contatti un po' a tutti livelli,
con i
sindacalisti, con i lavoratori rivoluzionari all'interno del c.d.f. ed anche nell'esecutivo. Nel contempo ho
sempre
continuato la militanza anarchica nel gruppo Nestor Machno di Marghera (in cui milita
anche Levis). Fin
dall'inizio ho rifiutato di iscrivermi al sindacato a causa del suo verticismo. A partire dal '71 l'autonomia
del
c.d.f. è andata sempre più diminuendo e quindi è sorta la necessità di
trovare un'altra via organizzativa per poter
incidere sulla situazione. Da questa esigenza di sganciarsi da un c.d.f. sempre più controllato dai
vertici sindacali
nasce l'esigenza dell'ASSEMBLEA AUTONOMA, che deriva appunto dalla volontà dei vari
lavoratori del
Petrolchimico di costruire un organismo abbastanza complesso e generalizzato, che allarghi il suo ambito
di
operatività dalla fabbrica al quartiere. Da allora Levis ed io abbiamo sempre partecipato alle lotte
portate avanti
dalla assemblea autonoma. PAOLO - Quali forze politiche hanno partecipato alla creazione
dell'assemblea autonoma e quanti lavoratori
promotori dell'iniziativa erano già militanti in raggruppamenti della sinistra
rivoluzionaria? LEVIS - L'a.a. è proprio nata all'interno del Petrolchimico, come iniziativa
portata avanti da elementi attorno
a Potere Operaio; anzi, per quel che riguarda P.O., si può dire che proprio da questo momento
è cominciato lo
scioglimento dell'organizzazione di P.O. La a.a. è sorta alla fine della lotta contrattuale, che
proprio all'interno
del Petrolchimico aveva avuto modo di esprimere un altissimo potenziale di lotta fra i lavoratori. Si era
cioè
riusciti a saltare almeno in parte la mediazione sindacale per discutere e trattare tutto. Questo era un fatto
nuovo,
importantissimo. Si trattava cioè di passare autonomamente ad una riduzione di orario:
cioè i lavoratori
chiedevano sì una riduzione di orario, ma nel frattempo si erano già organizzati per
attuare da soli la riduzione.
Visto che questo tipo di lotta non è andato avanti a causa del boicottaggio sindacale e visto che
c'era una forte
base operaia che era indirizzata verso questo nuovo tipo di lotta, è venuta fuori la prospettiva di
una
organizzazione autonoma, indipendente dal sindacato e questa iniziativa è stata ripresa dai
militanti di P.O., di
L.C. e di altri gruppi. Vi è però stata quasi subito l'uscita di questi gruppi, che
contrastavano con P.O. il quale
già marciava verso lo scioglimento della sua organizzazione in nuove strutture tipo appunto l'a.a.
di Porto
Marghera. CORRADO - Levis ha messo in rilievo un aspetto delle lotte che venivano portate avanti
dall'assemblea
autonoma, cioè della riduzione dell'orario di lavoro alle 36 ore settimanali. Su questo obiettivo,
però, sia a causa
del boicottaggio sindacale, sia per carenze organizzative interne all'a.a., non si è riusciti a
sfondare. Un altro tema
delle lotte del periodo 72/73 è stato quello della nocività; si è cercato di stabilire
un regolare contatto con medici
e specialisti simpatizzanti che ci dicessero veramente se avevamo o no la silicosi, il piombo nei polmoni,
ecc.
Infatti a Marghera era difficile trovare dei medici onesti che fossero precisi nelle loro diagnosi.
