Rivista Anarchica Online
Prigioniero di Franco
di R. Brosio
Il vecchio autobus sferragliava per le strade di Barcellona, seguendo il
suo abituale percorso. Al piano
superiore, Miguel Garcia cercava di dissimulare l'ansia che lo attanagliava. Poco prima, a casa del
compagno José Corral Martin, era riuscito per un pelo ad evitare di essere arrestato.
L'abitazione era
piena di poliziotti, ma l'espressione sconvolta del suo amico l'aveva messo in guardia. Era fuggito senza
entrare, prima che potessero agguantarlo. Ora si domandava cosa fosse successo e non sapeva che
fare. Improvvisamente, davanti alla Prefettura di Polizia, l'autobus si fermò. Garcia
allungò il collo per
guardare dal finestrino, ma qualcuno dietro di lui disse secco: "Non muoverti o sei morto!". Una pistola
gli premeva la nuca. Vide i passeggeri rattrappirsi spaventati sui sedili, mentre quattro agenti in borghese
lo circondavano con le armi spianate. Cinque minuti dopo, le porte della Prefettura si chiudevano alle
sue spalle. Era il 21 ottobre 1949, e scene come quella si stavano ripetendo a decine, con poche
varianti, in tutta
la città. Un giovane militante, arrestato quasi per caso, non era riuscito a sopportare le torture
e aveva
parlato. Dalle sue informazioni, la polizia politica era riuscita a ricostruire buona parte della rete
organizzativa della Resistenza libertaria al franchismo. Ora, stava procedendo con spietata efficienza
al
suo smantellamento. Vennero operati più di duecento fermi di cui cinquantatre tramutati poi
in arresto.
Dieci anarchici furono uccisi in scontri a fuoco, alcuni assassinati freddamente dopo la cattura. Undici,
che erano riusciti a non farsi prendere, vennero catturati il giorno dopo. Pochissimi si salvarono, e
dovettero attendere parecchio tempo, prima di poter riprendere la lotta. Incatenato ad un
termosifone, dentro la Prefettura, Miguel Garcia assistette impotente ai vari atti della
tragedia, mentre aspettava, semi-dimenticato nella confusione, il suo turno per l'interrogatorio. Vide tutti
i compagni più cari trascinati in cella, udì le loro grida sotto la tortura, ascoltò
l'oscena soddisfazione
degli sbirri che si congratulavano reciprocamente per le uccisioni.
torture e massacri
Il movimento della Resistenza, di cui quel giorno tremendo sembrava segnare la morte definitiva,
era
sorto quasi spontaneamente dopo la disfatta, come logica continuazione dello spirito rivoluzionario della
guerra civile, e come risposta ai massacri con cui il nuovo regime stava travolgendo la Spagna per
stabilizzarsi al potere. Garcia ne fu uno dei primissimi animatori, insieme ad altri personaggi che
sarebbero poi divenuti leggendari: i fratelli Sabater, Luis Facerias, Josè Culebra,
eccetera. All'inizio, non fu cosa facile. Il Movimento Anarchico era uscito dissanguato dalla guerra
e non aveva
certo la forza di iniziare subito la lotta clandestina contro Franco e i suoi accoliti. Garcia, come quasi
tutti i militanti libertari che ebbero la fortuna di non venire subito passati per le armi, finì in
prigione, reo
di aver partecipato attivamente alla difesa di Madrid. Il luogo era veramente allucinante, un
ex-magazzino di 250 metri quadrati, in cui si stipavano, in condizioni igieniche spaventose, quasi 500
prigionieri, mal nutriti e trattati come animali. Qui Garcia passò ventidue mesi. Una volta
libero, di nuovo nella sua Barcellona, fu contattato da "El Pepè", il maggiore dei fratelli
Sabater, e iniziò con lui a lavorare per la riorganizzazione del movimento. Si era nel 1941, e
nonostante
le condizioni durissime in cui dovevano operare, per le poche forze disponibili e la morsa di ferro del
regime, gli anarchici guardavano al futuro con un certo ottimismo. Era opinione di molti, infatti, che i
falangisti avrebbero trascinato il paese nella guerra mondiale, a fianco dei loro cugini italiani e tedeschi,
e che, di conseguenza, sarebbero stati travolti nel medesimo, prevedibile, disastro. Questo lasciava
sperare in una nuova occasione rivoluzionaria, a scadenza sufficientemente ravvicinata. Per motivi
ovviamente diversi, anche le "democrazie antifasciste" avevano tutto da guadagnare dalla
caduta di Franco e vedevano quindi con cinico favore lo svilupparsi di un movimento antifranchista.