Comunque, nel
complesso, l'a.a. è diventata sempre meno autonoma, a causa della preponderanza dei militanti
di P.O., che sì
avevano una concezione diversa da quella degli altri raggruppamenti della sinistra extra-parlamentare,
ma alla
fine erano pur sempre dei marxisti, con la loro concezione organizzativa ben determinata. Al processo
di
centralizzazione e di definizione ideologica precisa (marxista) dell'a.a. è corrisposto un
progressivo svuotamento
dell'a.a. stessa, dalla quale si sono allontanati molti dei lavoratori che vi si erano avvicinati ai primi tempi,
quando
la pratica dell'autonomia era effettiva. In conseguenza di tutto ciò, Levis e io siamo usciti
dall'a.a. PAOLO - Altri anarchici o libertari hanno partecipato all'esperienza
dell'a.a.? CORRADO - Fin dall'inizio vi ha partecipato un altro compagno, di Venezia, anche lui
lavoratore, che ha dato
un grosso contributo alle lotte dell'a.a. Comunque recentemente anche lui è uscito dall'a.a. per
i nostri stessi
motivi. LEVIS - Vorrei fare una precisazione. All'interno dell'a.a. vi era una decina di compagni
libertari, alcuni dei quali
hanno abbandonato l'anarchismo ritenendo che il discorso dell'autonomia operaia fosse un passo avanti,
un
superamento dell'anarchismo stesso. Oggi questi ex-libertari continuano a far parte dell'a.a. e rifiutano
la tematica
anarchica. PAOLO - Nel complesso qual è la vostra opinione sull'esperienza dell'a.a.? Si
può a buon diritto considerarla
una Assemblea autonoma, almeno in una fase della sua esistenza, o piuttosto pensate che
sia stata un'esperienza
fin dall'inizio condizionata pesantemente da P.O.? LEVIS - L'a.a. è stata e resta autonoma
per quella misura in cui rifiuta un qualsiasi rapporto organico con
qualsiasi organizzazione specifica esterna. In questo senso i marxisti che hanno partecipato all'a.a. hanno
fatto
un salto qualitativo rispetto alla tradizionale impostazione marxista del legame diretto fra organizzazione
interna
ed esterna alla fabbrica. E' proprio su questo terreno dell'autonomia operaia che ci siamo trovati a
collaborare
con i militanti di P.O. nell'a.a. PAOLO - Nella loro critica a tutti i movimenti "esterni" l'a.a. di Porto
Marghera ha coinvolto anche il movimento
anarchico, senza cogliere la abissale differenza che passa tra le organizzazioni avanguardistiche e
centralizzatrici
dei vari gruppi marxisti-leninisti da una parte ed un movimento basato sulla federazione di gruppi ed il
rispetto
dell'autonomia come quello anarchico. Che cosa pensate in proposito? CORRADO - Voglio
sottolineare gli aspetti positivi espressi dall'a.a.: il rifiuto della centralizzazione, la
generalizzazione della lotta, la convivenza al suo interno di diverse tendenze rivoluzionarie. Da quando
sono
uscito, poi, dall'a.a. ho continuato la mia attività politica in fabbrica e nel quartiere. Oggi faccio
parte di un
"Comitato per l'autoriduzione" che è stato creato per trattare il problema degli aumenti delle
tariffe dell'E.N.E.L.,
dei trasporti, dell'acqua, ecc. PAOLO - A questo punto vorrei chiedere ai compagni di Marghera
quali sono stati i rapporti fra l'a.a. ed il c.d.f.
e come quest'ultimo sia strutturato. In particolare vorrei che fosse chiarito se il c.d.f. è
un'appendice pura e
semplice del sindacato o se riesce ad interpretare (e forse a ingabbiare) le spinte provenienti dalla
base. LEVIS - Innanzitutto va detto che l'a.a. ha voluto dimostrare anche che il c.d.f. non è
l'unica forma possibile per
l'organizzazione dei lavoratori in fabbrica. Infatti, dopo una prima spinta iniziale dovuta alla contestazione
operaia del 1968-'69, i c.d.f. sono stati progressivamente recuperati e sono divenuto espressione del
sindacato.
Almeno per quanto concerne la situazione di Porto Marghera i c.d.f. sono un'espressione diretta del
sindacato
e non un organo dei lavoratori. Vi è un patto federativo, concordato nel 1971 fra le
organizzazioni sindacali, che
già da tempo ha dettato le regole-base sulle quali il sindacato cerca di strutturare i c.d.f.,
garantendosi così di una
loro rispondenza ai voleri del sindacato su scala nazionale e controllando di fatto la vita
dei c.d.f. anche quando
formalmente tutto si svolge democraticamente. Da noi il c.d.f. è stato un organismo che ha
cercato di reprimere
le lotte portate avanti dall'a.a. CORRADO - Proprio di fronte all'involuzione del c.d.f., al
Petrolchimico abbiamo costituito una specie di
"comitato di lotta", che per ora serve a mantenere i contatti fra i lavoratori rivoluzionari dell'azienda. Si
tratta
di un'esigenza sentita fra i lavoratori, che è stata finora realizzata in alcuni reparti, anzi proprio
in quelli dove
l'esecutivo del c.d.f. si è scontrato apertamente con le esigenze di lotta dei lavoratori. Il tentativo
di generalizzare
a tutta la fabbrica l'esperienza partita da quei pochi reparti è in corso proprio in queste
settimane. GIORGIO - Dall'intervento di Levis riguardo al patto federativo dei sindacati per
regolamentare i c.d.f. risulta
evidente il motivo della suddivisione rigida dei membri dell'esecutivo del c.d.f. della "Michelin" che prima
c'è
stata descritta dal compagno di Torino. MAURO - D'accordo, però vorrei mettere in guardia
di fronte al pericolo di un'interpretazione troppo schematica
del patto federativo, che avrà certo validità generale sul territorio nazionale, ma che di
fatto può essere applicato
in modi differenti nelle singole realtà di fabbrica. La stessa divisione dei seggi dell'esecutivo del
c.d.f. è variabile
da fabbrica a fabbrica. Concordo con i compagni che comunque la situazione di fondo è comune
e che soprattutto
l'importante per il sindacato è di avere nell'esecutivo del c.d.f. un fedele strumento, che sia sotto
il suo diretto
controllo. GIORGIO - Vorrei dire quattro parole sulla mia esperienza alla Rizzoli, premettendo che
comunque lavoro da
quando avevo dodici anni e che non ho mai smesso. Sono entrato alla Rizzoli nel 1970 come operaio
di 2a
categoria; allora non avevo ancora alcuna coscienza politica, potevo essere definito un "qualunquista",
anche se
in effetti già da allora sentivo un confuso interesse a chiarirmi le idee, a cercare una mia
posizione. Subito alcuni
colleghi di lavoro mi consigliarono di prendere la tessera sindacale, spiegandomi che così sarei
stato più garantito
di fronte alla repressione padronale. Così presi la tessera della UIL. Nel contempo cominciai a
interessarmi di
politica, e appena conobbi le idee anarchiche capii di aver trovato ciò che mi soddisfaceva.
Quando dalla
commissione interna si passo all'organismo del c.d.f. vi furono le prime elezioni; i delegati del mio reparto
si
trovarono a scontrarsi con le scelte dell'esecutivo del c.d.f. che gli stessi operai del mio reparto ritenevano
che
avessero addirittura peggiorato la situazione del nostro reparto. Si giunse al punto che l'accordo stipulato
fra
l'esecutivo del c.d.f. e la direzione dell'azienda non fu sottoscritto dai delegati del mio reparto. Quando
poi vi
furono le seconde elezioni per il c.d.f. io mi presentai e fui aletto. Alla prima riunione del nuovo c.d.f.
ci fu
presentata una lista di candidati per l'esecutivo (presentata dal sindacato); la cosa suscitò la
meraviglia e le
proteste mie e di un altro compagno anarchico (Massimo P.) che era stato eletto anche lui nel
c.d.f. MAURO - Scusa se ti interrompo, ma c'è un fatto che mi sembra importante chiarire
subito. Il fatto che vari
delegati dei reparto on seno al c.d.f. abbiano accettato o meno la lista per l'esecutivo presentata dai
sindacati, e
comunque che abbiano votato per questo o per quel delegato da mandare nell'esecutivo, è stato
fatto sulla base
del preciso mandato del reparto che li ha votati oppure hanno agito di loro spontanea iniziativa, senza
nemmeno
consultare il loro reparto? GIORGIO - All'interno del c.d.f. ci sono come dei clan; per
esempio ci sono vento delegati della C.G.I.L. che