Ciò
spinse l'Intelligence Service britannico a offrire denaro agli anarchici che, come Garcia, si davano da fare
per la continuazione clandestina della lotta. L'offerta non venne accolta col medesimo entusiasmo da
tutti
i militanti, ché molti (a ragione) vi vedevano il pericolo di venire strumentalizzati per fini che
nulla
avevano a che fare con l'emancipazione dallo sfruttamento. D'altro canto essa poteva significare una
ripresa quasi immediata della lotta libertaria e, nelle condizioni del momento, non era forse il caso di
guardare troppo per il sottile. Sta di fatto che i primi gruppi guerriglieri, operanti nei Pirenei, furono
organizzati anche grazie all'aiuto britannico. Al di là delle polemiche tattico-dottrinarie, i
contatti con l'Intelligence Service ebbero per Garcia un
effetto importante: gli diedero un mestiere, seppur illegale e pericoloso. Un agente inglese, infatti, gli
insegnò l'arte della falsificazione, trovando un allievo attento, abile e interessato, tanto da
superare, in
breve tempo, lo stesso maestro. Garcia diventò così il falsificatore ufficiale (o quasi)
del movimento
anarchico: suoi ferri del mestiere non furono più la dinamite o il mitra, ma inchiostri, acidi,
torchi da
stampa. Con essi, in quasi dieci anni di attività clandestina, inondò il paese di una serie
interminabile di
licenze, ordini, visti, perdoni, carte d'identità, eccetera, secondo un piano preciso di lavoro, che
aveva
per scopo non solo l'uso strumentale dei documenti falsificati, ma anche la svalutazione degli originali
e l'indebolimento quindi delle strutture "legali" del nuovo regime. Questa feconda attività
"editoriale" venne bruscamente interrotta, come si disse all'inizio, dal grande
porgrom del 21 ottobre 1949. Con esso Miguel Garcia sparì dal cospetto del
consesso umano, per
diventare un prigioniero politico inghiottito dal sistema carcerario spagnolo. E nella concezione di tale
sistema, "i prigionieri politici non stanno in galera per essere redenti, ma per essere
spezzati".
L'esperienza sarebbe durata vent'anni.
condannato a morte
Dapprima, le prospettive erano sembrate, se possibile, ancora peggiori. Quando, dopo due anni e
mezzo
di istruttoria, arrivò finalmente il giorno del processo, il tribunale comminò nove
condanne a morte
mediante fucilazione, per aver preparato e fomentato la ribellione armata contro il governo. Garcia era
uno dei nove. Con i suoi compagni di idea e di sventura, venne rinchiuso nel braccio della morte. Vi
restò ventotto giorni, ventotto giorni di attesa logorante ognuno vissuto come l'ultimo della sua
vita. La
legge spagnola non prevede che la sentenza fissi anche la data dell'esecuzione, e ogni momento, quindi,
poteva essere quello buono per l'ultimo viaggio. Alla fine, il 13 marzo 1952, giunse la notizia che,
insieme ad altri tre, la pena gli era stata commutata in 30 anni di galera. I restanti cinque furono portati
al plotone di esecuzione quella notte stessa. Gli scampati udirono, dalle loro celle, i passi dei guardiani
che prelevavano i condannati, udirono i loro nomi scanditi con agghiacciante formalismo dal direttore
del carcere, udirono il grido degli uomini che andavano a morire: "Viva la F.A.I.! Viva la Resistenza!".
Pochi giorni dopo iniziarono i trasferimenti dei prigionieri, ognuno verso la prigione dove avrebbero
dovuto scontare la pena che aveva loro salvato la vita. Garcia fu destinato a Valencia, nella prigione di
S. Miguel de los Reyes. Ma non aveva alcuna intenzione di arrivarvi. Il lungo viaggio in treno si
preannunciava come un'ottima occasione per tentare la fuga, unica alternativa alla lunga detenzione che
lo aspettava. Con uno stratagemma, poco prima di partire, riuscì a far avvisare un compagno
di
Tarragona, fabbro di professione, che avrebbe dovuto fabbricare una chiave capace di aprire la serratura
delle manette. L'idea era di ricevere la chiave appunto a Tarragona, dove il treno avrebbe fatto una lunga
sosta, liberarsi e scappare via in qualche modo. I prigionieri, a quel tempo, non viaggiavano su convogli
speciali, ma su treni di linea, insieme, se pur sotto scorta, ai normali passeggeri, quasi che il regime
volesse di proposito offrire lo spettacolo degli uomini incatenati agli spagnoli, per ricordare loro di
essere stati vinti e conquistati. Questo, nel caso specifico, favoriva la possibilità di una fuga. Le
cose
andarono come previsto, facilitate dal fatto che gli sbirri di scorta si erano addormentati profondamente.