si riuniscono prima, stabiliscono fra loro la linea da seguire o i candidati da eleggere, e portano poi in
blocco le
loro decisioni all'interno del c.d.f.: non le decisioni dei loro reparti, ma quelle della organizzazione
sindacale cui
appartengono. Un altro aspetto della questione è il fatto che la maggioranza dei delegati presenti
alle riunioni del
c.d.f. non ha mai preso la parola. L'esperienza acquisita nel mio reparto mi ha poi fatto vedere che i
delegati di
reparto vengono poi scelti dai loro colleghi in base a motivazioni tipo "quello sa parlare bene", "quell'altro
mi
è simpatico", ecc. La tessera sindacale o la sigla non hanno molta importanza, almeno nel mio
reparto. Va
comunque chiarito che quando sono stato eletto delegato di reparto io avevo già dato le
dimissioni dalla UIL ed
ero sindacalmente autonomo. Appena eletto nel c.d.f. mi fu sottoposto l'accordo che l'esecutivo del
c.d.f. aveva stipulato con la direzione e
che i precedenti delegati del mio reparto avevano rifiutato di sottoscrivere; volevano che io firmassi. Mi
rifiutai
e proposi delle assemblee da tenersi con i lavoratori del mio reparto per discutere l'intera questione, ma
l'esecutivo rifiutò. Tornai più volte a discutere la "vertenza" insieme con l'esecutivo del
c.d.f., ma l'atteggiamento
dei suoi componenti fu inaccettabile: una volta non mi stavano nemmeno a sentire, la successiva mi
davano del
pirla, poi ancora non mi ascoltavano nemmeno, finché giunsero a darmi del fascista. Allora mi
decisi ad
organizzare da solo un'assemblea del mio reparto, che fu tenuta a cavallo fra due turni e che non
poté che durare
una mezz'ora. In quella sede ho spigato la situazione ed ho notato che solo una parte dei presenti
intervenne,
poiché la maggioranza aveva paura, dal momento che la mia azione era diretta anche contro i
sindacati. Il giorno
successivo fu convocata una riunione apposita del c.d.f. dedicata al "mio" caso, cioè al fatto che
avevo
organizzato l'assemblea autonoma di cui ho appena parlato. In pratica venivo accasato di aver scavalcato
il c.d.f.,
di spontaneismo, ecc. L'andamento dell'assemblea ve lo lascio immaginare: basterà dire che
eravamo due o tre contro ottanta. Andarono
a tirar fuori questioni personali, a volte false, comunque irrilevanti, tanto per poter poi emettere un
comunicato
diffuso nell'azienda in cui venivo tacciato di essere un "servo del padrone" (nel corso dell'assemblea, poi,
mi
avevano accusato di essere fascista). In seguito ad altre questioni relative al funzionamento del c.d.f. ed
anche in
vista della riapertura delle lotte per il contratto si decise di indire nuove elezioni per il c.d.f.. Io entrai a
far parte
della commissione elettorale, incaricata di preparare delle nuove elezioni. Nel contempo la C.G.I.L.
propose di
ridurre il numero dei delegati di reparto, suscitando l'opposizione della C.I.S.L. (nella quale, alla Rizzoli,
militanti gli esponenti del "Manifesto" e di altri gruppi). GIANNI - Secondo te, quale significato
può avere la richiesta avanzata dalla C.G.I.L. per la riduzione dei
componenti del c.d.f.? GIORGIO - Si tratta di una proposta di valore politico, anche se mascherata
dalla giustificazione che - secondo
loro - in pochi si lavora meglio. GIANNI - Quindi attraverso la diminuzione del numero dei delegati
si reparto si voleva arrivare ad un maggior
controllo sull'attività sindacale all'interno dell'azienda. GIORGIO - Sono d'accordo con te.
Terminando l'esposizione della mia esperienza nel c.d.f. della Rizzoli, voglio
ricordare che, una volta rieletto nel c.d.f., mi sono ritrovato davanti la medesima lista di candidati
all'esecutivo
preparata dai sindacati, così come la volta precedente. Secondo i sindacati non si trattava di
una scelta di fatto antidemocratica, così come avevo denunciato; dissero
infatti che la loro lista si poteva considerare approvata nel caso che nessuno volesse autocandidarsi,
poiché solo
in quel caso si sarebbero rese necessarie le elezioni per l'esecutivo del c.d.f. A quel punto io presentai
la mia
candidatura, non perché volessi davvero entrare nell'esecutivo, ma per costringerli a fare
comunque le elezioni.
La loro risposta fu la messa ai voti da parte del c.d.f. dell'accettazione della mia candidatura, che, dato
il
contesto, fu evidentemente respinta; mi fu cioè impedito di presentare la mia candidatura e la lista
sindacale fu
approvata in blocco senza votazione. Fu allora che decisi di dimettermi dal c.d.f., comunicandone la
decisione
ai lavoratori mediante un volantino in cui spiegavo che non me la sentivo di cooperare con un organismo
come
quel consiglio di fabbrica della Rizzoli, nel quale venivano solo ratificate decisioni già prese in
altre sedi. Alle
ultime elezioni per il c.d.f. non ci siamo presentati né io né l'altro compagno anarchico
cui ho accennato in
precedenza. PAOLO - Dopo le esposizioni dei compagni del Petrolchimico e dell'Allumetal di
Marghera, della Michelin di
Torino-Dora e della Rizzoli di Milano, prima di iniziare un po' di dibattito confrontando le varie
esperienze,
sarebbe utile che Gianni C., impiegato alla S.E.A. di Milano-Linate, ci facesse una breve relazione della
sua
attività. GIANNI - Sono entrato nel 1970 a lavorare alla S.E.A., che è la
società che gestisce gli aeroporti milanesi, nella
sede di Linate. Fin dall'inizio ho fatto attività sindacale senza però iscrivermi ad alcun
sindacato. Insieme con
molti altri lavoratori ho fatto pressione perché anche alla S.E.A. fosse istituito un c.d.f., che
difatti iniziò a
funzionare nel '73. Ho partecipato al lavoro di stesura dello statuto dei delegati di reparto, cercando di
renderlo
il più libertario possibile. Va sottolineato che quando sono stato eletto dal mio reparto come
delegato nel c.d.f.
ero già conosciuto come anarchico, avendo già svolto attività specificatamente
anarchica in precedenza (diffusione
della stampa e di volantini, discussioni, ecc.). Dopo alcuni mesi di attività nel c.d.f., mesi
caratterizzati da scontri
e polemiche continui con i burocrati sindacali, ne uscii con una dichiarazione diffusa fra tutti i lavoratori
(mediante un volantino firmato) e successivamente pubblicato dal settimanale anarchico
Umanità Nova. Credo che a questo punto della nostra tavola rotonda possa
essere positivo che io vi legga qualche stralcio della
mia dichiarazione di dimissioni, perché in essa ho cercato di concentrare il succo della mia
esperienza e degli
insegnamenti che ne ho fatto. "E' bene precisare subito un fatto molto importante: non mi ero
fatto nessuna illusione sulle concrete
possibilità, per noi lavoratori, di inserimento in quello spazio che per poco si era aperto
nella "piramide
sindacale". Nonostante ciò, come anarchico, come rivoluzionario ho sentito il dovere di
far si che, per lo meno
in teoria attraverso lo statuto (che ho contribuito ad elaborare) fosse garantita ai lavoratori la
possibilità
di partecipare direttamente alla gestione della propria emancipazione. Questo non si è poi
verificato nella
realtà per due motivi fondamentali e concatenati fra di loro. Da una parte c'è il lavoratore
che, dalla
scomparsa del sindacalismo rivoluzionario e libertario, è abituato a delegare ai propri sindacalisti
i propri
interessi, vittima del senso di inferiorità e frustrazione (dono dell'ideologia e dell'educazione della
società
basata sullo sfruttamento); dall'altra c'è il sindacato che, consapevole dei limiti nel quale il
lavoratore è
costretto ad agire, a vivere, invece che aiutarlo ad emanciparsi, ad autogestire la propria vita, i propri
interessi, gli chiede l'avvallo alla politica sindacale determinata dai vertici. (...) La conseguenza logica di
tutto questo è che la politica sindacale non viene determinata e discussa dai lavoratori nelle
assemblee di
reparto (quasi inesistenti) di cui i delegati, portavoce della base, amalgamerebbero e sintetizzerebbero
le
istanze nel Consiglio d'Azienda, riportandone le proposte nelle assemblee per discuterle ed approvarle;
ma,
come è sempre avvenuto, è il sindacato che porta la sua linea all'interno del Consiglio
d'Azienda attraverso
i suoi uomini che, come ho detto, hanno la duplice funzione di membri del direttivo (sindacale) e di
delegati
di reparto. A questo punto è sempre più chiara la linea di tendenza che caratterizza la
politica sindacale e
il Consiglio d'Azienda, ridotto ad una branca, ad uno strumento burocratico periferico del sindacato,