Già Garcia, ricevuta la chiave, stava aprendosi le manette, quando il prigioniero che gli stava
accanto
lo afferrò per un braccio, spaventato, dicendo "No, no, non farlo!". Garcia cercò di
continuare la sua
opera, ma il piccolo trambusto svegliò uno dei poliziotti, che chiese cosa stesse succedendo.
"Mi fan
male le manette!" disse Miguel, nascondendo la chiave. Lo sbirro si considerò soddisfatto della
risposta,
ma ormai era sveglio. L'occasione era andata in fumo. Questo non fu l'unico tentativo di fuga di
Garcia. Per tutto il periodo in cui restò seppellito nelle galere
spagnole, egli non volle mai rassegnarsi alla sua condizione, non smise mai di lottare. Si considerava una
sorta di prigioniero di guerra, catturato dal nemico in una operazione sfortunata. E il dovere di un
prigioniero di guerra è, come si sa, di scappare. La cosa appare tanto più valida, tanto
più degna
d'ammirazione se si pensa che, ad ogni insuccesso, le punizioni fioccavano senza pietà, in una
spirale
continua di repressione. Cella di isolamento subito, condita da una razione di maltrattamenti, dispetti
e
privazioni superiore al consueto. Poi l'istruttoria inquisitrice, il processo e, come conseguenza, gli
aggravi di pena. E ancora, trasferimenti a carceri più duri, dove arrivava seguito dalla sua fama
di ribelle
incorreggibile, e trovava ad attenderlo il rinnovato impegno delle autorità per "piegarlo".
l'ammutinamento
Miguel Garcia restò a S. Miguel de los Reyes fino al 1959. Durante questo periodo si prese
altri 10 anni
di prigione, da scontare al termine dei 30, per aver ricevuto una pistola nel carcere, celata nel doppio
fondo di una valigia di indumenti speditagli da fuori. La durezza della condanna sta ad indicare
l'impressione che fece l'episodio, che gli valse reputazione e rispetto da parte dei compagni di pena.
Inoltre fu condannato a 5 mesi e 10 giorni per aver partecipato ad una rivolta di detenuti. Quest'ultima
era nata per motivi futili, anche se comprensibili: i prigionieri erano stufi della ossessionante propaganda
religiosa che veniva loro ammannita attraverso le proiezioni cinematografiche, che, oltre a tutto,
pagavano di tasca propria con i magri guadagni dei lavori che svolgevano in carcere. Chiedevano belle
donne e cow-boys, invece che le edificanti storie di preti e suore del peggior cinema spagnolo. Una
prima
protesta venne repressa con la consueta "delicatezza", col risultato di accendere ancor di più
gli animi.
Tutte le angherie, le vessazioni, i taglieggiamenti cui i detenuti erano sottoposti dai sorveglianti violenti,
dagli amministratori disonesti, si incanalavano in quelle richieste banali, ed esplosero in un furibondo
quanto spontaneo scontro con le guardie accorse per sedare la sommossa. Lo stesso direttore della
prigione rischiò di essere bastonato energicamente, mentre gli sbirri, colti di sorpresa, si
ritiravano. La
calma ritornò dopo che il direttore ebbe dato assicurazione del suo interessamento a Garcia (che
fungeva
da rappresentante degli ammutinati), riconoscendo la validità delle richieste, e promettendo che
non ci
sarebbero state punizioni. Al processo che, nonostante ciò, si tenne qualche tempo più
tardi, Garcia colse
l'occasione per denunciare la massa di irregolarità, contro gli stessi codici franchisti, che
accadevano a
S. Miguel de los Reyes, e per dimostrare che esse erano il vero motivo della rivolta. Forse per questo,
le condanne furono relativamente miti. Per punizione, comunque, Garcia venne trasferito a Teruel,
dove le condizioni di vita erano pessime, e
di lì, poco dopo, ad Alicante. Lì restò fino al 1966, anno in cui dovette
nuovamente mettersi in viaggio,
manette ai polsi e sbirri a fianco, per raggiungere il carcere di Soria. Era l'ultima pensata del governo
spagnolo, che aveva deciso di concentrare tutti i prigionieri politici in un unico luogo, per tenerli
maggiormente sotto controllo e, soprattutto, per segregarli dal contatto con i delinquenti comuni. La
presenza dei "politici" in tutte le galere iberiche, infatti, era la testimonianza vivente della repressione
su cui il regime basava la sua sopravvivenza, e Franco cominciava ormai a desiderare di presentarsi al
mondo con una faccia più tollerante e meno autoritaria. Inoltre, la tenacia e il coraggio dei
politici si
erano rivelati un pericoloso veicolo di infezione ideologica per gli altri detenuti, che imparavano a
conoscere, da loro, quelle idee rivoluzionarie che il dittatore sperava di sradicare completamente dalla
testa degli spagnoli.