invece
che essere uno strumento dei lavoratori. (...)". In definitiva, almeno nell'azienda dove lavoro,
la creazione del Consiglio d'Azienda è stata voluta dal sindacato
con il preciso scopo di recuperare tutte quelle frange di lavoratori che si stavano allontanando dal
sindacato e
per accontentare quei pochi che chiedevano nuove strutture. Questo ha voluto denunciare la mia lettera
di
dimissioni, che ha suscitato grandissimo scalpore da parte dei sindacati. Si è giunti al punto di
proporre la mia
radiazione dal Consiglio d'Azienda prima che fossero discusse le mie dimissioni ma la proposta non
è stata
accettata ed invece sono state approvate "solo" ... le mie dimissioni. PAOLO - Ora che ciascuno di
voi cinque ha parlato della propria esperienza, credo sia giunto il momento di
passare ad un bilancio complessivo delle esperienze fatte. Entriamo così nel vivo del problema
che questa tavola
rotonda vuole affrontare e cioè la validità o meno dei Consigli di Fabbrica oggi in Italia,
lo spazio che al loro
interno può trovare un lavoratore rivoluzionario senza scendere a compromessi con il
riformismo, il rapporto fra
l'esperienza dei c.d.f. e quella dell'assemblea autonoma (e, più in generale, della tematica
dell'autonomia
operaia), ecc. Senza avere la pretesa di dire una parola definitiva in proposito, è interessante
conoscere l'opinione
di chi come voi ha vissuto dall'interno i temi che sono in discussione. GIANNI - A mio
avviso bisogna tenere sempre presente il tentativo (purtroppo quasi ovunque riuscito) da parte
dello stato e dei padroni di recuperare ed ingabbiare le spinte autonome che i lavoratori hanno espresso
con
particolare vigore a partire dal 1968-69. Questo tentativo si è infatti prodotto a tutti i livelli della
vita sociale: alla
creazione dei c.d.f. nelle aziende corrisponde, per esempio, il varo dei "decreti delegati" nella scuola. A
questo
ingabbiamento delle spinte autonome e libertarie il sindacato partecipa da protagonista, di fatto d'accordo
con
le altre istituzioni dello stato. Il problema del "che fare?" in questa situazione non è certo di facile
soluzione.
Credo che bisogni innanzitutto tenere ben presenti le differenze che intercorrono fra una situazione e
l'altra. Vi
sono delle aziende dove, per esempio, il c.d.f. può ancora offrire la possibilità di un utile
lavoro fra la base,
mentre altrove ciò è decisamente impossibile. Se è possibile restare a volte come
delegati di reparto nei c.d.f.,
escluderei comunque sempre la validità di un'iscrizione al sindacato: se vogliamo (almeno in
prospettiva) costruire
qualcosa di autonomo, allora dobbiamo fare in modo che già da oggi i lavoratori ci identifichino
come individui
ben distinti dalle attuali strutture burocratiche sindacali. E' comunque sul posto di lavoro che si
potrà verificare
la possibilità di creare strutture alternative al sindacato (inizialmente, collettivi, comitati di lotta,
ecc.): questa è
anche la proposta pratica che intendo fare ai lavoratori del mio reparto che hanno espresso l'intenzione
di
rieleggermi come delegato di reparto nel c.d.f. Credo che sarebbe più positivo riuscire a
riunire i lavoratori che si sono mostrati più sensibili al nostro discorso
e dibattere con loro (per ora solo nel reparto, dopo anche in tutta l'azienda) la via migliore da seguire
al di fuori
del sindacato. MAURO - Concordo con quanto ha affermato Gianni sul recupero attuato
dalle istituzioni (sindacati compresi)
per stroncare le spinte autonome dei lavoratori, ma ci tengo a sottolineare che a mio avviso vi è
molto spazio per
un nuovo intervento in fabbrica, per aumentare la nostra credibilità, per essere autonomamente
presenti nelle lotte
di lavoratori. Alla "Michelin" noi abbiamo presentato delle proposte concrete per la ristrutturazione del
c.d.f.:
dopo la presentazione di queste nostre proposte ho notato che gli interventi da me fatti nel corso delle
assemblee
dei lavoratori sono seguiti con molta maggiore attenzione e certi sindacalisti ci pensano due volte prima
di
accusarmi di essere un "provocatore". A condizione che vengano costantemente ribaditi alcuni punti
essenziali
(rotazione dei delegati, limitazione precisa dei compiti dell'esecutivo del c.d.f. ecc.) la nostra presenza
nei c.d.f.
può essere decisamente positiva. L'importante è che nelle fabbriche il c.d.f. resti
espressione diretta della volontà
dei lavoratori, perché in caso contrario saranno le centrali sindacali a manovrarli dall'alto:
l'autonomia del c.d.f.
dalle burocrazie sindacali va verificata in pratica, non bastano le belle affermazioni di principio negli
statuti, se
poi questi restano lettera morta. GIORGIO - La mia esperienza mi ha mostrato un pericolo: quello
di essere strumentalizzato dal sindacato. Le
difficoltà che a volte ho incontrato nell'esprimermi mi hanno reso a volte impossibile la
partecipazione attiva al
dibattito, che viene generalmente gestito da chi - come i burocrati sindacali - ha la parlantina facile. Mi
è capitato
a volte di trovarmi "utilizzato" da un sindacato nella sua polemica contro un altro (per esempio dalla
C.G.I.L.
contro la U.I.L.). E' quindi necessario che ai c.d.f. partecipino compagni preparati, capaci di ribattere
sempre le
affermazioni dei sindacalisti: altrimenti, come ho detto, si rischia di fornire solo una copertura al
sindacato. Per
quanto riguarda il problema dell'iscrizione o meno a un sindacato, concordo con quanto affermato da
Gianni:
io non sono iscritto a nessun sindacato e credo che l'esserlo sia un fatto negativo. CORRADO - La
nostra esperienza a Porto Marghera è certamente molto diversa da quella descritta dagli altri
compagni qui presenti. Tanto per fare un esempio, è quasi impossibile pensare ad un recupero
positivo del c.d.f.
a livello di organizzazione di base. Non parliamo poi dell'esecutivo, che è praticamente parte
integrante del
sindacato. L'alternativa che a mio avviso bisognerebbe cominciare a costruire si dovrebbe basare sui
collegamenti diretti fra
i vari reparti, al di fuori dell'attuale c.d.f. ed anzi con l'intento di scalzarlo. MAURO - Se ho ben
capito la vostra proposta sarebbe quella di ricostruire i c.d.f. che non abbiano le carenze
degli attuali. E' questo insomma il succo della vostra esperienza nell'assemblea
autonoma? CORRADO - Un attimo. Bisogna distinguere fra quello che può essere un
intervento (anche valido) in sede di
c.d.f., dove tanto passerà comunque la linea del sindacato, e quella che è la nostra
proposta di coordinamento
di base fra i vari reparti assolutamente al di fuori ed in polemica con la politica e le strutture organizzative
sindacali. La nostra proposta permette di non avvallare le scelte dell'esecutivo del c.d.f. (cioè del
sindacato) e
di cercare di organizzarsi autonomamente per portare avanti le nostre lotte, decise e discusse direttamente
alla
base. GIANNI - Vorrei sottolineare un aspetto che non può essere trascurato e precisamente
il fatto che spesso noi,
singoli lavoratori anarchici in realtà diverse, siamo l'unico punto di riferimento per un certo tipo
di discorso
rivoluzionario, anti-burocratico, all'interno delle nostre aziende. Nel contempo non dobbiamo dimenticare
che
anche i burocrati sindacali hanno sempre ben chiaro davanti ai loro occhi il loro programma, il
programma del
loro sindacato; per cui se i nostri interventi nel c.d.f. non possono che suscitare, nella migliore delle
ipotesi, un
certo interesse e rispetto, alla fine sarà sempre la linea del sindacato a prevalere e la nostra ad
essere accantonata.
Questo non tanto perché (e qui replico a Giorgio) spesso noi non si sia in gradi di parlare bene
come i burocrati
sindacali, quanto perché questi ultimi esprimono una linea che è antitetica rispetto alla
nostra. Anzi si può dire
che ci muoviamo su due piani diversi, tra i quali non è possibile comunicare: noi puntiamo allo
sviluppo della
coscienza rivoluzionaria ed egualitaria fra i lavoratori, loro non pensano che a risolvere qualsiasi vertenza
sedendosi allo stesso tavolino con i padroni. Oggi come oggi il sindacato fa lo stesso discorso che faceva
prima
della creazione dei c.d.f., la sua linea politica non è certo cambiata. Sotto molti aspetti il c.d.f.
può rivelarsi una
"trappola" contro la crescita in senso rivoluzionario della coscienza degli sfruttati.
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