Stuart Christie
Nel viaggio di trasferimento Garcia si ammalò. Era vecchio, ormai segnato profondamente
dai guasti
che la vita di prigione aveva prodotto nel suo fisico. Dovette sostare per qualche tempo nell'infermeria
del carcere di Carabanchel. Qui conobbe Stuart Christie, il giovane anarchico scozzese che aveva
portato, con la sua vicenda, il problema spagnolo sulle prime pagine di tutti i giornali dei paesi
"democratici". Christie era entrato in Spagna con l'aria del turista innocente che gira il mondo in
autostop, ma aveva lo zaino pieno di esplosivo e un progetto per giustiziare il Caudillo. Era stato
scoperto, arrestato, e condannato a vent'anni. Il caso aveva sollevato in Inghilterra un notevole
movimento di opinione a favore di quel giovanotto, ponendo in serio imbarazzo le autorità
franchiste.
Di colpo, il regime aveva visto dissolversi la nuvola di disinteresse che lo proteggeva agli occhi del
mondo, e si era sentito sotto accusa per la violenza, la repressione, con cui governava il
paese. Christie e Garcia simpatizzarono subito e decisero di restare in contatto, quando (e se)
fossero usciti di
prigione. Lo scozzese rappresentava per Garcia la nuova generazione di libertari, il simbolo della lotta
che non muore, che non si arresta. E, in effetti, una nuova generazione di oppositori del franchismo
andava prendendo consistenza, dopo il silenzio degli ultimi anni, ed i suoi rappresentanti cominciavano
ad affollare il carcere di Soria. Era triste vederli arrivare in quel luogo di pena, ma era anche il sintomo
che la guerra contro l'oppressione non era finita. Giungevano i nuovi nazionalisti baschi dell'E.T.A., i
militanti delle comisiones obreras, gli studenti di sinistra. Giungevano i compagni del
risorgente
anarchismo iberico, i Conill, i Luis Edo, e con loro l'eco delle agitazioni, delle rivolte che le idee
libertarie
erano nuovamente capaci di ispirare. Il concentrare a Soria tutti i prigionieri politici, era stato un
errore per il regime. Nel carcere si sviluppò
un movimento per la riduzione delle condanne e l'applicazione delle leggi sulla libertà
condizionata, cui
Garcia aderì subito con impegno, nonostante la salute malandata. Era uno dei veicoli attraverso
cui
l'anarchismo poteva arrivare a suscitare l'interesse di un tempo e, ironia della sorte, prendeva origine e
trovava di che rafforzarsi proprio là dove Franco era convinto di averlo seppellito per sempre,
nelle
galere. In questo periodo, Garcia scrisse un'infinità di lettere e di articoli sui prigionieri politici
spagnoli,
facendoli uscire clandestinamente all'esterno, dove potevano essere adoperati come utile materiale di
propaganda. Nel 1969, Miguel Garcia ottenne la libertà condizionata, e uscì di
prigione. La Spagna gli apparve strana,
diversa, morta. Se fuori di essa il movimento rivoluzionario andava riprendendo vigore, lì la
gente
sembrava preoccupata soprattutto di una cosa, dimenticare. Ma Garcia, dopo la guerra civile, dopo la
Resistenza, dopo 20 anni di carcere, non poteva dimenticare. Come sempre, non avrebbe accettato di
piegarsi, non avrebbe accettato il silenzio, il disimpegno, la sottomissione che il regime gli domandava,
ora, in pagamento della sua libertà. Stuart Christie, che nel frattempo era stato anch'egli
rilasciato, gli
scrisse dall'Inghilterra, invitandolo. Garcia accettò. Sulla nave che lo portava a Londra, gli
capitò di
stupirsi di essere sopravvissuto.
R. Brosio
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